Cassazione Penale,  28 settembre 2011, n. 35204 - Datore di lavoro pubblico e responsabilità per la morte di un netturbino


 

 

 

 

Responsabilità di un datore di lavoro per la morte di un operaio addetto alla raccolta rifiuti, sbalzato improvvisamente fuori dall'autocompattatore guidato da altro lavoratore.

I Giudici di merito avevano addebitato all'imputato di aver commesso il fatto sia per colpa generica sia per la violazione della specifica normativa antinfortunistica, avendo egli omesso di vigilare sull'osservanza dell'uso delle cinture di sicurezza e dei caschetti di protezione: presidi entrambi presenti sull'autocompattatore, ma non utilizzati dalla vittima ex artt. 4, 5 e 35 D.Ivo n. 626 del 1994 ed avendo altresì il prevenuto destinato un soggetto non dotato di equilibrio, stabilità fisica e prontezza di riflessi, in quanto affetto da postumi di poliomielite, al compito di viaggiare in piedi sulla pedana posta sul retro dell'autocompattatore, sempre in violazione dell'art. 4 dello stesso D.l.vo n. 626 del 1994.


Condannato, ricorre in Cassazione - la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché estinto il reato per prescrizione.

 

Il Collegio prima di tutto afferma che Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione della specifica normativa, puntualmente recependo l'orientamento - consolidato e prevalente - della giurisprudenza di legittimità in tema di individuazione del dipendente pubblico titolare della qualifica di datore di lavoro, nell'ambito dell'organigramma degli enti pubblici territoriali, cui incombe l'osservanza dei precetti antinfortunistici.

In secondo luogo, la Suprema Corte ribadisce la responsabilità dell'imputato per aver adibito la vittima alle mansioni di netturbino - che comportavano lo stazionamento del lavoratore, in equilibrio ed in piedi, sulla pedana posteriore dell'autocompattatore in movimento, benché affetto da postumi di poliomielite tali da comprometterne la stazione eretta e le capacità prensili dell'arto superiore destro.

Inoltre, versando in generica negligenza ed incorrendo nella violazione dell'art. 4, comma 5° lett. f) D.l.vo n. 626 del 1994, aveva omesso di istruire i lavoratori e di vigilare sull'impiego dei mezzi di sicurezza individuali ed in particolare delle cinture di sicurezza e dei caschetti preordinati alla salvaguardia di eventuali lesioni al capo, mai indossati durante il lavoro svolto a bordo dell'autocompattatore, come comprovato dalla deposizione del teste V.

Quanto all'eventuale responsabilità della vittima, la Corte d'appello ha giustamente escluso, attenendosi anche sul punto alla consolidata giurisprudenza di legittimità, che l'omesso impiego delle cinture di sicurezza (il cui uso, attesa la ricostruzione dell'infortunio nei termini sopraricordati, avrebbe pacificamente impedito la caduta del C. e quindi l'evento letale conseguitone) abbia costituito un comportamento anomalo ed imprevedibile tale da interrompere il nesso di causa con le evidenziate omissioni ascrivibili a colpa dell'imputato.


 



Fatto



Ricorre per cassazione L.P. per tramite del difensore, avverso la sentenza emessa in data 11 marzo 2010 dalla Corte d'appello di Reggio Calabria con la quale, in parziale riforma della sentenza 24 ottobre 2005 del Tribunale di Reggio Calabria, veniva ridotta la pena ad mesi OTTO di reclusione con conferma delle statuizioni relative all'affermazione della penale responsabilità dell'imputato in ordine all'accertato delitto di cui agli artt. 40 cpv. 589 / 1°, 2° e 3° comma , commesso in Motta S. Giovanni località Lazzaro, il 17 giugno 1999 in danno del lavoratore C.P. nonché la condanna del prevenuto in solido con il responsabile civile: Comune di Motta S. Giovanni, al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

