Cassazione Penale, Sez. 4, 16 novembre 2011, n. 42083 - Inalazione di idrogeno solforato e morte di tre lavoratori
- Attività Industriale a Rischio di Incidente Rilevante
- Dispositivo di Protezione Individuale
- Informazione, Formazione, Addestramento
Responsabilità del legale rappresentante di una sas (Fa. Fr.) e dei soci di maggioranza (Fa. Gi. Ri. Sa. e Fa. Ro.) quali responsabili di fatto il primo del settore tecnico e la seconda dell'amministrazione, per il decesso di tre lavoratori, avvenuto per paralisi respiratoria ed anossia istotossica, in conseguenza dell'inalazione di elevate concentrazioni di idrogeno solforato durante i lavori svolti nella zona seminterrata dello stabilimento, per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia.
I tre lavoratori erano deceduti essendo, secondo il giudice di primo grado, del tutto inconsapevoli dei rischi connessi senza che fossero mai state adottate in tutti gli anni di attività produttiva cautele nè attività di informazione circa i rischi.
Condannati in primo e secondo grado, ricorrono in Cassazione - Rigetto.
La Corte territoriale ha affermato che le omissioni degli imputati hanno cagionato la morte per inalazione del detto gas letale da parte dei tre operai che si avventurarono nello scantinato sprovvisti di strumenti prevenzionali che avrebbero comunque dovuto avere seco (cioè l'autorespiratore antigas "a pieno facciale").
Per non dire dell'accertata omissione delle misure prevenzionali dei luoghi di lavoro di cui al capo di imputazione (impianto di ventilazione meccanica o condizionamento dell'aria e cautele necessarie in luoghi seminterrati) e della carente informazione dei lavoratori stessi.
Nè si può ritenere che i tre lavoratori si siano recati in quel luogo, all'interno della struttura aziendale, di loro iniziativa (non essendo nemmeno adombrato un loro autonomo e specifico interesse) e non piuttosto per lo svolgimento di un'attività loro demandata, come acutamente, ed ineccepibilmente sotto il profilo logico, rilevato dalla sentenza impugnata (allorchè dalla presenza di residui della depurazione nel silos n. 34 e dal riscontrato collegamento negli stessi di un tubo, desume che i tre operai stavano svolgendo un'attività su tale zona del seminterrato, ipotizzata come pompaggio dei fanghi alla testa dell'impianto, che comunque determinava una movimentazione di detti residui).
Ampia e corretta è altresì la motivazione in ordine al nesso causale tra i fanghi che normalmente (e non già imprevedibilmente) producono il gas letale in questione (idrogeno solforato), e il decesso degli operai.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Presidente
Dott. ZECCA Gaetanino - Consigliere
Dott. D'ISA Claudio - Consigliere
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere
Dott. MASSAFRA Umberto - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) FA. FR. , N. IL (Omissis);
2) FA. GI. RI. SA. , N. IL (Omissis);
3) FA. RO. , N. IL (Omissis);
avverso la sentenza n. 715/2010 CORTE APPELLO di PALERMO, del 27/09/2010;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/10/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. UMBERTO MASSAFRA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Lettieri Nicola, che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi;
udito, per la parte civile INAIL, l'avv. Tota Grazia, dell'avvocatura generale dell'INAIL in sostituzione dell'avv. Ottolini, che si riporta alla memoria scritta alle conclusioni.
Udito per i ricorrenti, l'avv. Marra Fausto, del foro di Palermo, che insiste per l'accoglimento dei ricorsi.
