Cassazione Penale, Sez. 4, 03 ottobre 2011, n. 35824 - Crollo di un muro e morte di un lavoratore: ruolo dei datori di lavoro e del coordinatore in fase di progettazione e di esecuzione



 

 

Responsabilità di due soci di un'impresa edile (B.C. e Be.Ma.) e del progettista e direttore dei lavori (B.M.) per omicidio colposo in danno di un dipendente investito dal crollo di un muro in costruzione, nell'ambito di lavori edilizi appaltati alla suddetta ditta edile, finalizzati al recupero a fini abitativi di un sottotetto preesistente.

In primo grado veniva assolto solo il coordinatore (per la sicurezza) in fase di progettazione ed esecuzione dei lavori (P.L.), poi condannato dalla Corte d'appello di Milano.

Ricorrono in Cassazione i due soci della snc e il coordinatore per la sicurezza - La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di quest'ultimo limitatamente alla statuizione risarcitoria in favore della vittima e rigetta nel resto il ricorso. Rigetta inoltre i ricorsi dei due soci.

Quanto alla posizione dei soci, la Corte afferma che va rimarcato che la responsabilità del datore di lavoro per l'incidente accorso al lavoratore può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un contegno eccezionale od abnorme del lavoratore medesimo, esorbitante cioè rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute e come tale, dunque, del tutto imprevedibili. Tale non è stato, correttamente, ritenuto il comportamento avuto nell'occasione dalla vittima la quale, anzi, per eseguire l'ordine ricevuto da uno dei soci (che non tenne conto del rischio rappresentato dal muro non dotato di stabilità) di intonacare il muro, dovette procedere alla necessaria rimozione preventiva delle opere provvisionali, come appunto il travetto, operazione alla quale era intento poco prima del crollo del muro.

Quanto alla posizione del coordinatore per la sicurezza, correttamente la Corte d'appello ha ravvisato l'obbligatorietà della sua presenza sul cantiere: egli è titolare di un'autonoma posizione di garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente individuati dal D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, si affianca a quelle degli altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche.


Orbene, il piano di coordinamento e sicurezza (P.S.C.) è redatto durante la progettazione dell'opera dal coordinatore per la progettazione, ma deve essere applicato nella fase esecutiva sotto la responsabilità del coordinatore per l'esecuzione dei lavori (nella specie il P.), ferma restando la responsabilità del committente e del responsabile dei lavori connessa alla verifica dell'adempimento del piano stesso. Durante la realizzazione dell'opera, il coordinatore esercita, dunque, non soltanto compiti di vigilanza e di controllo; su di lui grava, invero, anche l'obbligo imposto dal D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, comma 1, lett. c), e cioè: "segnalare al committente o al responsabile dei lavori, previa contestazione scritta alle imprese e ai lavoratori autonomi interessati, le inosservanze alle disposizioni degli artt. 7, 8 e 9, e alle prescrizioni del piano di cui all'art. 12 e proporre la sospensione dei lavori, l'allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto. Nel caso in cui il committente o il responsabile dei lavori non adotti alcun provvedimento in merito alla segnalazione, senza fornire idonea motivazione, il coordinatore per l'esecuzione provvede a dare comunicazione dell'inadempienza alla azienda unità sanitaria locale territorialmente competente e alla direzione provinciale del lavoro".
A tale obbligo squisitamente precauzionale, è palese che il ricorrente venne meno e ciò proprio per effetto dell'omissione della doverosa vigilanza e puntuali controlli ai quali era preposto.