In esito all'espletata istruttoria era rimasto accertato che il C. in qualità di operaio addetto alla raccolta rifiuti del Comune di Motta S.Giovanni, dopo esser risalito sulla pedana posteriore dell'autocarro adibito al tale operazione (condotto da C.C. anch'egli imputato dello stesso delitto e poi assolto dal Tribunale per difetto di colpa) una volta svuotato il primo cassonetto, ad ore 6,30 circa del 17 giugno 1999, veniva improvvisamente sbalzato dal veicolo, rovinando sul selciato della strada asfaltata - che recava in quel punto, un piccolo dissesto - allorché l'autista dell'autocarro - udito il segnale acustico convenuto con i netturbini - era ripartito a velocità ridottissima. Nonostante l'immediato trasporto all'ospedale, l'infortunato vi giungeva cadavere. L'indagine autoptica aveva acclarato che la morte era stata causata da trauma cranico ed encefalico e che la vittima presentava fratture ed escoriazioni al tronco, a dimostrazione del fatto che aveva subito uno sfregamento con l'asfalto. Il Tribunale, sulla scorta di quanto accertato dal consulente del P.M. aveva ritenuto, che a cagionare la caduta dell'operaio, avessero contribuito sia il fatto che costui, in conseguenza di postumi di patologia poliomielitica, non era in grado di mantenere perfettamente la stazione eretta, presentando limitazioni alla capacità prensile dell'arto superiore destro, sia la circostanza che, al momento della caduta, l'infortunato non indossasse le apposite cinture di sicurezza: condotta che indubbiamente valeva ad integrare un concorso di colpa della vittima. Inoltre, con ulteriori argomentazioni anch'esse condivise dalla Corte distrettuale, il Primo Giudice aveva affermato che il L. rivestiva la qualità di datore di lavoro della vittima. Al prevenuto, quale funzionario del Comune di Motta S. Giovanni, era stata infatti affidata, con provvedimento sindacale del 9 marzo 1983, la responsabilità anche del servizio di nettezza urbana; Incarico preceduto da delibera 29 ottobre 1998 della Giunta Municipale che lo aveva indicato come datore di lavoro - responsabile del procedimento, affidandogli, previa apposita attestazione della relativa copertura finanziaria, autonomia gestionale in relazione all'applicazione della normativa in tema di sicurezza del lavoro.

Al L. i Giudici di merito avevano quindi addebitato di aver commesso il fatto sia per colpa generica sia per la violazione della specifica normativa antinfortunistica, avendo egli omesso di vigilare sull'osservanza dell'uso delle cinture di sicurezza e dei caschetti di protezione: presidi entrambi presenti sull'autocompattatore, ma non utilizzati dalla vittima ex artt. 4, 5 e 35 D.Ivo n. 626 del 1994 ed avendo altresì il prevenuto destinato un soggetto non dotato di equilibrio, stabilità fisica e prontezza di riflessi, in quanto affetto da postumi di poliomielite, al compito di viaggiare in piedi sulla pedana posta sul retro dell'autocompattatore, sempre in violazione dell'art. 4 dello stesso D.l.vo n. 626 del 1994.

Articola la difesa, a sostegno dell'impugnazione, quattro motivi di ricorso denunziando vizi di inosservanza della legge penale e di difetto, contraddittorietà ed illogicità della motivazione che così possono sintetizzarsi. La Corte d'appello avrebbe, in primo luogo, violato il disposto dell'art. 521 cod.proc. pen. avendo ritenuto il L."datore di lavoro di fatto" in contrasto quindi con la contestazione ove risulta allo stesso conferita siffatta posizione per effetto dell'adozione di specifici provvedimenti adottati dagli organi del comune.

Non avrebbe comunque potuto ritenersi sussistente,secondo il ricorrente, un rapporto di lavoro subordinato nei confronti di lavoratori socialmente utili (categoria cui apparteneva la vittima) vincolati invece all'Ente pubblico da un mero rapporto di carattere previdenziale fondato sull'art. 38 Cost. I Giudici d'appello avrebbero altresì errato nel ritenere responsabile della morte del C. il L. anziché l'Ente utilizzatore delle sue prestazioni, essendo solo all'Ente riferibile ogni attività dell'imputato in virtù del rapporto di immedesimazione organica.

Lamenta in secondo luogo il ricorrente che la Corte d'appello abbia illogicamente e contraddittoriamente ritenuto di desumere profili di negligenza, ascrivibili al L. (in veste comunque di semplice funzionario dell'Ente e non di autonomo datore di lavoro) per non aver egli preveduto la verosimile incidenza negativa dei postumi della poliomielite sulle capacità prensili e di stazione eretta del lavoratore dopoché lo stesso imputato, all'esito della procedura di selezione delle unità lavorative avviate dall'Ufficio circoscrizionale per l'impiego di Reggio Calabria (tra le quali era incluso anche il C.) espletata in qualità di tecnico, aveva preteso il rilascio di specifica certificazione di idoneità di carattere sanitario, ritenendo di poter avviare il lavoratore al progetto di lavori socialmente utili, solamente grazie all'attestazione del dr. A.V., specialista tra l'altro in medicina sportiva, che aveva escluso che I postumi della poliomielite potessero compromettere lo svolgimento dell'attività lavorativa del quale netturbino, addetto ovviamente alla raccolta rifiuti utilizzando l'autocompattatore.

