Corte di Appello di Trento, Sez. Pen, 14 settembre 2011 - Impianto a carosello per la produzione di conci prefabbricati e mancanza di sistemi di sicurezza
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D'APPELLO DI TRENTO
SEZIONE PENALE
composta dai signori magistrati:
Dott. Carmine Pagliuca - Presidente -
Dott. Mariano Alviggi - Consigliere -
D.ssa Anna Maria Creazzo - Consigliere -
ha pronunciato alla pubblica udienza la seguente
SENTENZA
nei confronti di
1) S.G. n. in Romania il *** elettivamente domiciliata presso l'avv. M.G. in Borgo Valsugana (TN)
Non sofferta carcerazione preventiva
Libera - Contumace
2) P.M. n. a Frascati (Roma) il *** residente a Capo di Ponte (BS) (dom. dich.)
Non sofferta carcerazione preventiva
Libero - Contumace
3) T.P. nt. a Chieti il *** residente a Chieti (dom. dich.)
Non sofferta carcerazione preventiva
Libero - Contumace
IMPUTATI
per il reato previsto e punito dagli artt. 113 e 590, primo e terzo comma, c.p. in relazione al disposto di cui all'art. 583, II comma n. 3), c.p., perché, in cooperazione colposa tra di loro, P.A., in qualità di presidente del C.d.A. della C. S.p.A. azienda costruttrice dell'impianto a carosello per la produzione di conci prefabbricati nell'anno 2003 (identificato con la dichiarazione di conformità CE, mod. CRS - EI -11.0 - 0.4 - 1.5 - 7 - 26 e matricola n. ***), nonché firmatario della dichiarazione di conformità CE;
B.E., in qualità di dirigente e direttore del settore casseforme della C. S.p.A. nonché progettista del suddetto impianto a carosello;
T.P., in qualità di consigliere e direttore tecnico della T. S.p.A. acquirente dalla C. S.p.A. e concedente in uso alla H.R. s.r.l. dell'impianto a carosello sopra indicato;
P.M., in qualità di datore di lavoro e delegato in materia di sicurezza della T. S.p.A. con procura speciale n. 39835 rep. di data 30.4.2004;
S.G., in qualità di amministratore unico e legale rappresentante della H.R. s.r.l., ditta subappaltatrice dei lavori di costruzione di conci prefabbricati in c.a.p. per conto della T. S.p.A. ed utilizzatrice dell'impianto a carosello in oggetto, e, quindi, in qualità di datore di lavoro;
per colpa generica, consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché per colpa specifica, ossia violando l'art. 2087 c.c. nonché le norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, precisamente B.E. violando l'art. 6, I comma, D.L.vo 626/94, per aver progettato il suddetto impianto a carosello per la produzione di conci prefabbricati violando l'art. 2, comma 1, del D.P.R. 24.07.1996 n. 459, ovvero violando l'ordine indicato al punto 1.1.2 lett. b) (Principi di integrazione alla sicurezza) di cui all'allegato I di detto decreto; in particolare, nella scelta delle soluzioni tecniche non veniva data priorità all'eliminazione del rischio di cesoiamento e schiacciamento dovuto alle parti in movimento della macchina, con particolare riferimento alla traslazione dell'asta di trascinamento, adottando idonee protezioni e/o barriere (l'utilizzo del pulsante di emergenza, quale unica misura di tutela nei confronti del rischio suddetto, unitamente alle procedure di lavoro, indicate al par. 2 pag. 11 e par. 5 pag. 19 del Manuale di uso e manutenzione "matr. *** Rev 0 di data 18.11.2003", sono da considerare non alternative ma complementari alle suddette soluzioni tecniche); inoltre, non rispettando i punti 1.3.7, 1.3.8, 1.4.1, 1.4.2 e 1.2.2 del medesimo allegato del D.P.R. 459/96, in quanto gli elementi mobili della traslazione dell'asta di trascinamento, dei casseri e del traslatore, non venivano adeguatamente protetti e/o segregati con idonee barriere e/o protezioni (l'accesso tra i parapetti, per raggiungere ognuna delle postazioni di lavoro sopraelevate, risultava inidoneo, non escludendo la possibilità di entrare in contatto con gli elementi dell'impianto in movimento; inoltre, l'operatore responsabile della postazione di lavoro, nel dare il consenso all'avviamento del carosello dal posto di comando, non poteva e non doveva assicurarsi dell'assenza di persone esposte nella zona di rischio);