 

 

 



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco Presidente
Dott. MASSAFRA Umberto rel. Consigliere
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco Consigliere
Dott. VITELLI CASELLA Luca Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza

 

sul ricorso proposto da:
1) B.C., N. IL (OMISSIS);
2) BE.MA., N. IL (OMISSIS);
3) P.L, N. IL (OMISSIS);
Avverso la sentenza n. 7121/2008 CORTE APPELLO di MILANO, del 05/03/2010;
Visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
Udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/07/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. UMBERTO MASSAFRA;
Udito il Procuratore Generale Dott. CARMINE STABILE, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso per B.C. e Be.Ma. e il rigetto del ricorso per P.L.
Udito, per la p.c, l'avvocato Dalla Chiesa Mauro, del Foro di Castellone Olona, quale sostituto processuale del difensore di fiducia, Aw. Marzia Giovanni del Foro di Varese, che chiede il rigetto dei ricorsi dei B. ed insiste per l'accoglimento delle proprie conclusioni che deposita insieme alla nota spese.
Udito, per il ricorrente P.L., l'avvocato Peroni Cesare del Foro di Gallarate, difensore di fiducia, che conclude per l'accoglimento del ricorso del proprio assistito.
Udito, peri ricorrenti B.C. e Be.Ma., l'avvocato Massironi Tiberio del Foro di Gallarate, difensore di fiducia, che conclude per l'accoglimento del ricorso.

 

Fatto

 


Con sentenza del 25.5.2007 il Tribunale di Busto Arsizio, Sezione distaccata di Gallarate, in composizione monocratica, dichiarava B. C. e Be.Ma., quali soci dell'impresa edile "B. R. s.n.c." e quindi datori di lavoro, e B.M. anche quale progettista e direttore dei lavori, colpevoli del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sugli infortuni sul lavoro in danno di dipendente L.R. e, riconosciute per ambedue le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, li condannava alla pena di mesi sei di reclusione ciascuno, concedendo ad entrambi i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna; assolveva l'imputato Pe.Lu., quale coordinatore (per la sicurezza) in fase di progettazione ed esecuzione dei lavori, dal reato suddetto "perchè il fatto non sussiste", (ritenendo che non sussistessero le condizioni per la designazione della funzione attribuita al P.); condannava B.C. e Be.Ma., in solido fra loro, al risarcimento dei danni a favore delle costituite parti civili T.C., L.S. e L.L., oltre al pagamento di provvisionali e alla rifusione delle spese.

Tale sentenza veniva parzialmente riformata, a seguito di gravame interposto dagl'imputati B. C. e Be.Ma. e dalle parti civili T.C. e L.S., dalla Corte di Appello di Milano che con sentenza in data 5.3.2010, riconosceva la responsabilità, quanto agli effetti civili, anche di P.L., condannandolo al risarcimento del danno in favore delle parti civili in solido con gli altri imputati nonché al pagamento di provvisionali oltre alla rifusione delle spese in favore delle stesse.


Il fatto come riportato nella sentenza impugnata. Il giorno (OMISSIS), di lunedì, alla ripresa dei lavori dopo la sosta meridiana, si verificava un grave infortunio sul lavoro che causava la morte dell'operaio L.R.. Sin dai primi accertamenti, eseguiti dai Carabinieri e dai tecnici del settore prevenzione-infortuni dell'ASI, competente, emergeva che il decesso del lavoratore era stato causato dal crollo di un muro in costruzione, nell'ambito di lavori edilizi appaltati alla ditta edile B. R. s.n.c. di B.C. e Be.Ma., della quale il L. era dipendente, finalizzati al recupero a fini abitativi di un sottotetto preesistente. Dopo la demolizione del piano sottotetto, i lavori edili erano cominciati con l'innalzamento delle pareti perimetrali (dette "timpani") poste ad est, ovest e nord, là dove quella sud non era stata ancora realizzata. La parete-timpano interessata dal crollo -peraltro muro portante all'interno di quell'abitazione - era quella esposta ad est ed era formata da due murature separate: l'una, della lunghezza di metri 1,90; l'altra, più lunga, di metri 4,45, di forma piramidale. Il tutto poggiava su un profilato in acciaio (detto "putrella") con sezione a doppia T, a sua volta appoggiato sul piano orizzontale del solaio.
Nel tratto di muro più lungo, per circa 50 cm. verso la parte più alta, erano stati impiegati mattoni di dimensione più larga, ossia di 18 cm l'uno rispetto agli altri di 10 cm, così da formare un pilastro (detto "lesena"). In corrispondenza della lesena, nella parte esterna di questo muro più lungo, era stato posizionato verticalmente un travetto di legno (detto "stecchetto") fissato alla putrella con un morsetto e controventato con un asse di legno (detto "fodera" o "saetta").
La vicenda veniva ricostruita dal Giudice di primo grado, seguito dalla Corte Territoriale che ne ha condiviso le argomentazioni in ordine al quadro probatorio a carico dei due B., principalmente sulla base delle dichiarazioni rese da Ca.Fr., operatore dell'ASL che ebbe ad eseguire il sopralluogo nell'immediatezza del fatto, il quale aveva affermato che:
1. lo stecchetto non aveva alcuna funzione di misura di prevenzione, ma dava la verticalità al muro erigendo;
2. il morsetto era stato mal posizionato;
3. la malta aveva avuto scarsa aderenza con la putrella;
4. il muro si era scollato dalla putrella per qualche sollecitazione o per una folata di vento;
5. presumibilmente il L. aveva ricevuto l'ordine di intonacare il muro.


