3.- La giurisprudenza;
3.1.- La giurisprudenza penale.

Fatti di mobbing possono essere reato (con conseguente risarcibilità del danno morale), ove siano integrati gli estremi della violenza privata (art. 610 cod. pen.), delle lesioni personali (art. 582 cod. pen), morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.), istigazione al suicidio (art. 580 c.p.), delle molestie (art. 660 cod. pen.), delle molestie sessuali o violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), dei maltrattamenti (art. 572 c.p.), dell'ingiuria o della diffamazione (artt. 594 e 595 cod. pen.), dell'abuso di ufficio (art. 323 cod. pen.), della condotta discriminatoria (art. 15 e 38 st. lav., e 4 d.lgs. 216 del 2003), restando poi applicabile l'aggravante comune ex art. 61 n. 11 cod. pen.

Sulla responsabilità penale del datore di lavoro per fatti costituenti mobbing, la Suprema Corte si è pronunciata in diverse occasioni.
La sentenza Cass., VI sez. pen., 22 gennaio 2001, n. 10090, (all. 16) ha posto alcuni punti fermi in ordine alla astratta configurabilità del delitto di maltrattamenti nell'ambito dei rapporti di lavoro subordinato, rilevando che «Integra il delitto di maltrattamenti previsto dall'art. 572 cod. pen., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 cod. pen.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale (Fattispecie relativa a un datore di lavoro e al suo preposto che, in concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi)».

In altra vicenda, la Suprema Corte (Cass. 29 agosto 2007, n. 33624), (all. 17) ha chiarito che «È legittima la decisione con cui il G.u.p. dichiara non luogo a procedere in ordine al reato di lesioni personali volontarie aggravate dovute ad un'alterazione del tono dell'umore di un insegnante, riconducibile, secondo la prospettazione accusatoria, ad una condotta di "mobbing" posta in essere dal preside dell'istituto, senza specificare i singoli atti lesivi e causativi di tale malattia, considerato che il fenomeno evocato presuppone una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro; d'altra parte, tale fenomeno, così come definito, appare più prossimo alla fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen. (maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità), la cui integrazione richiede, comunque, la ravvisabilità dei parametri di frequenza e durata nel tempo delle azioni ostili al fine di valutarne il complessivo carattere persecutorio e discriminatorio (nella specie non compiutamente contestati). ».

La sentenza, pur escludendo nel caso di specie la congruità dell'imputazione in relazione alla fattispecie contestata, ha precisato che "la condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell'esprimere l'ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell'efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell'ambiente di lavora". Pertanto la prova della relativa responsabilità "deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi... che può essere dimostrata per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa". Secondo la decisione "la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing è quella descritta dall'art. 572 c. p., commessa da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione".

È stato deciso da Cass., VI sez. pen., 21 settembre 2006, n. 31413, (all. 18) un caso giudiziario (divenuto tristemente famoso, relativo al mobbing di massa della Palazzina LAF di Taranto, che ha visto il riconoscimento dei reati di tentata violenza privata e di frode processuale. Secondo la decisione, «È configurabile il reato di violenza privata, consumata o tentata, a carico di datori di lavoro i quali costringano o cerchino di costringere taluni lavoratori dipendenti ad accettare una novazione del rapporto di lavoro comportante un loro "demansionamento" (nella specie costituito da declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio) mediante minaccia di destinarli, altrimenti, a forzata ed umiliante inerzia in ambiente fatiscente ed emarginato dal resto del contesto aziendale, nella prospettiva di un susseguente licenziamento».

Cassazione, VI sez. pen,, 11 giugno 2007, n. 22702, e Cassazione, VI sez. pen., 7 novembre 2007, n. 40891, (all. 19-20) hanno applicato la norma sull'abuso in atti d'ufficio: la prima pronuncia in un caso di demansionamento e diffamazione compiuta dal superiore gerarchico (che non aveva contestato formalmente al subordinato le proprie manchevolezze, ma le aveva affermate apoditticamente in lettere indirizzate ai superiori); la seconda decisione, affermando che «In materia di abuso d'ufficio, integra il requisito della violazione di legge il mutamento di destinazione di una dipendente comunale dallo svolgimento delle mansioni di coordinatrice economa a quelle di prevenzione ed accertamento delle violazioni in materia di sosta, deliberato dal Sindaco in violazione dell'art. 56 D.Lgs. n. 29 del 1993 sui dipendenti delle pubbliche amministrazioni e dell'art. 7 C.C.N.L. dei dipendenti degli enti locali recepito nel d.P.R n. 593 del 1993. (Nella motivazione, la Corte ha precisato che tali norme, pur consentendo che un dipendente possa essere adibito a svolgere compiti di qualifica immediatamente inferiore, richiedono, tuttavia, l'occasionalità della destinazione e la possibilità che ciò avvenga con criteri di rotazione).».

Da ultimo, si segnala che, nella giurisprudenza penale di merito, Trib. Torino del 3 maggio 2005 ha approfondito la problematica dello rilevanza, nell'ambito di una imputazione di maltrattamenti, dello jus corrigendi del datore di lavoro in relazione ai comportamenti illeciti del lavoratore, escludendone la valenza scriminante anche per la tipicità delle sanzioni disciplinari cui il datore di lavoro può ricorrere, in presenza di violazioni delle regole nella corretta esecuzione della prestazione lavorativa da parte dei suoi dipendenti.

