Cassazione Penale, 28 luglio 2011, n. 30071 - Smaltimento di materiali tossici e mancanza di formazione professionale


 

 

 

Responsabilità della rappresentante legale di una srl per avere fatto sì che il personale della ditta procedesse alla rimozione di materiale contenente amianto e alla bonifica e al recupero di rifiuti contenenti amianto in assenza della presentazione del piano previsto dall'art. 34 del d.lgs 15 agosto 1991, n. 277 e della necessaria iscrizione all'albo previsto dal d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22.

Condannata in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione - Inammissibile.


La Corte rileva che le attività di incapsulamento e protezione del materiale rimosso fanno parte della procedura di bonifica e recupero del rifiuto, procedura che si avvia con la rimozione del materiale dalla sede ove era collocato e si conclude con la destinazione finale al luogo di smaltimento.

Correttamente, afferma il Collegio, la Corte territoriale ha ritenuto che quelle attività siano riconducibili alla gestione e al "recupero" del materiale contenente amianto e debbano, come tali, essere svolte solo da persone fisiche o giuridiche in possesso dei requisiti di legge e delle necessarie autorizzazioni.

La sentenza impugnata ha accertato che la ditta amministrata dalla ricorrente inviò presso il sito ove si trovava il materiale da trattare due persone che hanno dichiarato di non essere dipendenti della stessa e di essersi limitati a "dare una mano", deducendo in modo certo non illogico che si trattava di persone prive di formazione e professionalità adeguate alla delicatezza delle operazioni di trattamento dell'amianto.

Muovendo da questa premessa, la Corte rileva che risulta accertato in fatto che la ricorrente ha incaricato due persone operanti per la sua ditta di partecipare per una specifica parte (neutralizzazione dei rifiuti mediante verniciatura e impacchettamento) alle attività di recupero di rifiuti contenenti amianto gestite in via principale da altri; che tali persone non erano dotate né di specifica formazione; che l'intera attività è stata realizzata senza rispettare le regole fissate dalla legge in tema di iscrizione, in tema di comunicazione, in tema di cautele da adottare.

 


 

 

 

Fatto

 



Con sentenza del Tribunale di Messina, Sezione distaccata di Milazzo, in data 6 marzo 2008 la Sig.ra (...) è stata condannata, quale rappresentante della “(...) Srl" alla pena di 8 mesi di arresto e 16.000,00 euro di ammenda per la violazione a) dell'art. 34 del d.lgs 15 agosto 1991, n. 277 (fatto commesso il 3 giugno 2006).

In particolare, la Sig.ra (...) è stata ritenuta responsabile di avere fatto sì che personale della ditta procedesse alla rimozione di materiale contenente amianto (capo b) e alla bonifica e al recupero di rifiuti contenenti amianto (capo a) in assenza della presentazione del piano previsto dal citato art. 34 e della necessaria iscrizione all'albo previsto dal d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22.

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Messina ha respinto tutti i motivi di impugnazione. Richiamata la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, la Corte di Appello ha rilevato che le cautele previste dalla legge riguardano tutte le operazioni che comportano per i lavoratori rischi da esposizione all'amianto e che non possono restare escluse dalla tutela proprio le operazioni di "incapsulamento" che vanno considerate certamente pericolose. Inoltre, le stesse dichiarazioni delle due persone che operarono per conto della ditta dell'imputata risultano essere prive di specifica professionalità, cosa che accresce i rischi per la salute. In conclusione, la chiara interpretazione che la giurisprudenza di legittimità ha dato delle norme in esame (Sezione Terza penale, sentenza n. 39360 del 2006) impone di confermare la condanna dell'imputata.

Avverso tale decisione ricorre la Sig.ra (...), lamentando:

1. violazione ed errata applicazione dell'legge del 1997 e include solo le attività che portino alla destinazione finale del rifiuto, non quelle antecedenti. Manca, poi, la prova che il materiale trattato contenesse effettivamente amianto.