Per una o più di queste ragioni L.R., dovendo intraprendere quel giorno alle ore 13, alla ripresa pomeridiana, le operazioni di intonacatura del timpano, schiodate le fodere che saettavano il travetto e sfilata la parte mobile del morsetto, non riuscì a rimuovere il travetto stesso, che restava comunque vincolato al morsetto in quanto l'asta di quest'ultimo era murata sotto il timpano soprastante. Perciò il suddetto muratore si portò verso la parte esterna del timpano e, a colpi di martello, cercò di rimuovere la parte fissa del morsetto, tirando anche presumibilmente il travetto verso di sè per liberarlo. Così facendo, però, egli provocò il ribaltamento del timpano che, scollatosi di netto dalla putrella, gli si rovesciò addosso schiacciandolo contro il muro di sostegno di un'altra copertura esistente, a distanza di soli m. 1,40 dal timpano stesso, cagionandogli le lesioni di cui ai referti in atti che poco dopo ne causarono il decesso.
Il L., presumibilmente, stava cercando di staccare il travetto del timpano per procedere alla intonacatura di quest'ultimo, non essendovi altro possibile motivo del suo comportamento e dalla documentazione fotografica in atti risultava pacifico che stava procedendo alla intonacatura delle murature già erette, all'evidente scopo di facilitare ed accelerare l'ultimazione dell'opera. Anche le deposizioni degli altri lavoratori S., C, A. e P. andavano nel senso indicato.
La Corte territoriale riteneva, però, dopo aver disatteso la preliminare eccezione di inammissibilità del gravame proposto dalle parti civili per difetti formali della procura speciale, la concorrente responsabilità del P. ai fini civili, per aver vincolato un travetto in legno alla putrella sottostante il timpano est con un morsetto dalla parte fissa di quest'ultimo e non dalla parte scorrevole (D.P.R. n. 164 del 1956, art. 7, così come da imputazione): infatti il coordinatore per la sicurezza (necessario nel cantiere de quo per le sue caratteristiche di pericolosità, di coesistenza di più imprese e di entità del cantiere superiore a 200 uomini) che abbia omesso di assicurare tramite le opportune azioni di coordinamento e di controllo, l'applicazione delle disposizioni nel piano di Sicurezza di cui al D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 12 diviene responsabile del reato di cui al cit. D.Lgs., art. 5, comma 1, lett. a) e art. 21, comma 2, lett. a) e quindi, per colpa specifica, anche del reato di omicidio colposo che è derivato da siffatta violazione normativa.