Fatto
Con sentenza in data 10.6.2009 il Tribunale monocratico di Marsala - Sezione distaccata di Castelvetrano, dichiarava Fa. Fr. , Fa. Gi. Ri. e Fa. Ro. colpevoli del delitto di omicidio colposo plurimo, con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, in cooperazione colposa tra loro (articolo 113 c.p., articolo 589 c.p., commi 1, 2 e 3 - ora comma 4 -), in danno di Sc. Ma. , Pi. Vi. e Be. Gi. (fatto dell'(Omissis)) e li condannava alla pena di anni tre, mesi sei di reclusione ciascuno oltre al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede civile in favore delle costituite parti civili e alla rifusione delle spese da quelle sostenute a ciascuna delle quali (ad eccezione della Ca. Sv. di compensazione) venivano assegnate provvisionali di vario importo immediatamente esecutive. In particolare, secondo l'imputazione, Fa. Fr. quale legale rappresentante della " Ca. Vi. Fa. S.a.s.", Fa. Gi. Ri. Sa. e Fa. Ro. , soci di maggioranza, quali responsabili di fatto il primo del settore tecnico e la seconda dell'amministrazione, avevano cagionato il decesso dei tre suddetti lavoratori, avvenuto per paralisi respiratoria ed anossia istotossica, in conseguenza dell'inalazione di elevate concentrazioni di idrogeno solforato durante i lavori svolti nella zona seminterrata dello stabilimento, per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia ed in particolare:
- per aver disposto o comunque consentito che, dovendosi ripompare in testa all'impianto di depurazione, reflui del processo di lavorazione, risultati non corrispondenti ai requisiti di vasca di servizio alla cisterna n. 34, sita nel locale scantinato, si utilizzasse come accumulo intermedio la vasca di servizio alla cisterna n. 34, sita nel locale scantinato;
- nella violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 303 del 1956, articolo 9 per non aver installato un idoneo impianto di ventilazione meccanica o condizionamento dell'aria che assicurasse ai lavoratori aria salubre in quantità sufficiente;
- nella violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 547 del 1955, articoli 235 e 236, per non aver approntato le cautele necessarie nel caso di lavori in luoghi seminterrati, vasche e serbatoi ove possa rilevarsi la presenza di gas tossici;
- nella violazione del Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 4, comma 5, lettera d), per non aver fornito i lavoratori di idonei mezzi di protezione individuale (autorespiratore antigas "a pieno facciale"). ...
I fatti sono stati ricostruiti nella sentenza di primo grado richiamata da quella impugnata. I tre lavoratori erano deceduti all'interno del locale seminterrato della cantina a causa dello sprigionamento in tale luogo di un gas letale, l'idrogeno solforato, essendo secondo il giudice di primo grado, del tutto inconsapevoli dei rischi connessi senza che fossero mai state adottate in tutti gli anni di attività produttiva cautele nè attività di informazione circa i rischi. Il giorno dei fatti si era verificata una momentanea interruzione della funzionalità dell'impianto di depurazione che era stato reinstallato dall'elettricista intorno a mezzogiorno. Alcuni testimoni riferivano che il giorno dei fatti si avvertiva un forte odore di uova marce provenire dallo stabilimento tale da provocare bruciore alla gola, agli occhi e al naso.
In estrema sintesi, il Tribunale, dopo aver messo a confronto le tesi dei consulenti tecnici del P.M. (secondo cui era stata la movimentazione dei liquami presenti nei silos a provocare lo sprigionamento dell'idrogeno solforato: tali liquami provenivano con ogni probabilità dalla fase terminale del processo di lavorazione e gli operai stavano cercando di ripomparli alla testa dell'impianto per evitare che venissero immessi in quelle condizioni assai particolari negli scarichi e fossero nuovamente trattati) e della difesa (secondo cui nella vasca n. 34 si era scatenata una reazione microbica che aveva trasformato in solfuro una parte dello zolfo presente attraverso l'azione di batteri denominati clostridia, evento questo assolutamente raro), riteneva comunque che l'evento morte fosse attribuibile alle omissioni dei Fa. e sottolineava, in adesione alla tesi del consulente del P.M., che la quantità dei fanghi, ove fosse stata immobile, non avrebbe potuto cagionare l'emanazione di quella quantità di gas letale invece rinvenuta, il che doveva far propendere per l'esercizio da parte dei lavoratori di un'attività di movimentazione dei suddetti fanghi prelevati dalla parte finale dell'impianto di depurazione. Riteneva, quindi, che la presenza di quel materiale fangoso nei locali aziendali potenzialmente idoneo a determinare la presenza di gas letale e l'assenza di precauzioni, doveva far ritenere sussistente il nesso causale tra condotta omissiva colposa dei Fa. ed evento morte, senza che potesse avere rilievo la natura di tali fanghi e la loro precisa provenienza, individuandosi comunque una violazione specifica della normativa antinfortunistica non essendosi proceduto all'eliminazione rapida di tali prodotti pericolosi.