P.A. violando l'art. 6, II comma, D.lvo. 626/94, per aver fabbricato il suddetto impianto (anno di costruzione 2003) in modo non rispondente alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di sicurezza, coma sopra specificato, e per averlo venduto alla T. S.p.A. (ordine di acquisto della T. S.p.A. del 10.4.2003 - prot. n. 2291 GR/es - e successiva lettera di conferma dalla C. S.p.A. del 16.6.2003);
T.P. violando l'art. 6, 20 comma, D.L.vo 626/94, per aver concesso in uso alla H.R. s.r.l. (contratto di, subappalto n. 604 del 27.10.2003) il suddetto impianto, non rispondente alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di sicurezza, come prima indicato;
P.M. e S.G., nelle rispettive suddette qualità, violando l'art. 55 D.P.R. 547/55, per non avere adeguatamente protetto l'asta di trascinamento metallica utilizzata per la movimentazione delle casseforme relativa all'impianto sopra descritto, nonostante costituisse pericolo per i lavoratori, nonché violando l'art. 35, comma 1, D.Lvo. 626/94, per avere messo a disposizione dei lavoratori l'impianto in questione, inidoneo e inadeguato ai fini della loro salute e sicurezza; in particolare, omettendo di proteggere e segregare in modo opportuno gli elementi mobili della linea di lavoro del carosello di tale impianto;
cagionavano a D.D.,. dipendente della H.R. s.r.l. con mansioni di falegname carpentiere è con qualifica di operaio di terzo livello, lesioni personali gravissime, consistite in un trauma da schiacciamento, alla gamba sinistra con subamputazione alla caviglia ed ampia e profonda ferita al terzo medio della gamba, con ampia mortificazione dei muscoli e tendini e deficit vascolare, con durata della malattia pari a 342 gg. e con mutilazione dell'arto, rendendolo inservibile (inabilità permanente del 35% riconosciuta dall'I.N.A.I.L.);
in particolare, il D., durante l'orario di lavoro, si trovava alla postazione n. 2 dell'impianto a carosello per la costruzione di conci prefabbricati in c.a.p,, unitamente al collega A.G., per effettuare la pulizia del cassero; completato il lavoro, il Da. si allontanava dalla zona di lavoro e, avvicinatosi all'A., gli riferiva di aver finito; quest'ultimo, allora, azionava il pulsante di consenso della postazione n. 2, così comunicando l'ultimazione del lavoro alla consolle centrale di comando, per poi allontanarsi di qualche metro; il D., che si era nel frattempo spostato dalla zona di lavoro per andare a dissetarsi, notava che il tubo dell'aria compressa, posto nel passaggio tra la postazione n. 1 e il translatore, poteva esser tranciato, in quanto si trovava sopra i binari. di transito dei casseri; immediatamente il lavoratore si avvicinava alla zona di movimento dei casseri per togliere il tubo ed appoggiava il piede sinistro sopra l'asta metallica che, in quel momento ferma, svolge la funzione di trascinare i casseri da una postazione all'altra; il successivo ed improvviso movimento dell'asta, azionata dalla consolle centrale di comando, faceva scivolare il piede sinistro del D. tra l'asta e la sua staffa di guida, rimanendo ivi schiacciato; in tal modo, il dipendente riportava le lesioni sopra indicate.
Commesso in Trento, il ***.
APPELLANTI
Gli imputati avverso la sentenza del Tribunale di Trento in composizione monocratica n. 484/09 del 19.6.2009 che dichiarava S.G., P.M. e T.P. colpevoli del reato ascritto e condannava ciascuno di essi alla pena di mesi sei di reclusione, e tutti in solido al pagamento delle spesò processuali. Vista la legge 31.7.2006 n. 241;
dichiarava la pena inflitta ai predetti imputati interamente condonata. Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p.;
condannava gli imputati in solido al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita D.D., da liquidare in separata sede, nonché al rimborso delle spese di costituzione e patrocinio in favore della medesima parte civile, che liquida in Euro 2.600,00 oltre accessori.
Udita la relazione della causa fatta alla pubblica udienza dal Presidente Dott. Carmine Pagliuca;
Sentito il Procuratore Generale dr. Giuseppe Maria Fontana che ha concluso chiedendo la conferma della sentenza di primo grado.
Sentito il difensore della parte civile - D.D. - avv. F.R. di Trento che deposita nota spese e conclusioni scritte richiamandosi a quest'ultime.
Sentito il difensore di fiducia di S.G. l'avv. M.G., di Borgo Valsugana (TN) che chiede l'accoglimento dei motivi d'appello per il proprio assistito.