 

Avverso tale sentenza della Corte di Appello milanese ricorrono per cassazione il comune difensore di fiducia di B. M. e Be.CI. e quello di P.L..
Il primo deduce, in sintesi, i seguenti motivi.
1. L'erronea applicazione dell'art. 40 c.p. e il difetto del nesso di causalità tra la condotta dei ricorrenti e l'evento cagionato dalla sola parte offesa, nonché l'illogicità, contraddittorietà e mancanza della motivazione.
In particolare, si duole dell'acritica condivisione della relazione del tecnico ASL senza alcuna valutazione del compendio di informazioni acquisite dai Consulenti tecnici del P.M. e degl'imputati ed analizzando in modo parziale le testimonianze dei compagni di lavoro della vittima.
Richiama, a tal riguardo, talune affermazioni dei testi Ca., Pu., A., C. (del quale nega l'adombrata reticenza) ed A. nonché dell'imputato B.M., per contestare la certezza in ordine al lavoro che il L. doveva eseguire, e cioè l'intonacatura del muro, e l'assunzione da parte dei giudici di merito del dato indimostrato della quantificazione in "mezza giornata" di lavoro del tempo che la vittima avrebbe impiegato per eseguire l'ordine impartitogli dal B..
2. La violazione di legge ed il vizio motivazionale circa la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale limitatamente alla consulenza tecnica sulla stabilità del muro poi crollato e sulle cause dell'evento e ciò per la soprarilevata acritica adesione alle dichiarazioni del teste Ca., dell'ASL, e l'omessa valutazione sul punto espresse dai consulenti tecnici.
Contesta che gl'imputati B. si siano disinteressati dei lavori lasciandoli all'iniziativa dei lavoratori, richiamando talune affermazioni dei testi Pu., C. ed A. e sostiene che nel caso di specie la condotta del lavoratore che disattese gli ordini ricevuti dal geom. B.M., togliendo la controventatura esistente ed agendo inopinatamente facendo leva sul morsetto, era stata del tutto autonoma ed imprevedibile.

Nell'interesse di P.L. si deducono i seguenti motivi.
1. La violazione di legge ed il vizio motivazionale ribadendo l'eccezione d'inammissibilità dell'appello interposto nell'interesse della parti civili per carenza di procura speciale che comprendesse anche il potere d'impugnazione.
2. L'inosservanza o erronea applicazione del D.Lgs. n. 494 del 1996, artt. 3. 5, 12 e 1 e art. 530 c.p.p., comma 2, in ordine alla mancanza di responsabilità.
Premesso che non vi era prova certa della sussistenza delle tre condizioni richiamate dalla Corte di appello in ordine all'obbligo di avere in cantiere un coordinatore perla sicurezza e che era stato contestato in imputazione al P. (con riferimento solo alle funzioni di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione e non già di progettazione):

1) l'omessa verifica dell'idoneità del P.O.S. con riferimento al rischio di crollo del timpano e delle misure atte a scongiurarlo; 2) l'omesso aggiornamento del P.S.C, in relazione ai medesimi punti;
3) l'omessa sospensione dei lavori pur in presenza di un pericolo grave e del tutto evidente, rileva che, quanto al punto sub 1) non si comprendeva, attese le specifiche incombenze al riguardo del coordinatore per la sicurezza, quale sia stata l'omissione dell'imputato e, quanto al secondo profilo del mancato adeguamento del P.S.C., che il P. non aveva l'obbligo giuridico di individuare il rischio di crollo del timpano e le misure atte a scongiurarlo.
Ribadisce che l'evento non era prevedibile da parte del coordinatore per l'esecuzione, anche perchè, in assenza di qualsiasi avviso da parte dell'impresa, non poteva prevedere che le murature sarebbero state completate con tre giorni di anticipo sul programma. Inoltre la Corte di Appello aveva valutato le attribuzioni del P. con criteri non previsti dalla legge e secondo parametri che lo accomunavano al committente o al datore di lavoro, laddove la sua responsabilità, secondo la prevalente giurisprudenza, poteva solo affiancarsi ma non sovrapporsi a quella degli altri soggetti coinvolti.


3. La violazione di legge in ordine alla condanna al risarcimento del danno e alla provvisionale anche in favore della parte civile non appellante L.L., e ciò ai sensi dell'art. 597 c.p.p. Assume, inoltre, richiamando un orientamento giurisprudenziale di questa Corte risalente al 1997, che nemmeno nei confronti delle parti civili appellanti la Corte avrebbe potuto pronunciare condanna al risarcimento dei danni con assegnazione di una provvisionale.