Assume in terzo luogo la difesa che la Corte distrettuale sarebbe incorsa inoltre in errore nell'addebitare al L. comportamenti colposi di omessa informazione e di omessa vigilanza sull'effettivo uso delle cinture di sicurezza (fraintendendo il significato delle parole del teste V. collega di lavoro della vittima, presente al momento del fatto) nonché di omesso controllo sull'uso dei caschetti protettivi in dotazione ai lavoratori sull'autocompattatore, non ritenendo condotta anomala ed imprevedibile l'omissione dell'uso della cintura di sicurezza, addebitabile alla vittima, quale causa sopravvenuta,da sola sufficiente a cagionare l'evento.

Si duole, con la quarta censura, Il ricorrente della mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione maturata prima della pronunzia della sentenza di secondo grado e precisamente In data 17 dicembre 2006, dovendosi fare applicazione, nel caso di specie, del termine massimo di anni sette e mesi sei, previsto dalla previgente e più favorevole normativa in relazione alla pena edittale prevista, nel massimo, per il delitto di cui all'art. 589, commi 1° e 2° cod. pen., in anni cinque di reclusione.

Conclusivamente insta il ricorrente, in via principale, per l'assoluzione nel merito ovvero in subordine, per la declaratoria di estinzione del reato per maturata prescrizione, con ogni statuizione di legge.

Con motivi aggiunti depositati in cancelleria il 21 aprile 2011, la difesa, riportandosi integralmente a quanto già dedotto in atto di impugnazione, ha insistito nell'accoglimento del ricorso.


Diritto




Ritiene il Collegio che preliminarmente, attese le conclusioni rassegnate dal Procuratore Generale e dalla difesa dell'imputato - avuto riguardo al tempus commissi delicti (17 giugno 1999), al titolo del reato ( omicidio colposo aggravato dalla violazione della disciplina antinfortunistica) ed alla pena edittale per lo stesso prevista, essendo state concesse dal Tribunale all'imputato le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sull'aggravante contestata (tantoché la Corte d'appello aveva poi ulteriormente ridotto la pena base di UN anno di reclusione a quella di mesi OTTO, applicando, nella massima estensione, la riduzione di 1/3) - occorre verificare se, alla data della odierna udienza, sia interamente decorso il termine massimo di prescrizione (sette anni e mezzo) cui bisogna por mente in applicazione della normativa precedente alle modifiche introdotte con la legge n. 251 del 2005 di cui all'art. 157, comma 1° n. 4 e comma 2° cod. pen.,da considerarsi più favorevole all'imputato ex artt. 2, comma 4° cod. pen.

Ciò posto, va rilevata l'intervenuta prescrizione; detta causa estintiva del reato deve invero ritenersi verificata pur tenendo conto del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte - con sentenza n.1021/2001 (imp. Cremonese) -in tema di sospensione del decorso del termine di prescrizione in conseguenza di impedimento dell'imputato o del suo difensore; ed invero dagli atti si rileva che nel corso del giudizio di primo grado vi fu un primo rinvio dal 25 giugno al 31 ottobre 2003 (mesi 4 e giorni 6) nonché un secondo dal 31 marzo al 25 giugno 2004 (mesi 2 e giorni 25): entrambi per I'adesione del difensore all'astensione dalle udienze proclamata dall'associazione di categoria ed infine un terzo rinvio dal 1° al 15 ottobre 2004 (giorni 15) per legittimo impedimento dell'imputato, per motivi di salute; di talché, il termine massimo prescrizionale deve comunque ritenersi già definitivamente maturato in epoca precedente all'odierna udienza, pur sommando i periodi di sospensione sopra indicati. Deve poi convenirsi con il ricorrente che, nonostante le rilevate sospensioni del suddetto termine, la prescrizione si è compiuta in epoca anteriore alla sentenza di secondo grado, pronunziata in data 11 marzo 2010.