3.2.- La giurisprudenza civile di legittimità.
Sotto il profilo civilistico, la Cassazione ha chiarito intanto la giurisdizione in materia. Si è al riguardo sottolineato che il mobbing non è altro che un aspetto della violazione dell'obbligo di sicurezza del datore di lavoro, e che si tratta di responsabilità contrattuale del datore di lavoro, con conseguente competenza funzionale del giudice del rapporto di lavoro. La giurisdizione è in linea generale della magistratura ordinaria anche se la pretesa coinvolge aspetti organizzativi di servizi pubblici (nella specie, sanitari), atteso che l'art. 33, comma 2 lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel testo modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, esclude dalla giurisdizione amministrativa "le controversie meramente risarcitone che riguardano il danno alla persona o a cose".
Nel caso affrontato da Cass. SU 4 maggio 2004, n. 8438, (all. 21) venivano in rilievo una serie di specifici atti di gestione del rapporto di lavoro -illeciti istantanei con effetti permanenti, e non illeciti permanenti-, con i quali si era realizzata compiutamente una fattispecie di inadempimento contrattuale, lesiva delle posizioni soggettive tutelate, ancorché l'esistenza dell'evento dannoso si sia protratta autonomamente: tali atti erano tutti riferiti ad epoca antecedente al 30 giugno 1998, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, restando irrilevante invece l'epoca della manifestazione delle patologie denunciate dal ricorrente. Secondo il regime transitorio della disciplina devolutiva al giudice ordinario della giurisdizione sulle cause di pubblico impiego, nella specie, residuava la giurisdizione del giudice amministrativo. La decisione ha così affermato che «Ai fini del riparto di giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni proposta da un pubblico dipendente nei confronti dell'amministrazione, che non sia assoggettata alla nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 80 del 1998, assume valore determinante l'accertamento della natura giuridica dell'azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto, se si tratta di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre, se si tratta di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario. (Nella specie, relativa ad azione risarcitoria fondata sull'esistenza di comportamenti vessatori posti in essere dalla P.A. e configuranti - secondo il pubblico dipendente - un'ipotesi di "mobbing", la S.C. ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che gli atti asseritamente lesivi - tutti avvenuti in epoca antecedente al 30 giugno 1998 - si riferivano a violazioni di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di pubblico impiego)».
Cass. SU 12 giugno 2006, n. 13537, (all. 22) ha quindi precisato successivamente che «In tema di lavoro pubblico cosiddetto privatizzato, ai sensi della norma transitoria contenuta nell'art. 69, settimo comma, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel caso in cui il lavoratore-attore, sul presupposto dell'avverarsi di determinati fatti, riferisca le proprie pretese (nella specie, accertamento del diritto ad una superiore qualifica e alle conseguenti differenze retributive) ad un periodo in parte anteriore ed in parte successivo al 30 giugno 1998, la competenza giurisdizionale non può che essere distribuita tra giudice amministrativo in sede esclusiva e giudice ordinario, in relazione ai due periodi. Tale regola del frazionamento della domanda trova temperamento in caso di illecito permanente: qualora la lesione del diritto del lavoratore abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro (ad esempio, dequalificazione, comportamenti denunciati come "mobbing"), si deve fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza, con la conseguenza che va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario allorché tale cessazione sia successiva al 30 giugno 1998».

Da ultimo sul problema della giurisdizione, si è pronunciata Cass. SU 27 novembre 2007, n. 24625, (all. 23) secondo la quale «In tema di lavoro pubblico contrattualizzato e in riferimento a questioni successive al 30 giugno 1998, qualora la domanda, individuata sulla base del "petitum" sostanziale in funzione della "causa petendi", del dipendente pubblico (nella specie dirigente sanitario di primo livello) miri alla tutela di posizioni giuridiche soggettive afferenti il rapporto di lavoro, asseritamente violate da atti illegittimi, vessatorie discriminatori (tra cui un atto di sospensione del servizio alla cui direzione il dirigente era preposto, dedotto come atto di "mobbing" e non come atto organizzatorio in ipotesi contrastante con i principi di buona amministrazione), la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, cui spetta pure la domanda di risarcimento del danno da "mobbing", atteso che, anche se fosse qualificabile come responsabilità contrattuale (e non extracontrattuale) le questioni concernono il periodo di lavoro successivo al 30giugno 1998».

Varie sentenze sono state emesse sul tema dalla sezione Lavoro della Suprema Corte, la quale, in assenza di diretti riferimenti normativi sul mobbing ed attraverso la difficile opera ricostruttiva e di inquadramento delle fattispecie negli istituti giuslavoristi consolidati e nei strumenti classici di tutela dei diritti, ha riconosciuto le prime incisive forme di tutela giurisdizionale del lavoratore vittima di mobbing ed hanno altresì definito i "contorni" giuridici di una fattispecie non direttamente tipizzata.

Sul tema, va preliminarmente osservato che, se talora le attività costituenti mobbing sono penalmente rilevanti, più spesso esse sono rilevanti solo sul terreno civilistico; altre volte ancora, si è in presenza di atti o fatti non illegittimi se riguardati singolarmente, e talora addirittura giuridicamente neutri, eppure rilevanti, unitamente ad altri, quali elementi di una fattispecie complessa che nel suo insieme ha portata lesiva della dignità, sicurezza e salute del lavoratore (ossia dei limiti, costituzionalmente rilevanti ex art. 41 Cost., apposti all'attività datoriale privata).
Risulta poi utile richiamare la distinzione tra la fattispecie del mobbing c.d. verticale, direttamente promanante dal datore di lavoro, e del mobbing c.d. orizzontale, promanante dai colleghi di lavoro della vittima: la giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi relazione a fattispecie rientranti in entrambi i tipi, precisandone caratteri e responsabilità e risolvendo le diverse questioni che nei due casi si pongono sul piano giuridico.
Una delle prime sentenze sul tema è stata resa da Cass. 19 gennaio 1999, n. 475, (all. 24) che si è occupata di un caso di vessazioni sul lavoro, ritenendo che è risarcibile il danno derivato al dipendente da un comportamento illegittimo e persecutorio del datore di lavoro, consistito nella richiesta a più riprese all'Inps dell'effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del medico curante, nonostante la malattia fosse stata già accertata dai controlli precedenti. (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza d'appello secondo la quale il comportamento del datore di lavoro aveva causato un aggravamento della malattia del lavoratore tale da portare ad una invalidità permanente con riduzione della capacità di lavoro, riformandola, tuttavia per quanto attiene alla determinazione del risarcimento del danno morale e di quello patrimoniale derivante dalla ridotta capacità di lavoro).