Diritto


Va preliminarmente chiarito che il termine prescrizionale previsto per il reato ascritto, commesso il (OMISSIS), tenuto conto della specifica aggravante contestata, benché valutata come equivalente alle concesse attenuanti generiche per i due B., non è ad oggi decorso poiché, sia secondo la vecchia che secondo la novellata normativa (applicabile essendo la sentenza di primo grado intervenuta dopo l'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005) di cui agli artt. 157 e 160 c.p., esso termine, pari a 15 anni, scadrebbe non prima del 23.6.2018.


I ricorsi di B.M. e B.C. sono infondati e devono essere rigettati.
Con essi si pone in contestazione la ricostruzione e la valutazione del fatto, nonché l'apprezzamento del materiale probatorio, profili del giudizio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito, che ha fornito un'ampia ed adeguata motivazione anche con il legittimo richiamo (cfr. Cass. pen. Sez. 4, 17.9.2008, n. 38824, Rv. 241062; Sez. 5, 22.4.1999, n. 7572, Rv. 213643) per relationem a quella di primo grado con la quale si fonde in un unicum inscindibile, immune da censure logiche, perchè basata su corretti criteri di inferenza, espressi in un ragionamento fondato su condivisibili massime di esperienza, evidenziando come la colpa dei due datori di lavoro, pur nel concorso sinergico della condotta gravemente imprudente dell'operaio L., fosse consistita nel non essersi assicurati in precedenza della qualità dei materiali utilizzati per la costruzione del muro, nel non aver verificato il corretto posizionamento del morsetto e nel non aver ovviato alla palese instabilità del timpano, omettendo di disporre adeguata controventatura ed anzi nell'aver dato ordine di intonacare il timpano est nonostante non fosse ancora collegato con gli altri muri perimetrali; inoltre, dall'assenza dei due B. sul luogo dell'incidente, la Corte territoriale arguiva, in ciò confortata dalla circostanza confermata dalla deposizione del teste P., che gli operai erano liberi di organizzarsi come meglio volevano anche in spregio alle più elementari norme di prudenza e di prevenzione degli infortuni.. Ora, a fronte di siffatte puntuali circostanziate argomentazioni, i ricorrenti tendono ad alterare la fisionomia del giudizio di questa Corte che, anche dopo la novella della L. 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità perla Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", rimane pur sempre giudizio di legittimità senza trasmutare in ennesimo giudizio di merito sul fatto. E tale preclusione si pone ancora più tenacemente laddove, come nel caso di specie, vi sia stata una doppia pronunzia conforme (circa la colpevolezza dei due ricorrenti B.), in quanto in tal caso il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, nè risulta che il giudice d'appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia fatto richiamo ad atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass. pen., sez. 2, 15.1.2008, n. 5994;
Sez. 1, 15.6.2007, n. 24667, Rv. 237207; Sez. 4, 3.2.2009, n. 19710, Rv. 243636).
Inoltre, è orientamento consolidato quello secondo cui deve essere recepita ed applicata anche in sede penale la regola della cosiddetta "autosufficienza" dei ricorso costantemente affermata, in relazione al disposto di cui all'art. 360 c.p.c, n. 5, dalla giurisprudenza civile, con la conseguenza che, quando si lamenti la omessa valutazione o il travisamento del contenuto di specifici atti del processo penale, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti medesimi in modo da rendere possibile l'apprezzamento del vizio dedotto (cfr. Cass. pen. Sez. 4, 26.6.2008 n. 37982 Rv. 241023; Sez. 1, 22.1.2009, n. 6112 Rv. 24322). Ed a ciò non ha in alcun modo adempiuto il ricorrente che si è limitato a trascrivere solo taluni stralci delle deposizioni dei testi e dei consulenti come tali insufficienti (specie a fronte di ulteriori stralci riportati in sentenza a supporto della tesi accusatoria) per una esaustiva valutazione nella loro globalità da parte di questa Corte.
Quanto alla mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale limitatamente alla consulenza tecnica sulla stabilità del muro poi crollato e sulle cause dell'evento, premesso che la rinnovazione è istituto di carattere eccezionale, si osserva, anzitutto, che la stessa non risulta nemmeno inclusa tra i motivi di appello (con la conseguente inammissibilità della relativa censura ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 3). Si deve comunque rammentare che, mentre la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificatamente motivata, occorrendo dar conto dell'uso del potere discrezionale, derivante dalla acquisita consapevolezza della rilevanza dell'acquisizione probatoria, nella ipotesi di rigetto, viceversa, la decisione può essere sorretta anche da una motivazione implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi - come nel caso di specie - la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in ordine alla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Cass. pen. sez. 6, 18.12.2006, n. 5782, Rv. 236064). Nè comunque l'invocata perizia potrebbe ritenersi prova "decisiva" ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d): al riguardo, infatti, si è spiegato che tale connotazione di decisività è esclusa per il suo carattere "neutro" della perizia sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice (tra le più recenti: Cass. pen. Sez. 4, 22.1.2007 n. 14130, Rv. 236191).