Tanto premesso ed avuto riguardo ai motivi dedotti dal ricorrente in relazione alle argomentazioni svolte dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria nell'impugnata sentenza, deve riconoscersi che il ricorso non presenta profili di inammissibilità per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perché basato su censure non deducibili in sede di legittimità, essendo quindi pacificamente rilevabile l'intervenuta prescrizione (posto che si tratterebbe di causa originaria di inammissibilità).

Non sussistono peraltro le condizioni di legge per la sussumibilità del caso nella previsione dell'art. 129, 2° comma cod.proc.pen., anche per quanto di seguito si dirà nell'esaminare la fattispecie ai fini civilistici.

Invero, sotto un profilo d'ordine generale e sistematico, in presenza di una causa estintiva del reato, è precluso alla Corte di Cassazione un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione (sia con riferimento alle valutazioni del compendio probatorio, sia con riferimento al vaglio delle altre deduzioni). Il sindacato di legittimità ai fini dell'eventuale applicazione del secondo comma dell'art. 129 cod.proc.pen. deve essere circoscritto all'accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità ad esso dell'Imputato risulti ictu oculi evidente, sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l'operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Qualora, dunque, il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall'art. 129 cod.proc.pen., l'esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all'imputato, prevale l'esigenza della definizione immediata del processo. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, qualora già risulti una causa di estinzione del reato, addirittura la sussistenza di una nullità ( pur se di ordine generale ed a fortiori se relativa ) non è rilevabile nel giudizio di cassazione, "in quanto l'inevitabile rinvio al giudice di merito è incompatibile con il principio dell'immediata applicabilità della causa estintiva" (in tal senso, ex plurimis: Sez. Un. n.1021/2001 Sez. Un. n.35490/2009).

L'impugnata sentenza deve essere pertanto annullata senza rinvio, ai fini penali, per esserci reato estinto per maturata prescrizione.

Precluso risulta pertanto, nella concreta fattispecie - giova subito evidenziarlo - l'esame dell'eccepita nullità della sentenza impugnata in ragione della ritenuta violazione del disposto degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. che pacificamente configurano una nullità di ordine relativo.

La declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione comporta invece la necessità di esaminare le doglianze del ricorrente ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (art. 578 cod.proc.pen.).

A fini civili il ricorso deve essere rigettato, per l'infondatezza delle censure addotte a suo sostegno.

Giova ancora preliminarmente premettere in linea generale quanto al vizio di motivazione, deducibile in sede di legittimità che esso deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o - a seguito della modifica apportata all'art. 606.1, lett. e), c.p.p. dall'art. 8 della L. 20.2.2006, n. 46 - da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame". Il che comporta - quanto al vizio di manifesta illogicità -, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l'iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro iter, quand'anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente ( come peraltro verificatosi nella fattispecie in esame) gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché, in tesi, munite di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30).

Quanto, al primo profilo di doglianza, col quale si censura, la logicità e congruenza del percorso motivazionale esplicitato dalla gravata sentenza e si assume l'erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche che avrebbe indotto la Corte distrettuale ad attribuire al L. la qualifica di datore di lavoro di fatto della vittima, appare opportuno innanzitutto richiamare, ad evitare inutili ripetizioni, quanto succintamente esposto in narrativa, circa gli assunti motivazionali della gravata sentenza.

Va poi altresì sottolineato che, con argomentazioni ineccepibili e coerentemente basate sull'inequivoco enunciato dei due provvedimenti amministrativi in atti (Deliberazioni della Giunta municipale del Comune di Motta S. Giovanni In data 29 ottobre 1998 e del Sindaco in data 9 marzo 1999 ) la Corte distrettuale ha individuato nell'imputato la qualifica di datore di lavoro responsabile del servizio di nettezza urbana, atteso anche il disposto affidamento allo stesso, di autonomia gestionale; ciò in conformità all'art. 2 D.l.vo n. 626 del 1994, come sostituito dal D.L n. 242 del 1996. L'esecutività e definitività di detti provvedimenti (ed in particolare della deliberazione del Sindaco) anche in riferimento all'assegnazione della relativa autonomia gestionale, nell'ambito degli stanziamenti di bilancio " in relazione alle incombenze di cui alle norme sulla sicurezza del lavoro " priva in radice di ogni fondatezza le obiezioni del ricorrente in ordine al difetto di attribuzione di un effettivo potere di spesa fino all'adozione del Piano esecutivo di gestione (P.E.G.) che comunque non avrebbe per nulla potuto condizionare l'adempimento degli obblighi antinfortunistici, giusta le omissioni ascrittegli nel capo di imputazione, per non aver vigilato sull'uso delle cinture e dei caschi di sicurezza e per aver destinato alle mansioni di netturbino, soggetto fisicamente non idoneo che peraltro,a richiesta della stessa Amministrazione comunale, aveva dovuto esibire, ai fini dell'assunzione, ulteriori e specifiche attestazioni di idoneità alle stesse mansioni, rilasciate dal dr. V. specialista tra l'altro, in medicina sportiva.