Cass. 6 marzo 2006, n. 4774, (all. 25) ha ritenuto che una serie di comportamenti consistiti in provvedimenti di trasferimento, ripetute visite mediche fiscali, attribuzione di note di qualifica di insufficiente, irrogazione di sanzioni disciplinari, privazione della abilitazione necessaria per operare al terminale ed altri episodi, può astrattamente costituire mobbing ed esporre il datore di lavoro all'azione risarcitoria del lavoratore ove si tratti di fatti rientranti in un medesimo disegno persecutorio del datore. Più specificamente la Corte, pur in concreto escludendo la sussistenza del mobbing, ha affermato che «L'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente (c.d. "mobbing") - che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. - si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifichi obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata - procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito impugnata che, con congrua motivazione, si era attenuta a tali criteri escludendo la configurabilità, in capo al datore di lavoro, di un disegno persecutorio realizzato mediante i vari comportamenti indicati dal lavoratore come vessatori)».

Cass. 23 marzo 2005, n. 6326, (all. 26) ha affrontato altra problematica, relativa alla possibilità della qualificazione del comportamento datoriale come mobbing in appello.
Nel caso, si discuteva in particolare della possibilità per il lavoratore di unificare in appello i fatti già dedotti in primo grado attraverso la loro considerazione globale quale mobbing, ritenendosi da questo che non trattavasi di domanda "nuova", tanto più che il concetto di mobbing aveva carattere metagiuridico ed al momento mancava di una espressa previsione normativa, ed obiettandosi dal datore di lavoro che il mobbing non è solo l'individualità degli episodi ma la loro considerazione finalistica, che finisce per farne una categoria separata, caratterizzata nel senso di comportamenti compositi, unificabili e finalizzati, sicché la novità della domanda era implicita nel fatto che, di fronte ad un'azione risarcitoria, in concreto esercitata, l'indagine era stata rivolta a comportamenti considerati singolarmente, mentre, in ipotesi di mobbing. la rilevanza andrebbe assegnata alle classi comportamentali e non ai singoli episodi. Sul punto, la S.C. ha osservato che «Qualora il lavoratore, agendo in giudizio per il danno derivante da demansionamento, chieda anche la componente di danno alla vita di relazione o cosiddetto danno biologico deducendo sin dall'atto introduttivo la lesione della propria integrità psico-fisica in relazione, non solo al demansionamento, ma anche al globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro, la successiva qualificazione come "mobbing" del suddetto comportamento, non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico, in considerazione della mancanza di una specifica disciplina del "mobbing" e della sua riconduzione (anche secondo la sent. della Corte cost. n. 359 del 2003) alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto, ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore».
Più di recente, Cass. 20 maggio 2008, n. 12735, (all. 27) si è occupata del tema: ritenendo il mobbing un fenomeno unitario caratterizzato dalla reiterazione e dalla sistematicità delle condotte lesive e dalla intenzionalità delle stesse in direzione del risultato perseguito di isolamento ed espulsione della vittima dal gruppo in cui è inserito, la Corte territoriale ne aveva escluso la ricorrenza per l'assenza di tali caratteristiche di reiterazione, sistematicità e intenzionalità delle condotte denunciate; la S.C. ha cassato la decisione impugnata in quanto, proprio perché il nostro ordinamento giuridico non prevede una definizione del fenomeno mobbing, la mancata ricorrenza del mobbing non esclude che i fatti allegati dal lavoratore possano essere rilevanti per altro profilo, ai fini del richiesto risarcimento dei danni, in relazione agli obblighi gravanti sull'imprenditore a norma dell'art. 2087 c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite per il relativo inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla necessaria presenza del dolo.

Ha riguardato anche il mobbing Cass. 29 gennaio 2008, n. 1971, (all. 28) che ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso per difetto di prova il mobbing, pur in presenza di un demansionamento.

Della prova del mobbing e dei poteri ufficiosi in materia si sono occupate altre pronunce: secondo Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305, (all. 29) «È carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti. Peraltro, mentre deve esserci sempre la specifica motivazione dell'attivazione dei poteri istruttori d'ufficio ex art. 421 cod. proc. civ., il mancato esercizio di questi va motivato soltanto in presenza di circostanze specifiche che rendono necessaria l'integrazione probatoria. (Nella specie, la S.C., affermando il su esteso principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto decaduto il rincorrente dalla prova di asseriti fatti di mobbing, non essendo stata tale prova richiesta specificamente nel ricorso introduttivo del giudizio e non essendovi le condizioni per l'integrazione probatoria officiosa)».
In precedenza, Cass. 29 settembre 2005, n. 19053, (all. 30) aveva affermato che «In tema di licenziamento individuale per giusta causa la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per "mobbing" e conseguente malattia depressiva, in relazione a comportamenti datoriali che abbaino determinato il dipendente alle dimissioni, è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva ritenuto non sostenuta da prova sufficiente la tesi della ricorrente lavoratrice della sussistenza di comportamenti della società datrice di lavoro finalizzati a nuocerle per indurla alle dimissioni e comunque per provocarle danno, sostenendo in particolare che i mutamenti nell'attribuzione della clientela e l'eliminatone del supporto del "merchandiser" avevano trovato ampia giustificazione, da un lato, nella ristrutturazione aziendale, che aveva implicato una riduzione di organico e la soppressione della posizione professionale di tutti i "merchandiser"; dall'altro, nei ripetuti e prolungati periodi di assenza della lavoratrice che avevano imposto la distribuzione della clientela di sua competenza agli altri venditori».