Va rimarcato, inoltre (e ciò vale a anche per l'analoga censura proposta nell'interesse del P., sub 2), che la responsabilità del datore di lavoro per l'incidente accorso al lavoratore può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un contegno eccezionale od abnorme del lavoratore medesimo, esorbitante cioè rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute e come tale, dunque, del tutto imprevedibili (Cass. pen. Sez. 4, n. 15009 del 17.2.2009, Rv. 243208 e successive conformi). E tale non è stato, correttamente, ritenuto il comportamento avuto nell'occasione dalla vittima la quale, anzi, per eseguire l'ordine ricevuto dal B. (che non tenne conto del rischio rappresentato dal muro non dotato di stabilità) di intonacare il muro, dovette procedere alla necessaria rimozione preventiva delle opere provvisionali, come appunto il travetto, operazione alla quale era intento poco prima del crollo del muro.
Consegue il rigetto dei ricorsi di B.M. e Be.CI. e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna di questi ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

 

Quanto al ricorso del P., si deve ritenere l'infondatezza ed aspecificità della prima censura che ha riproposto in questa sede pedissequamente la medesima doglianza rappresentata dinanzi alla Corte territoriale e da quel giudice disattesa con motivazione ampia e congrua, immune da vizi ed assolutamente plausibile.
Invero, è stato in più occasioni affermato da questa Corte (Sez. Un. pen. n. 44712 del 27.10.2004 e successive conformi, tra cui Sez. V, n. 33453 del 8.7.2008, Rv. 241394), come correttamente già evidenziato dalla sentenza impugnata (p.9), che "è legittimato a proporre appello il difensore della parte civile munito di procura speciale che non faccia espresso riferimento al potere del difensore di proporre detto gravame, sempre che la procura rilasciata possa essere interpretata nel senso che il mandato difensivo comprenda anche tale potere": nella fattispecie esaminata in occasione della pronuncia che precede, è stata ritenuta la legittimazione a proporre appello del difensore al quale era stata rilasciata procura speciale perchè provvedesse "a costituirsi parte civile nel procedimento penale - al pari del caso che oggi ci occupa- allo scopo di ottenere il risarcimento del danno in conseguenza dei fatti di cui all'imputazione"; e la S.C. ha ritenuto evidente la manifestazione di volontà della parte di estendere l'efficacia e la validità della procura anche al secondo grado, atteso che "il procedimento" si articola in più gradi.