Tale pronuncia veniva integralmente confermata dalla Corte di Appello di Palermo con sentenza in data 27.9.2010: in essa, tra l'altro, si ribadisce che i tre lavoratori deceduti stavano quel giorno effettuando proprio quell'attività (di ripompaggio dei liquami) prospettata dai consulenti tecnici del P.M. ed esposta nella sentenza di primo grado, si conferma la causa del decesso riportandola all'inalazione del gas letale e si evidenzia l'infondatezza della tesi dell'imprevedibilità di un evento letale legato all'inalazione dell'idrogeno solforato.
Avverso la sentenza della Corte palermitana ricorrono per cassazione, tramite i comuni difensori di fiducia, con due distinti atti, Fa. Fr. , Fa. Gi. Ri. e Fa. Ro. .
Con il ricorso redatto dall'avv. Carlo Ferracane, del Foro di Marsala, si deducono i motivi di seguito sinteticamente riportati.
1. Il vizio di motivazione ed illogicità manifesta, elencandosi una serie di omissioni della Corte di appello nel processo di valutazione delle risultanze probatorie e delle argomentazioni della sentenza di primo grado, e rimarcando la correttezza della conclusione del consulente tecnico della difesa circa l'assoluta imprevedibilità della produzione di solfuro, sicchè, evidenziata l'immotivata adesione del Tribunale alla tesi del consulente del P.M., si prospetta la necessità di una terza perizia, invano invocata nel corso dei giudizi di merito.
2. La violazione di legge in relazione al Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 5, comma 2, lettera d), non avendo gli operai, in cospetto della imprevedibile situazione di pericolo creatasi, che era di tutta evidenza come riconosciuto dalla stessa Corte territoriale, informato immediatamente gli odierni ricorrenti, in violazione della norma sopra richiamata.
3. La violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuati generiche.
4. La violazione di legge ed il vizio motivazionale in ordine alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena e del condono ex Legge n. 241 del 2006, evidenziando che il Giudice di appello è tenuto comunque a motivare circa il diniego del beneficio, pur in mancanza di specifiche deduzioni di parte.
5. La violazione di legge in relazione all'omessa indicazione delle conclusioni delle parti prevista dall'articolo 546 c.p.p., comma 1, lettera c).
Con il ricorso redatto dall'avv. Fausto Maria Amato del Foro di Palermo, si deducono il vizio motivazionale e la violazione di legge in relazione all'articolo 40 cpv. c.p.. Si assume che la sentenza impugnata non fornisce alcuna risposta al motivo di gravame con il quale si sosteneva non raggiunta la prova della sussistenza del nesso causale tra le condotte contestate e l'evento letale e si critica l'argomentazione addotta dalla Corte in relazione al c.d. ripompaggio dei liquami, allorchè sostiene che i tre lavoratori non conoscevano il pericolo di sprigionamento del gas letale, non essendo stato provato il procedimento attraverso cui il gas si era diffuso. Si contesta la correttezza, alla luce degli insegnamenti questa Corte di legittimità (citando la nota sentenza "Franzese"), del ragionamento della Corte distrettuale laddove ritiene essere superflua la prova circa l'attività effettivamente posta in essere dagli operai e circa l'effettivo mandato ricevuto da parte dei datori di lavoro "in quanto l'idrogeno solforato si è comunque sprigionato a causa della condotta colposa degli imputati". Invece, solo laddove i ricorrenti avessero disposto la pericolosa operazione descritta nel capo d'imputazione, sarebbe stata loro ascrivibile la mancata adozione delle cautele previste per compiere quel determinato tipo di attività. è stata depositata una memoria difensiva nell'interesse dei ricorrenti con la quale si ribadiscono ed illustrano ulteriormente le censure già esposte. Altra memoria è stata presentata nell'interesse della costituita parte civile I.N.A.I.L. a sostegno dell'impugnata sentenza.
Diritto
Va premesso che i ricorsi non sono tardivi, come rappresentato dalla parte civile nella sua memoria: infatti, il termine di 45 giorni (ai sensi dell'articolo 585 c.p.p., comma 1, lettera c) per la presentazione del ricorso decorreva dalla scadenza del termine (di 30 giorni) fissato ex articolo 544 c.p.p., comma 3 in sentenza per il deposito della motivazione, cioè dal 27.10.2010 (indipendentemente dalla data del suo effettivo, e tempestivo, deposito), sicchè scadeva l'11.12.2011, mentre i ricorsi, come da annotazione in calce alla sentenza impugnata, risultano depositati, rispettivamente, in data 10.12.2011 e 7.12.2011.
I ricorsi sono infondati e vanno rigettati.