Di recente, la Cassazione si è occupata anche del mobbing orizzontale, precisandone i caratteri in relazione alla responsabilità del datore di lavoro.
Ha affermato Cass. 11 settembre 2008, n. 22858, (all. 31) che la responsabilità del datore di lavoro per mobbing sussiste anche ove, pur in assenza di un suo specifico intento lesivo, il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente, per la colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo; né ad escludere tale responsabilità, quando il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, può bastare un mero tardivo intervento "pacificatore", non seguito da concrete misure e da vigilanza. Secondo la decisione, (la cui massima provv. si riporta), «integra la nozione di mobbing" la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti) diretti alla persecuzione od all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa - in violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. - la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica); né la circostanza che la condotta di "mobbing" provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. - ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, dovendosi escludere la sufficienza di un mero (e tardivo) intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza (nella specie, la S.C., nel cassare la sentenza impugnata, ha rilevato che il giudice di merito aveva valutato le condotte in termini non solo incompleti ma anche con un approccio meramente atomistico e non in una prospettiva unitaria, con sottovalutazione della persistenza del comportamento lesivo, durato per un periodo di sei mesi, più che sufficiente ad integrare l’idoneità lesiva della condotta nel tempo, che - nella sostanziale inerzia del datore di lavoro — era consistita nell'inopinato trasferimento, da parte di un altro dipendente gerarchicamente sovraordinato, di una dipendente (incaricata della trattazione di un progetto aziendale di rilevanza europea) dal proprio ufficio in un'area "open", senza che venisse munita di una propria scrivania e di un proprio armadio, con sottrazione delle risorse utili allo svolgimento dell’attività, con creazione di reiterate situazioni di disagio professionale e personale per aver dovuto trattare in un luogo aperto al passaggio di chiunque attività che presupponevano riservatezza e per essere stata, in più occasioni, insultata con espressioni grossolane).»
Sempre con riferimento al mobbing orizzontale, in precedenza, si è pronunciata Cass. 20 luglio 2007, n. 16148 (all. 32): questa, in un caso di un ex dipendente dell'Enel che, per molti anni, era stato sottoposto dai colleghi a continue vessazioni, aggressioni e minacce riportando, in un primo momento, una forte debilitazione psico-fisica, seguita poi da un infarto e che, solo all'esito di un procedimento penale aveva chiesto i danni per mobbing, aveva rilevato, in riferimento alla responsabilità aziendale per violazione art. 2087 c.c., attesa l'unicità della fattispecie di mobbing, che il dies a quo del decorso della prescrizione per comportamento illegittimo permanente va individuato nel momento in cui la produzione del danno diviene oggettivamente percepibile.

Particolarmente interessanti le problematiche affrontate da Cass. 29 agosto 2007, n. 18262, (all. 33) che ha approfondito il tema della rilevanza delle caratteristiche soggettive del soggetto mobbizzato ai fini della esclusione del nesso causale dell'illecito.
Secondo la decisione, che ha recepito sul punto le conclusioni della ctu, l'affezione del dipendente è "disturbo post-traumatico da stress compatibile con situazione occupazionale anamnesticamente vissuta come avversativa. Così concludendo il collegio peritale ha quindi ben tenuto presente i tratti della personalità, sottolineati in ricorso, che rendevano il periziando particolarmente fragile, ma ha anche ritenuto che detta fragilità non valesse ad interrompere il collegamento eziologico tra la affezione riscontrata e le molestie subite, avendo precisato che una eventuale preesistenza di disturbi psichici poteva determinare un peso particolare e peculiare nella valutazione del danno, non nella determinazione del nesso di causalità".