La Corte distrettuale ha quindi fatto corretta applicazione della specifica normativa, puntualmente recependo l'orientamento - consolidato e prevalente - della giurisprudenza di legittimità in tema di individuazione del dipendente pubblico titolare della qualifica di datore di lavoro, nell'ambito dell'organigramma degli enti pubblici territoriali, cui incombe l'osservanza dei precetti antinfortunistici (cfr. ex multis: Sez. 3 n. 19634 / 2003; Sez. 3 n. 47249 / 2005; Sez. 4 n. 34804/2010) restando in linea di principio, In tali casi, il sindaco invece esente da responsabilità (cfr. Sez. 3 n. 2297/1999). Né rileva in contrario, ad onta della tesi sostenuta dal ricorrente, il fatto che, come statuito dalla Sez. 1 civile (con la sentenza n.3452/2010) ed anche dalle Sezioni Unite civili di questa Corte (cfr. S.U. n.22276/2004 ; S.U. n. 3/2007) chiamate a dirimere una controversia circa la spettanza degli emolumenti a soggetti impiegati nei cd. lavori socialmente utili e circa la ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo abbiano escluso la sussistenza, tra l'ente pubblico ed i singoli lavoratori, di un rapporto di lavoro subordinato, ravvisando unicamente un rapporto giuridico previdenziale, già evidenziato dalla dottrina giuslavoristica, fondato sul disposto dell'art. 38 Cost., nel cui ambito il lavoratore, che svolge un'attività volta alla realizzazione di un interesse di carattere generale, ha diritto ad emolumenti privi di natura retributiva, ma di natura previdenziale. Non pare invero possa dubitarsi che, sulla base dei principi di ordine generale in materia antinfortunistica, dalla circostanza - indiscussa - della prestazione di lavoro resa dalla vittima in favore dell'ente pubblico territoriale (nel caso di specie: Comune di Motta S.Giovanni ) dovesse conseguire l'obbligo, a carico del datore di lavoro ( individuato, trattandosi di amministrazione pubblica, a norma dell'art. 2 D.l.vo n. 626 del 1994 come sostituito dal D.l. vo n. 242 del 1996 ), dell'osservanza della specifica normativa di prevenzione degli infortuni e di tutela della salute del prestatore di lavoro, introdotta dallo stesso D.l.vo n. 626 del 1994.

Quanto alla terza ed alla quarta censura (da trattarsi congiuntamente concernendo entrambe le specifiche condotte di colpose addebitata al L.) va evidenziato che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione delle richiamate disposizioni normative dandone conto con argomentazioni assolutamente congrue e condivisibili.

Ha pertanto la Corte distrettuale in particolare sottolineato che l'imputato:

1. per grave imprudenza ed in violazione del disposto dell'art. 4, comma 5° lett. e) D.l.vo n. 626 del 1994 aveva adibito il C. alle mansioni di netturbino - che comportavano lo stazionamento del lavoratore, in equilibrio ed in piedi, sulla pedana posteriore dell'autocompattatore in movimento, benché affetto da postumi di poliomielite tali da comprometterne la stazione eretta e le capacità prensili dell'arto superiore destro ( tanto da esser conosciuto con l'epiteto dialettale di: " clunco " ovverosia di zoppo) sì da esigere, ai fini del completamento della procedura di assunzione, l'esibizione di un'ulteriore certificazione medica di idoneità, invero di contenuto generico e comunque non rilasciata da un medico competente ex lege 626 del 1994,ma da medico, come già rilevato,specialista in medicina sportiva;