Infondata è, altresì, la seconda censura, dal momento che correttamente la Corte ha ravvisato l'obbligatorietà della presenza sul cantiere del coordinatore per la sicurezza, che è titolare di un'autonoma posizione di garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente individuati dal D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, si affianca a quelle degli altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche (Cass. pen. Sez. 4, n. 38002 del 9.7.2008, Rv. 241217).
Orbene, il piano di coordinamento e sicurezza (P.S.C.) è redatto durante la progettazione dell'opera dal coordinatore per la progettazione, ma deve essere applicato nella fase esecutiva sotto la responsabilità del coordinatore per l'esecuzione dei lavori (nella specie il P.), ferma restando la responsabilità del committente e del responsabile dei lavori connessa alla verifica dell'adempimento del piano stesso. Durante la realizzazione dell'opera, il coordinatore esercita, dunque, non soltanto compiti di vigilanza e di controllo; su di lui grava, invero, anche l'obbligo imposto dal D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, comma 1, lett. c), e cioè: "segnalare al committente o al responsabile dei lavori, previa contestazione scritta alle imprese e ai lavoratori autonomi interessati, le inosservanze alle disposizioni degli artt. 7, 8 e 9, e alle prescrizioni del piano di cui all'art. 12 e proporre la sospensione dei lavori, l'allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto. Nel caso in cui il committente o il responsabile dei lavori non adotti alcun provvedimento in merito alla segnalazione, senza fornire idonea motivazione, il coordinatore per l'esecuzione provvede a dare comunicazione dell'inadempienza alla azienda unità sanitaria locale territorialmente competente e alla direzione provinciale del lavoro".
A tale obbligo squisitamente precauzionale, è palese che il ricorrente venne meno e ciò proprio per effetto dell'omissione della doverosa vigilanza e puntuali controlli ai quali era preposto.


Quanto all'ultima censura, ne è manifestamente infondata la seconda parte, avendo la parte civile, con l'appello proposto ai sensi dell'art. 576 c.p.p. avverso la sentenza di proscioglimento o di assoluzione dell'imputato, titolo per ottenere, in caso di accoglimento dell'impugnazione, una sentenza che non solo valga a rimuovere l'eventuale preclusione all'esercizio dell'azione in sede civile derivante dalla sentenza appellata, ma contenga anche la condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno (Sez. 4, n. 13326 del 23.1.2003, Rv. 226430 e successive conformi).
E', di converso, fondata la prima parte del motivo di ricorso predetto, in quanto il mancato appello della parte civile L., non consentiva, attesa la mancata impugnazione da parte del P.G. o dello stesso imputato ed il disposto dell'art. 597 c.p.p. (cioè i limiti del devolutum) la riforma della sentenza, sia pur limitatamente agli effetti civili, in suo favore ad opera della Corte Territoriale. Infatti, in proposito è stato affermato che "In forza del ed. principio di immanenza della costituzione di parte civile, la parte civile che non abbia proposto impugnazione, se ritualmente costituita in primo grado e che non abbia rinunciato nelle successive fasi del processo, può stare in giudizio anche in cassazione e, non potendosi giovare dell'eventuale impugnazione del pubblico ministero, può rassegnare le conclusioni solo in relazione alla penale responsabilità dell'imputato, ma non sulla domanda di risarcimento del danno" (Cass. pen. Sez. 3, n. 20192 del 19.4.2006, Rv. 234694).


Consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in relazione alla posizione di P.L. in parte qua ed il rigetto nel resto del ricorso da quello presentato.
Segue, altresì, la condanna di tutti i ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione delle spese per il presente giudizio in favore delle parti civili T.C. e L.S. e dei soli B. C. e B.M., in solido tra loro, alla rifusione delle spese per questo giudizio in favore dell'altra parte civile L. L..
La misura delle rispettive spese viene determinata come in dispositivo.

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di P.L. limitatamente alla statuizione risarcitoria in favore di L.L.. Rigetta nel resto il ricorso dello stesso P..
Rigetta i ricorsi di B.C. e B.M. e condanna entrambi al pagamento delle spese processuali.
Condanna tutti i ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione in favore delle parti civili T.C. e L.S. delle spese di questo giudizio, che, unitariamente e complessivamente, liquida in Euro 2.700,00, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali come per legge.
Condanna i soli B.C. e B.M., in solido fra loro, alla rifusione in favore dell'altra parte civile L.L. delle spese di questo giudizio, che liquida, ex actis, in Euro 1.000,00, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali, come per legge.