3.3.- La giurisprudenza di merito.
Ricca di spunti è la giurisprudenza di merito in materia di mobbing.
Non vi è spazio qui per una disamina approfondita delle varie sentenze di merito (per la quale si rimanda all'approfondimento allegato (Buffa, in Buffa e Cassano, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, Utet, 2005, (all. 47) che ha distinto le problematiche del mobbing in relazione al rapporto di lavoro privato o pubblico; si allegano inoltre le sentenze di merito edite successive a quelle ivi analizzate: all. da 36 a 41), ma si reputa opportuno richiamare le problematiche principali affrontate.
In linea generale, la giurisprudenza attribuisce rilevanza al mobbing in quanto ravvisi in concreto una reiterazione nel tempo di condotte lesive: per il tribunale di Trieste (sentenza 23 dicembre 2003, in www.ipsoa.it/ngonline, con nota di BUFFA, Il mobbing apicale tra responsabilità dell'ente e responsabilità personale del mobber: all. 48), la reale natura di atti vessatori è tradita e svelata da una serie di elementi quali la frequenza, la sistematicità, la durata nel tempo, la progressiva intensità, e, sopra e dentro tutti, la coscienza e volontà di aggredire, disturbare, perseguitare, svilire la vittima (e proprio l'elemento soggettivo del mobber consente di collegare tra loro fatti apparentemente del tutto diversi tra loro ed indipendenti ed accaduti in contesti spaziali e temporali eterogenei), che ne riporta un danno, anche alla salute psico-fisica.
Tribunale Civitavecchia, sentenza 20 luglio 2006, evidenzia la unicità della fattispecie del mobbing, rilevando che "elementi caratterizzanti il mobbing sono l'aggressione o la vessazione psicologica del lavoratore, la durata nel tempo dei detti comportamenti e la reiterazione delle azioni ostili, che le rende sistematiche (fr. Corte d'Appello Milano, 27 agosto 2003, in Or. Giur. Lav. 2003, 510; Tribunale Milano, 28 febbraio 2003, in Riv. Crit. di Dir. del Lav. 2003, 655). Ciò che preme evidenziare, tuttavia, è il fatto che la nozione di mobbing — come condivisibilmente sottolineato dalla giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Forlì, 28 gennaio 2005, n. 28, in www.altalex.it, annotata in Giurisprudenza di merito, 2005, 2593) - non si esaurisce in una comodità lessicale ma contiene un valore aggiunto — costituito, appunto, dalla finalità vessatoria, dall'esistenza di una strategia persecutoria - che consente di arrivare a qualificare come tale, e quindi a sanzionare, anche quel complesso di situazioni che, valutate singolarmente, possono anche non contenere elementi di illiceità ma che, considerate unitariamente ed in un contesto mobbizzante, assumono un particolare valore molesto che non sarebbe stato possibile apprezzare senza il quadro d'insieme che il mobbing consente invece di valutare".
Trib. Bergamo 20 giugno 2005, in Foro it. 2005, I, 3356, ha distinto espressamente tra mobbing e straining, qualificando quest'ultimo quale stress forzato sul luogo di lavoro che può derivare anche da una singola azione, cui si ricollega un effetto permanente sul lavoratore, e che tuttavia non costituisce mobbing.

Il mobbing, proprio in quanto caratterizzato dalla compresenza nella fattispecie lesiva di atti e fatti non sempre illegittimi e giuridicamente rilevanti, postula l'analitica indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie e la precisa individuazione della portata lesiva dei fatti dedotti (tribunale di Lecce 4 giugno 2003, in www.salentolavoro.it, e Trib. Como 22 febbraio 2003, in Mass. Giur. Lav. 2003, 329, hanno addirittura dichiarato la nullità del ricorso ai sensi del combinato disposto degli artt. 414 n° 4) e 156 cpv. c.p.c., per oggettiva insufficienza nella esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui è fondata la domanda) e, quindi, la prova degli stessi e dei relativi asseriti effetti pregiudizievoli.

Una disamina delle decisioni in materia dei giudici del lavoro evidenziano che le maggiori difficoltà del mobbizzato riguardano la prova della reiterazione delle condotte illecite ed il superamento del livello di conflittualità ordinaria del vivere sociale e, in particolare, degli ambienti di lavoro. In tale contesto, il Tribunale di Milano (sent. 20 maggio 2000) ha affermato che non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. "mobbing"), qualora l'assenza di sistematicità, la scarsità di episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all'interno di una organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi.
La sentenza ricorda che il prestatore di lavoro non ha alcun diritto ad essere felice e, anzi, come in ogni altro ambiente basato su relazioni continuative, l'azienda stessa è luogo di continui conflitti e tensioni, in parte inevitabili e prevenibili mercè sfoggio di virtù morali ed umane che non sono oggetto di obbligo giuridico; l'illecito non coincide con quanto viene avvertito come sgradevole sul piano morale e che in ogni caso, la illegittimità di una condotta non può farsi derivare dal semplice verificarsi del danno ove accertato: infatti l'alterazione dell'integrità psicofisica di un soggetto può derivare da fattori differenti, dalla vita familiare, da uno stato di difficoltà emotiva che connota il lavoratore, ed anche da comportamenti legittimi del datore di lavoro, inevitabili ma accettati in modo irragionevole dal prestatore di lavoro.

Secondo Tribunale di Cassino 18 dicembre 2002, assolutamente necessario è individuare la linea di confine del mobbing rispetto ai normali "conflitti d'ufficio" o, nel caso del settore scolastico qui in esame, rispetto alle polemiche sorte in seno al Collegio dei docenti dell'istituto, conflitti tutti rientranti nella fisiologica prassi quotidiana della generalità dei luoghi di lavoro e che, soltanto per superficialità di approccio indotta dalla diffusione avuta anche a livello di mezzi di informazione di massa dal fenomeno, si pretende di ricondurre sempre e soltanto a mobbing dinanzi al giudice.

Tribunale di Bari 12 marzo 2004, (all. 36) in www.giurisprudenzabarese.it, ha puntualizzato i parametri del mobbing, la cui mancanza esclude la configurabilità della fattispecie lesiva: la frequenza delle azioni ostili; la durata nel tempo di dette azioni; il tipo di azioni ostili (che vengono normalmente suddivise in cinque categorie: 1) attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; 2) isolamento sistematico; 3) cambiamenti delle mansioni lavorative; 4) attacchi alla reputazione; 5) violenze e minacce di violenza); il carattere persecutorio e discriminatorio delle stesse; la posizione di inferiorità del lavoratore; il preciso intento persecutorio e vessatorio del comportamento datoriale.
Il mobbing dunque richiede una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengano fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e qualità. Nel caso, la richiamata sentenza ritiene che verosimilmente lo stato ansioso-depressivo in cui incontestabilmente versava il ricorrente, fosse in qualche modo ricollegabile alla intervenute modifiche dell'organizzazione del lavoro e, in specie del settore logistica dove il predetto aveva prestato la propria attività per notevole tempo; ciò peraltro in un'ottica assolutamente fisiologica, e senza che configurabile una responsabilità risarcitoria del datore di lavoro.
In proposito la sentenza rammenta che "il prestatore di lavoro non ha alcun diritto ad essere felice e, anzi, come in ogni altro ambiente basato su relazioni continuative, l'azienda stessa è luogo di continui conflitti e tensioni, in parte inevitabili e prevenibili mercé sfoggio di virtù morali ed umane che non sono oggetto di obbligo giuridico", ed aggiunge che non può dimenticarsi che l'illecito non coincide con quanto viene avvertito come sgradevole sul piano morale e che in ogni caso, la illegittimità di una condotta non può farsi derivare dal semplice verificarsi del danno ove accertato. Del resto, l'alterazione dell'integrità psicofisica di un soggetto può derivare da fattori differenti, dalla vita familiare, da uno stato di difficoltà emotiva che connota il lavoratore, ed anche da comportamenti legittimi del datore di lavoro, inevitabili ma accettati in modo irragionevole dal prestatore di lavoro. In difetto quindi di una prova positiva del nesso di causalità tra il dedotto stato depressivo ed un comportamento identificabile sul piano oggettivo come illegittimo, la pronuncia ha ritenuto che la pretesa di risarcimento del danno non possa trovare spazio.