Sono infondate le censure attinenti alla responsabilità penale dei ricorrenti contenute in entrambi i ricorsi e nella memoria da ultimo depositata.
Invero, la motivazione della sentenza impugnata, peraltro integrata da quella di primo grado che richiama e con la quale si fonde in un unicum inscindibile, s'appalesa del tutto congrua, ampia ed esente da qualsiasi vizio logico o giuridico. Peraltro le indicate censure sono di mero fatto, laddove tendono a sovrapporre una diversa valutazione dei fatti ed una diversa ricostruzione delle cause dell'infortunio, rispetto a quella motivatamente fatta dal Giudice di merito che, condividendo le argomentazioni della sentenza di primo grado, si è basato su dati ben precisi di natura scientifica, sui rilievi del consulenti del P.M. e sulle deposizioni dei testi ed ha esaustivamente e correttamente contestato le tesi difensive.
Del resto, il nuovo testo dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) come modificato dalla Legge 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Il novum normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova", finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere ad una inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all'interno della decisione (Cass. pen. Sez. 5, n. 39048 del 25.9.2007, Rv. 238215). Nè risulta rispettato il principio di c.d. autosufficienza del ricorso, costantemente affermata, in relazione al disposto di cui all'articolo 360 c.p.c., n. 5, dalla giurisprudenza civile, ma che trova applicazione anche nell'ambito penale, con la conseguenza che, quando si lamenti la omessa valutazione o il travisamento del contenuto di specifici atti del processo penale, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti medesimi o allegazione di copia integrale di essi in modo da rendere possibile il completo apprezzamento del vizio dedotto (cfr. Cass. pen. Sez. 4, 26.6.2008 n. 37982 Rv. 241023; Sez. 1, 22.1.2009, n. 6112, Rv. 24322).
Ciò peraltro vale nell'ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell'ipotesi di doppia pronunzia conforme, come nel caso di specie, il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l'ipotesi in cui il giudice d'appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass. pen., sez. 2, 15.1.2008, n. 5994; Sez. 1, 15.6.2007, n. 24667, Rv. 237207; Sez. 4, 3.2.2009, n. 19710, Rv. 243636).
La Corte territoriale ha dato ampio conto della maggiore attendibilità della tesi esposta dal consulente tecnico del P.M. e giammai ha inteso ritenere che l'idrogeno solforato si sia sprigionato a causa delle omissioni degl'imputati, bensì che le omissioni di costoro hanno cagionato la morte per inalazione del detto gas letale da parte dei tre operai che si avventurarono nello scantinato sprovvisti di strumenti prevenzionali che avrebbero comunque dovuto avere seco (cioè l'autorespiratore antigas "a pieno facciale").
Per non dire dell'accertata omissione delle misure prevenzionali dei luoghi di lavoro di cui al capo di imputazione (impianto di ventilazione meccanica o condizionamento dell'aria e cautele necessarie in luoghi seminterrati) e della carente informazione dei lavoratori stessi.
Nè si può ritenere che i tre lavoratori si siano recati in quel luogo, all'interno della struttura aziendale, di loro iniziativa (non essendo nemmeno adombrato un loro autonomo e specifico interesse) e non piuttosto per lo svolgimento di un'attività loro demandata, come acutamente, ed ineccepibilmente sotto il profilo logico, rilevato dalla sentenza impugnata (allorchè dalla presenza di residui della depurazione nel silos n. 34 e dal riscontrato collegamento negli stessi di un tubo, desume che i tre operai stavano svolgendo un'attività su tale zona del seminterrato, ipotizzata come pompaggio dei fanghi alla testa dell'impianto, che comunque determinava una movimentazione di detti residui).
Ampia e corretta è altresì la motivazione in ordine al nesso causale tra i fanghi che normalmente (e non già imprevedibilmente) producono il gas letale in questione (idrogeno solforato), e il decesso degli operai.
E' stata esaustivamente affrontata e risolta in senso negativo la tesi difensiva secondo cui, essendo rimasta ignota la causa dello sprigionamento del gas letale, non potrebbe che pervenirsi ad un giudizio assolutorio in assenza di prova certa oltre ogni ragionevole dubbio sul nesso causale, spiegando che detta impostazione, inaccoglibile, è frutto di un'errata ricostruzione degli elementi di fatto che oggi i ricorrenti pervicacemente ripropongono, incorrendo anche nell'aspecificità del motivo (Cass. pen. Sez. 4, 29.3.2000, n. 5191 Rv. 216473 e successive conformi, quale: Sez. 2, 15.5.2008 n. 19951, Rv. 240109).