2. versando in generica negligenza ed incorrendo nella violazione dell'art. 4, comma 5° lett. f) D.l.vo n. 626 del 1994, aveva omesso di istruire i lavoratori e di vigilare sull'impiego dei mezzi di sicurezza individuali ed in particolare delle cinture di sicurezza (art. 4 d.P.R. n.547 del 1955), di cui l'autocompattatore era pacificamente dotato ( sulle quali, come riscontrato de visu da Ufficiale di P.G., si era formato, dalla parte esterna, uno strato di polvere, a dimostrazione del loro, " ordinario " non utilizzo; ciò a prescindere logicamente dall'esistenza di nodi più o meno fortemente serrati ) come comprovato dalla deposizione del teste V. (collega di lavoro della vittima che si trovava anch'egli, al momento dell'incidente, in servizio sullo stesso auto compattatore) che aveva riferito di mere raccomandazioni rivolte loro dal L. sull'uso delle cinture di sicurezza, senza far luogo a controlli specifici od " a sorpresa" sul luogo di lavoro; che aveva ammesso il saltuario uso delle cinture stesse mentre operava sulla pedana dell'autocompattatore e che, nel caso di specie, non si era curato, prima di dare all'autista il segnale di partenza convenuto, di verificare che la vittima fosse perfettamente imbracata;

3, per non aver altresì vigilato, (così omettendo colposamente gli specifici e già richiamati obblighi a tutela della incolumità dei lavoratori) sull'impiego dei baschetti presenti sull'autocompattatore e preordinati alla salvaguardia di eventuali lesioni al capo, mai indossati durante il lavoro svolto a bordo dell'autocompattatore, come era emerso dalle dichiarazioni del teste V., non smentite da alcuna diversa emergenza processuale, ben potendo aver rivestito efficacia concausale rispetto all'evento, l'omesso impiego del casco protettivo, attesoché il decesso del C. fu dovuto a trauma cranico.

Ha inoltre la Corte d'appello escluso, attenendosi anche sul punto alla consolidata giurisprudenza di legittimità, che l'omesso impiego delle cinture di sicurezza (il cui uso, attesa la ricostruzione dell'infortunio nei termini sopraricordati, avrebbe pacificamente impedito la caduta del C. e quindi l'evento letale conseguitone) abbia costituito un comportamento anomalo ed imprevedibile tale da interrompere il nesso di causa con le evidenziate omissioni ascrivibili a colpa dell'imputato.

Infatti,poiché la normativa antinfortunistica risulta finalizzata a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da una sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro può esser esclusa solo in presenza di "un comportamento del lavoratore stesso che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità , dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile od inopinabile " (cfr. ex multis: Sez. 4 n. 38877 del 29 settembre 2005 - dep. 21 ottobre 2005 - imp. P.C. in proc. Fani; Sez. 4 n. 21587 del 23 marzo 2007 - dep. 1 giugno 2007 - imp. Pelosi). Solamente quindi "un comportamento anomalo del lavoratore"; "estraneo al processo produttivo od alle mansioni attribuite "; "ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore " (Sez. 4 n. 38850 del 23 giugno 2005 - dep. 21 ottobre 2005 - imp. M.) può rivestire il ruolo di causa sopravvenuta.da sola sufficiente a cagionare l'evento, interrompendo II nesso di causa sì da condurre ad escludere la responsabilità del datore di lavoro.

Ora, nel caso di specie, la non occasionante della condotta, pur negligente ed imprudente, posta in atto dalla vittima nell'ambito dell'espletamento delle mansioni a lei demandate in relazione alle direttive comunque ricevute ed alla materiale dotazione sull'autocompattatore del mezzi di sicurezza individuali vale ad escludere che si versi in ipotesi di condotta abnorme, imprevedibile, eccezionale ed avulsa dalle operazioni cui il lavoratore era in concreto addetto. In conclusione deve rilevarsi che, ove l'imputato non fosse venuto meno ai propri doveri di vigilanza e di controllo riconnessi alla posizione di garanzia rivestita,l'evento sarebbe stato evitato, essendo peraltro del tutto prevedibile la violazione comportamentale commessa dal lavoratore.

Al rigetto del ricorso agli effetti civili consegue la condanna dei ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio, in favore delle costituite parti civili, come in dispositivo liquidate.


P.Q.M.




Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché estinto il reato per prescrizione.

Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente alla rifusione in favore delle costituite parti civili, delle spese di questo giudizio che, unitariamente e complessivamente, liquida in euro 1.800,00, oltre spese generali, IVA e CPA, come per legge.