Ma quanto detto rende evidente che la fattispecie del mobbing si presenta spesso di difficile enucleazione, specie quando ancorata a meri fatti formalmente leciti ma rilevanti in una dimensione che li consideri unitamente, o per l'elemento soggettivo che li unifica o ancor più per gli effetti obiettivi degli atti: in particolare, è certo difficile sceverare, nell'ambito di fatti in sé neutri, quei fatti che possono rilevare quali integrativi del mobbing; specie ove i rapporti tra i dipendenti siano conflittuali, può risultare problematico stabilire in concreto fin dove si spinga la subordinazione del dipendente e dove emerga l'abuso del superiore, fin dove i conflitti lavorativi rientrino nella normale dinamica dei rapporti umani sul lavoro e dove sfocino invece nella patologia dei rapporti, fin dove i disagi e gli stress da lavoro siano irrisarcibili in quanto normali (anche se mal tollerati dal dipendente) o frutto di disciplina particolarmente serrata e dove invece essi diventino oggettivamente intollerabili o espressione di abuso.
Si tratta indubbiamente di valutazioni da effettuare in relazione al singolo caso di volta in volta oggetto di giudizio, ad istruttoria probatoria ultimata.

Che l'importanza giuridica della categoria del mobbing stia proprio nell'unificazione delle condotte datoriali, sicché anche condotte in sé giuridicamente insignificanti o neutre assumono rilevanza quali elementi di una fattispecie complessa che è lesiva degli interessi del lavoratore, è stato riconosciuto anche da Trib. Lecce 9 giugno 2005, (all. 34) in www.personaedanno.it ed in dirittolavoro.altervista.org, in un caso in cui, oltre alla durata nel tempo delle vessazioni, risultava l'isolamento del ricorrente, il demansionamento, le minacce di licenziamento, l'abuso nei controlli datoriali e l'imposizione illeciti di comportamenti non rilevanti ai fini della prestazione.
Riconosce peraltro la sentenza che importante è delineare forme di tutela del lavoratore anche nel caso in cui al datore competono poteri unilaterali di conformazione del rapporto, rispetto ai quali il lavoratore ha astrattamente una posizione di mero pati: "il lavoratore ha una posizione soggettiva di fondamentale importanza che è l'interesse -inquadrabile nella categoria degli interessi legittimi, ma di tipo privatistico- ad un corretto esercizio da parte del datore di lavoro dei poteri unilaterali di gestione; a questo interesse, che è alla base di una funzione di controllo che può espletare il lavoratore sulla posizione del datore di lavoro, corrisponde quello che è il generale obbligo di buona fede e di correttezza del datore di lavoro", obbligo che è violato "innanzitutto quando il datore di lavoro abusa dei propri poteri, cioè, giuridicamente, fa un uso dei propri poteri dirigendoli a fini diversi da quelli previsti dalla norma che assegna il potere unilaterale al datore di lavoro".

Con riferimento al pubblico impiego contrattualizzato, l'ordinanza collegiale del Tribunale di Lecce, 23 agosto 2001, in Lav. prev. oggi, 2001, 1428, ed in www.lpp.it e www.dirittolavoro.web1000.com/justice/impegno, (all. 35) in un caso di doloso svuotamento professionale delle mansioni di una dirigente, accompagnato da accuse infondate e calunniose per attività svolte sul lavoro, nel ravvisare nel caso un vero e proprio bullying, ossia comportamento mobbizzante intenzionalmente volto ad arrecare danni, ha ritenuto che l'amministrazione avesse il preciso dovere (come si suppone noto all'amministrazione medesima per le sue specifiche competenze, anche ispettive, in materia di lavoro) di intervenire per rimuovere una situazione non più tollerabile all'interno dell'ufficio, e di evitare un'ulteriore lesione della personalità fisica e morale della lavoratrice. L'ordinanza salentina inoltre ha precisato analiticamente l'ambito del potere del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione e l'assenza di limiti per un intervento inibitorio del mobbing, neppure nel caso in cui la fattispecie importasse incidenza sull'organizzazione della pubblica amministrazione: si è in particolare ritenuto che il giudice ordinario potesse prendere provvedimenti che valessero ad impedire al dirigente mobbizzante la reiterazione della condotta lesiva nei confronti della dipendente, ed anche se ciò si fosse tradotto inevitabilmente in una compressione dei poteri del dirigente del servizio (trattandosi di una situazione necessitata dall'esigenza di prevenire abuso dei poteri medesimi e di evitare l'incidenza lesiva degli stessi sulla persona della dipendente). Vengono così ammesse interferenze del potere giudiziario nella sfera organizzativa dell'amministrazione, essendo tali provvedimenti giurisdizionali consentiti nell'assetto normativo seguente al d.lgs. 29/93 (come modificato dal d.lgs. 80/98 e 387/98, e poi confluito nel d.lgs. 165 del 2001), atteso che a seguito della c.d. seconda privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego, la pubblica amministrazione agisce "con i poteri e la capacità del privato datore di lavoro", e che il giudice ordinario "può adottare nei confronti dell'amministrazione tutti i provvedimenti richiesti dalla natura dei diritti tutelati".
Da ultimo, va evidenziato che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, sono ricche di pronunce relative alle molestie sessuali sul luogo di lavoro; si tratta di problematica che è solo connessa con quella del mobbing, e per la quale si fa rinvio pertanto alla documentazione allegata (BUFFA, in BUFFA e CASSANO, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, Utet, 2005) (all. 47).