Sentito il difensore di fiducia di P.M. e T.P. l'avv. F.B., di Trento che chiede l'accoglimento dei motivi d'appello per i propri assistiti.
FattoDiritto
Gli imputati sono stati condannati dal Tribunale Monocratico di Trento alla pena condonata di mesi sei di reclusione ciascuno per il reato di lesioni colpose gravissime in danno di D.D..
Si Tratta di infortunio sul lavoro verificatosi il 10 settembre 2004 in Trento, presso uno stabilimento dell'interporto, dove la ditta C. S.p.A. aveva costruito un impianto a carosello, che sarebbe servito alla produzione di conci prefabbricati in cemento armato precompresso, destinati a ricoprire l'armatura delle volte della galleria di Martignano; la C. aveva poi ceduto in locazione finanziaria l'impianto alla ditta T. S.p.A. appaltatrice dei lavori nella galleria, di cui era responsabile T.P.; ditta che, per la materiale produzione dei conci, aveva subappaltato il lavoro alla ditta H.R. s.r.l., di cui legale rappresentante era la sig.ra S.G., mettendo a sua disposizione, in comodato d'uso, l'impianto stesso.
L'operaio infortunato D.D. era dipendente della H.R..
Il lavoro consisteva nel dover produrre i detti conci, che erano dei prefabbricati modulari da assemblare in galleria per contenerne la volta. L'impianto di produzione era costituito da sei postazioni di casseratura, sopraelevate e bilateralmente raggiungibili salendo dei gradini (il cassero era un contenitore sagomato che doveva dare la forma al prodotto finito), collocate in rettilineo, collegate da un binario e gestite, ciascuna, da due operai che dovevano intervenire in sequenza, a partire dai primi due, incaricati di estrarre dal cassero il concio già realizzato all'esito del ciclo precedente e stoccarlo; i secondi due di effettuare la pulizia del cassero; i terzi due di collocare al suo interno armature in ferro e così via, fino all'inoltro del cassero armato ad un impianto di betonatura nel quale esso veniva riempito di calcestruzzo liquido e poi trasferito in un forno di essiccatura, dove il manufatto si solidificava, dando vita al concio, che era il prodotto finito.
Lo spostamento dei casseri da una postazione all'altra avveniva su binario e per trascinamento, effettuato da un rampino comandato a distanza da un unico operatore, collocato alla fine del percorso, il quale avviava il sistema premendo un pulsante, dopo aver ricevuto da ciascun capo coppia la comunicazione di esaurimento del proprio compito, fatta tramite pulsante che attivava una luce verde sulla consolle del detto operatore finale.
In quel momento tutti gli operai dovevano essere già fuori zona di pericolo, se avevano dato via libera, per cui l'aggancio ed il movimento dei casseri non era destinato ad intercettarli; il percorso, però, non era protetto da sistemi di sicurezza particolari, tranne un avvisatore acustico e luminoso, che si attivava prima dell'inizio del movimento e che richiamava l'attenzione sulla necessità di rimanere lontani dalla linea del carosello; proprio per questo, secondo il primo giudice, si erano determinate le condizioni perché l'infortunio potesse verificarsi.
Accadde, infatti, che l'operaio D., appartenente alla seconda postazione, quella, cioè, di pulizia dei casseri, avendo notato che un tubo dell'aria compressa era rimasto sul percorso e che esso sarebbe stato tranciato dal loro movimento, tornò nella zona di pericolo per asportarlo e, così facendo, pose il piede sinistro all'interno del binario ed in prossimità della staffa fissa di guida, su cui scorreva l'asta di trascinamento, con il risultato che quest'ultima, avanzando, schiacciò il suo piede contro il punto fisso costituito dalla staffa medesima, fino a tranciarlo.
L'operaio subì la mutilazione dell'arto con invalidità permanente del 35% riconosciuta dall'Inail.
Il Tribunale ravvisò violazione dell'art. 55 del D.P.R. n. 547/1955 per non essere state segregate le zone in cui avveniva il movimento del sistema a carosello e dovendo considerarsi solo complementare la misura dell'avviso acustico e luminoso, tanto più che gli operai avevano le orecchie tappate, per evitare danni all'udito in dipendenza del forte rumore che si produceva al momento dell'aggancio dei casseri. Escluse, invece, responsabilità del dipendente, che avrebbe dovuto essere protetto da misure operanti oggettivamente e che era rimasto vittima anche della inevitabile assuefazione al rischio, dalla quale egli stesso avrebbe dovuto essere parimenti preservato.