2. violazione dell'art. 606 c.p.p. per avere la Corte, innanzitutto, omesso di fornire la pur minima motivazione sul contenuto della contestazione sub b), non potendo considerarsi sufficiente il richiamo operato mediante un'aggiunta manoscritta al testo dattiloscritto. In secondo luogo, la ricorrente lamenta l'errata ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, che non hanno correttamente apprezzato il testimoniale e le fotografie in atti, da cui risulta che le operazioni di rimozione e di trasporto del materiale furono effettuate da altri, come dimostra l'esiguo compenso percepito dalla ditta, pari a soli 100,00 euro.

 

 

Diritto




Rileva preliminarmente la Corte che le censure mosse alla sentenza d'appello sono manifestamente infondate, e del resto ricalcano le censure di merito mosse alla prima decisione e in tal senso possono considerarsi viziate anche da genericità.

La lettura della motivazione della sentenza impugnata rende evidente che la condotta oggetto di valutazione è limitata alle sole attività di "incapsulamento" del materiale e di inserimento dello stesso all'interno di custodie in cellophane; la motivazione è chiara, infatti, nell'attribuire a terzi sia le condotte anteriori (rimozione del materiale dalla sede in cui si trovava) sia quelle successive (caricamento e trasporto), così che non vi è alcun fondamento in fatto dell'articolata censura contenuta sul punto nel secondo motivo di ricorso.

Sempre in via preliminare deve considerarsi tardiva, perché introdotta per la prima volta in questa sede, e infondata la censura concernente la mancanza di prova della presenza di amianto nei materiali trattati; si tratta, fra l'altro, di presenza che sola giustifica le operazioni di incapsulamento e protezione oggetto dei capi di imputazione e delle decisioni adottate.

Venendo al primo motivo di ricorso, la Corte rileva che le attività di incapsulamento e protezione del materiale rimosso fanno parte della procedura di bonifica e recupero del rifiuto, procedura che si avvia con la rimozione del materiale dalla sede ove era collocato e si conclude con la destinazione finale al luogo di smaltimento. Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha ritenuto che quelle attività siano riconducibili alla gestione e al "recupero" del materiale contenente amianto e debbano, come tali, essere svolte solo da persone fisiche o giuridiche in possesso dei requisiti di legge e delle necessarie autorizzazioni.

Quanto, poi, al secondo motivo di ricorso, la Corte rileva che non sussiste il lamentato vizio di radicale carenza di motivazione in ordine al capo b), posto che l'integrazione manoscritta segnalata dalla ricorrente non costituisce l'unico riferimento motivazionale ed è presente nelle righe precedenti uno specifico passaggio relativo alle condotte contestate ex art. 34 d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277.

Venendo alle restanti censure, una volta escluso come da osservazioni preliminari che sussistano vizi radicali nella ricostruzione del fatto e nell'attribuzione delle condotte alla ricorrente, occorre verificare se i giudici di merito abbiano erroneamente applicato l’art. 34 del d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277 al fatto come ricostruito. Tale verifica deve prendere le mosse dalla circostanza che la sentenza impugnata ha accertato (pag.4) che la ditta amministrata dalla ricorrente inviò presso il sito ove si trovava il materiale da trattare due persone che hanno dichiarato di non essere dipendenti della stessa e di essersi limitati a "dare una mano", deducendo in modo certo non illogico che si trattava di persone prive di formazione e professionalità adeguate alla delicatezza delle operazioni di trattamento dell'amianto.

Muovendo da questa premessa, la Corte rileva che risulta accertato in fatto che la ricorrente ha incaricato due persone operanti per la sua ditta di partecipare per una specifica parte (neutralizzazione dei rifiuti mediante verniciatura e impacchettamento) alle attività di recupero di rifiuti contenenti amianto gestite in via principale da altri; che tali persone non erano dotate né di specifica formazione; che l'intera attività è stata realizzata senza rispettare le regole fissate dalla legge in tema di iscrizione, in tema di comunicazione, in tema di cautele da adottare.

Rispetto a questa situazione di fatto, le conclusioni cui è giunta la sentenza impugnata non risultano né incoerenti né manifestamente illogiche, così che difettano i presupposti legittimanti il ricorso proposto.

Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di 1.000,00 euro in favore della Cassa delle Ammende.


P.Q.M.




Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nonché al versamento della somma di mille euro alla Cassa delle ammende.