3.4.- La giurisprudenza amministrativa e contabile.
Con riferimento alla giurisprudenza amministrativa, si è già richiamata Tar Lazio n. 5454 del 2005, (all. 42) che ha annullato la circolare INAIL n. 71 del 2003.
Altre pronunce del giudice amministrativo hanno evidenziato poi, in ordine agli aspetti inerenti strettamente il rapporto di lavoro, la stretta correlazione tra tale rapporto e la domanda avente ad oggetto il mobbing.
Nel regime precedente la devoluzione del contenzioso sulle controversie di pubblico impiego al giudice ordinario, secondo Consiglio di Stato 9 ottobre 2002, n. 5414, appartengono alla giurisdizione amministrativa esclusiva tutte le controversie relative al risarcimento danni dei pubblici dipendenti, senza che sia dato distinguere tra responsabilità contrattuale e responsabilità aquiliana dell'ente pubblico non economico datore di lavoro, non potendo ricondursi quest'ultima - sempre che sussista un collegamento non occasionale tra comportamento illegittimo e rapporto di lavoro - alla categoria delle questioni attinenti ai diritti patrimoniali consequenziali.

TAR Veneto 8 gennaio 2004, ha ritenuto che rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ex artt. 3 e 63 d. lgs. n. 165 del 2001 e 7 l. n. 205/2000, una controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno per mobbing, avanzata da un dipendente nei confronti dell'Amministrazione datrice di lavoro, nel caso in cui sussista una correlazione immediata e diretta tra i fatti posti a base della domanda risarcitoria ed il rapporto di servizio con l'Amministrazione, ovverosia sussista un collegamento evidente tra l'istanza di ristoro e gli atti ed i comportamenti posti in essere dalla P.A., in relazione al rapporto di lavoro medesimo.

Tar Lazio 5 aprile 2004 (all. 43) ha poi puntualizzato la nozione di mobbing, attribuendo rilevanza al carattere persecutorio delle condotte reiterate, da non intendersi tuttavia in termini eccessivamente soggettivi, essendo sufficienti i caratteri obiettivi della condotta (ripetitiva, emulativa, pretestuosa e quindi oggettivamente vessatoria).

In altra vicenda, Tar Lazio 25 giugno 2004 ha riconosciuto il mobbing, in relazione alla pluralità dei comportamenti e delle azioni a carattere persecutorio (illecite, o anche lecite se considerate in se stesse), sistematicamente e prolungatamente dirette contro il dipendente, all'evento dannoso, al nesso di causalità tra la condotta e il danno, ed ala prova dell'elemento soggettivo; affermato quindi che in tema di "mobbing" è ammissibile il concorso tra la responsabilità aquiliana ex art. 2043 e la responsabilità specifica ex art. 2087 c.c., nella parte cui obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro, anche alla luce dell'obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede, ritiene di dover accedere ad una complessiva liquidazione equitativa sensi degli art. 1226 e 2056 c.c.
La sentenza ha tuttavia ben evidenziato le difficoltà di accertamento in concreto del mobbing: "Certamente è difficile tipicizzare una fattispecie che per sua stessa natura è soggetta ad un accertamento caso per caso, e nella quale rientrano condotte incidenti sulla reputazione del lavoratore, sui suoi rapporti umani con l'ambiente di lavoro, sul contenuto stesso della prestazione lavorativa. La materia è delicata, dovendosi - come giustamente sottolineato in dottrina - ricercare un punto di equilibrio tra l'esigenza di tutelare i lavoratori che rimangono vittime di iniziative persecutorie e la necessità di evitare una "giuridificazione" eccessiva e patologica dei rapporti umani in ambito avorativo, che comporterebbe l'attribuzione di sanzione giuridica a qualsivoglia scorrettezza o a qualunque evento della convivenza umana nel luogo di lavoro: se un collega toglie il saluto a un lavoratore, quest'ultimo non potrà certo per ciò solo adire il giudice, trattandosi di una vicenda rilevante solo nell'ambito dell'educazione e della cortesia reciproca, o magari sul piano morale (cfr. Tribunale Cassino, 18 dicembre 2002, secondo cui il mobbing si differenzia dai normali conflitti interpersonali sorti nell'ambiente lavorativo, i quali non sono caratterizzati da alcuna volontà di emarginare ed espellere il collega o il subordinato dal contesto lavorativo, ma sono legati a fenomeni di antipatia personale ed ambizione); e lo stesso va detto con riferimento p. es. al caso del capufficio caratterialmente poco simpatico, in assenza di ulteriori specifici profili peculiarmente incidenti sullo specifico rapporto con il lavoratore".
A devoluzione al giudice ordinario avvenuta, a seguito della contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, la giurisdizione del giudice ordinario è stata riconosciuta dal Consiglio di Stato (sez. V, ordinanza 6 dicembre 2000 n. 6311) nel caso di una dipendente di una Azienda sanitaria locale che asseriva di essere stata mobbizzata. La pronuncia si segnala perché il Consiglio di Stato espressamente ha escluso la giurisdizione del giudice amministrativo anche nel caso in cui il provvedimento giudiziale richiesto incide sull'organizzazione dell'amministrazione, e ciò ove sia spiegata azione contrattuale, ovvero ove sia esperita azione aquiliana, sia che si richieda un pubblico servizio, (richiamando rispettivamente l'art. 68 d.lgs. 29/93, l'art. 2043 c.c. ed infine l'art. 33, co. 2 lett. E) d.lgs. 80/98, come modificato dalla l.. 21 luglio 2000, n. 205), che in materia di pubblici servizi.