Ed anzi, è stato puntualmente rilevato che non solo le attività svolte dalla cantina vitivinicola "F." erano in astratto idonee a produrre tale gas letale perchè ci si avvaleva di un sistema di depurazione che produceva fanghi senza la predisposizione di idonee precauzioni, ma, altresì, che quello specifico giorno 11.6.2003, nei locali aziendali ed anche nelle vicinanze si avvertiva un forte odore di uova marce sintomatico della presenza di idrogeno solforato, senza che nemmeno in tale occasione i ricorrenti assumessero alcuna iniziativa idonea a proteggere i lavoratori avendo comunque permesso attività all'interno di quello scantinato dal quale provenivano gli effluvi.
I motivi sub nn. 2, 3, 4 e 5 del primo ricorso non risultano, persino dal testo della sentenza impugnata, che siano stati addotti anche in grado di appello, onde sono improponibili in questa sede ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma. In ogni caso, la rappresentata violazione del Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 5, implica l'accertamento di un dato di fatto (l'omessa segnalazione immediata ai datori di lavoro) che non compete a questa Corte di legittimità.
L'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non è violativo di alcun obbligo di valutazione da parte del giudice di merito che ne ha solo la facoltà, al pari della concessione della sospensione condizionale della pena (articolo 597 c.p.p., u.c.), non risultando una corrispondente richiesta in tal senso contenuta nei motivi d'appello nè, tanto meno, la specifica indicazione nei motivi d'impugnazione di fattori attenuanti o di elementi positivi, come tali abbisognevoli di adeguata valutazione. Peraltro, l'omessa concessione della sospensione condizionale della pena abbisogna di motivazione, pur in mancanza di specifica deduzione di parte, solo in caso di riforma in appello di sentenza assolutoria, e la ragione è di lapalissiana evidenza: la difesa, confidando nella conferma della pronuncia assolutoria, potrebbe non aver svolto alcuna richiesta subordinata. Del resto, in tale ipotesi, il giudice di secondo grado, trovandosi di fronte a una richiesta di radicale riforma di una pronuncia ampiamente favorevole al prevenuto, nel momento in cui addiviene alla decisione di accoglierla, non può non dare specifico conto del grado di estensione di tale accoglimento e, quindi, sotto tale profilo, spiegare perchè esso non sia contenuto, ove ne sussistano i presupposti legali, nei limiti di una condanna condizionalmente sospesa (Cass. pen. sez. 6, n. 12839 del 10.2.2005, Rv. 231431, citata dal ricorrente). Diversamente, il giudice di appello al quale sia dalla legge attribuito un potere discrezionale deve fornire adeguata motivazione nella sentenza solo se eserciti tale potere o non lo eserciti nonostante sia stato motivatamente sollecitato a farlo dall'imputato o dal difensore: insomma occorre pur sempre che il ricorrente indichi gli elementi di fatto in base ai quali il giudice avrebbe potuto ragionevolmente e fondatamente esercitarlo (Cass. pen. Sez. 6, n. 12358 del 3.11.1998, Rv. 212325 ed altre successive conformi).
L'omessa indicazione, nell'intestazione della sentenza, delle conclusioni delle parti non costituisce motivo di nullità della stessa (vedi, tra le più recenti, Cass. pen. sez. 3, n. 19077 del 24.3.2009 Rv. 243764).
Quanto alla mancata applicazione del'indulto di cui alla L n. 241 del 2006 si osserva la relativa censura è ammissibile con il ricorso per cassazione solo qualora il giudice di merito abbia esplicitamente escluso detta applicazione, mentre nel caso in cui abbia omesso di pronunciarsi, come nel caso di specie, deve essere adito il giudice dell'esecuzione (Cass. pen. sez. 5, 22.10.2009, n. 43262, rv 245106; conformi; Sez. un., 8 giugno 1995 n. 2333, sez. 2, 5 maggio 2004 n. 37518 ed altre). Consegue il rigetto dei ricorsi e, ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè la condanna dei ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione in favore della parte civile costituita delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè, in solido, alla rifusione delle spese in favore della costituita parte civile INAIL che liquida in complessivi euro 2.500,00, oltre accessori come per legge