Con riferimento ai rapporti di lavoro esclusi dalla contrattualizzazione e privatizzazione, e quindi dalla devoluzione del relativo contenzioso al giudice ordinario, una fattispecie di asserito mobbing è venuta all'esame del Consiglio di Stato nel caso deciso dalla sentenza n. 2515 del 2008, (all. 44) che, nel precisare il carattere contrattuale della responsabilità datoriale, ne ha però in concreto escluso la ricorrenza.

Tar Lazio, sezione prima quater, sentenza n. 3315 del 17 aprile 2007, in un caso relativo alla domanda di un agente scelto della Polizia penitenziaria che aveva chiesto il risarcimento dei danni subiti per mobbing per comportamento illegittimo e dispotico della direttrice di una casa circondariale, ha ribadito che le controversie relative al mobbing spettano al giudice ordinario se alcuni soggetti danneggiano in modo sistematico un dipendente nel suo ambiente di lavoro e sia fatta valere una responsabilità aquiliana, mentre la competenza è del giudice amministrativo qualora le vessazioni si traducano in demansionamento o nell'emanazione di provvedimenti illegittimi (quali nel caso dei provvedimenti disciplinari) e si faccia valere una responsabilità contrattuale.
La sentenza è interessante anche perché, nei rapporti esclusi dalla privatizzazione e quindi ancora oggetto di cognizione del giudice amministrativo, aderisce all'orientamento affermato dalle Sezioni Unite secondo cui l'azione risarcitoria, proposta davanti al Giudice Amministrativo per lesione di interessi legittimi è ammissibile — dopo lo storico pronunciamento della Corte di Cassazione a SU con sentenza 500/99 — senza essere preceduta, entro gli ordinari termini decadenziali, da tempestiva impugnazione degli atti ritenuti affetti da vizi di legittimità: "A seguito, invece, dell'orientamento di cui alle citate ordinanze della Suprema Corte è ormai possibile proporre azione risarcitoria, per lesione di interessi legittimi, entro gli ordinari termini di prescrizione quinquennale, anche senza previa impugnazione dell'atto lesivo: un orientamento, quello appena indicato, di particolare rilievo proprio in situazioni — riconducibili a mobbing — normalmente connesse a vizi che interessano non un singolo provvedimento, ma una serie di atti, la cui illegittimità, complessivamente considerata, riveli intenti persecutori e sia fonte di danno per la salute del dipendente".
Più di recente, Tar Lazio 28 maggio 2008 n. 5177 (all. 45) si è occupata di un altro caso di asserito mobbing, ed ha affermato la distinzione tra questo ed i meri scontri tra colleghi derivanti da disaccordi personali tra gli stessi.

Sul tema si è pronunciata anche la Corte dei Conti, Sez. III, nella sentenza 25 ottobre 2005, n. 623. Nel caso, si affrontava il problema della configurabilità di responsabilità per danno all'Erario, conseguente a sentenza civile di condanna di un pubblica amministrazione al risarcimento di danni per mobbing in favore di suoi dipendenti (nella specie, alcuni docenti di una scuola avevano lamentato soprusi, violenze morali e condotte moleste di tale gravità da provocare in loro un notevole stato depressivo e d'ansia tanto da indurli a ricorrere a cure mediche ed all'assunzione di farmaci ansiolitici ed antidepressivi).

La sentenza contabile del giudice di primo grado aveva affermato che "la Sezione dubita della azionabilità di un danno erariale connesso a risarcimento economico per danno biologico temporaneo arrecato a soggetti maggiorenni ed idonei alla funzione docente. In altre parole, dall'esame della sentenza civile emerge una qualificazione come "punitivo" del risarcimento così riconosciuto quasi a realizzare una sorta di "tutela" del lavoratore (in quanto parte debole del rapporto) nei confronti della Amministrazione. Per queste caratteristiche tale risarcimento non potrebbe avere, attraverso la rivalsa, riflessi economici sul patrimonio del convenuto, quale responsabile dello stato di disagio in cui si sarebbe trovata una minima parte del corpo insegnante dell'Istituto". La Corte dei Conti, in senso diverso, ritiene la decisione assolutoria del primo giudice non condivisibile in quanto essa si scontra con una duplice pronuncia contraria, del giudice penale l'una, che riconosce l'astratta sussistenza dei reati di offesa e di diffamazione e del giudice civile l'altra, che su tale ineludibile presupposto riconosce e liquida ai docenti lesi il danno morale, presupposti oggettivi sufficienti per l'affermazione della responsabilità amministrativa, posto che "Una volta infatti che il giudice civile abbia legittimamente imposto il risarcimento di un qualunque tipo di danno è evidente che ciò determina una diminuzione patrimoniale per le risorse finanziarie dell'amministrazione interessata e non può non tradursi in un danno erariale. ... Si deve, dunque, escludere che il danno da mobbing, ove esistente, non possa essere oggetto di azione di rivalsa nei confronti dell'agente pubblico".