Al fatto furono ritenuti estranei i responsabili della ditta C., costruttrice dell'impianto, per non aver essa allestito le pedane di accesso e le strutture periferiche di contorno, escluse dal contratto.
Di colpa specifica, invece, furono ritenuti responsabili la S., quale diretta datrice di lavoro, nonché il T. quale amministratore della omonima ditta e P.M., responsabile della sicurezza in cantiere. Costoro avrebbero dovuto, anche ex art. 35 D.lgs. 626/1994, provvedere a rendere sicuro il posto di lavoro apponendo barriere agli ingressi sulla linea di trascinamento dei casseri, da rendere invalicabile dopo che fosse stato comunicato al gestore della consolle unificata di comando, il consenso al loro avanzamento, come in effetti fu fatto solo successivamente all'incidente.
Contro la sentenza hanno interposto appello i difensori degli imputati che, con argomenti in larga parte comuni chiedono, sul piano processuale, che sia dichiarata la nullità della sentenza impugnata ex art, 178 lett. c) c.p.p., per inosservanza delle norme relative alla citazione in giudizio della persona offesa dal reato; questa, infatti, residente all'estero, non fu validamente avvisata del processo ex art. 154 co. 1 c.p.p. (previo invito ad indicare domicilio in Italia, solo il cui esito infruttuoso avrebbe potuto giustificare una notifica mediante deposito in Cancelleria) e ne ebbe contezza unicamente perché citata a testimoniare, con il seguito che la corrispondente eccezione, già a suo tempo sollevata dal difensore della persona offesa medesima, trovò superamento attraverso una tardiva ammissione di parte civile, previa irrituale restituzione in termine e di questa si chiede ora comunque l'estromissione, con annullamento dei capi della sentenza che attengono alle statuizioni civilistiche.
Nel merito rilevano che nessun rimprovero poteva essere mosso agli imputati, al punto da ritenerli responsabili dell'accaduto, dipeso, in realtà, da esclusiva condotta imprevedibile dell'infortunato che, contro ogni regola di elementare prudenza, si era portato fuori tempo sulla linea di avanzamento dei casseri. Egli, peraltro, dopo essersi allontanato per bere, non si era nemmeno reintrodotto nella sua postazione, ma in quella n. 1, che non gli era pertinente ed aveva fatto una operazione non necessaria, perché pure in caso di tranciamento del tubo dell'aria compressa, nessun pregiudizio sarebbe potuto derivare per alcuno.
Né erano state omesse misure di sicurezza perché, al contrario, ve ne erano ben cinque a tutelare i dipendenti: il segnale luminoso; quello acustico (udibile anche attraverso le cuffie, come dichiarato dai testi sentiti in dibattimento); l'azionamento dei pulsanti di consenso, la cui somma consentiva l'attivazione di quello gestito dal manovratore unico finale; la presenza di pulsanti di emergenza (c.d. funghi), che in qualsiasi momento avrebbero potuto determinare l'interruzione del movimento. Inoltre, tutti gli operai erano stati adeguatamente istruiti sui comportamenti da tenere.
Non si trattava, pertanto, di precauzioni complementari, rispetto alla inesistente segregazione delle parti in movimento, come ritenuto dal primo giudice, perché quelle misure, nel loro complesso, integravano comunque un apparato di sicurezza adeguato.
Si sostiene, poi, che, in ogni caso, difetterebbe il rapporto di causalità perché, applicando il ragionamento controfattuale, balza subito evidente che quand'anche le barriere di chiusura degli accessi, installate dopo l'incidente, fossero state esistenti pure prima, non avrebbero certo costituito ostacolo sufficiente ad impedire una. azione d'impulso quale era stata quella attuata dal D., tanto più che la loro altezza da terra era solo di circa un metro e che esse sarebbero state comunque facilmente scavalcabili. Resta, pertanto, la sola rilevanza del comportamento abnorme dell'operaio.
Nell'appello S., poi, si rimarca che l'impianto era stato messo a disposizione dalla ditta T. e che la H., da semplice subappaltatrice, si trovava rispetto ad essa in posizione di soggezione e di non piena autonomia. I tecnici della T., infatti, erano sempre presenti in cantiere ed intervenivano per qualsiasi cosa, non potendo l'imputata apportare modifiche unilaterali, sicché la posizione di garanzia era della T. e non della R..
Nell'appello degli altri due imputati, invece, si sottolinea che l'impianto non era stato creato dalla T., ma dalla ditta C., che avrebbe dovuto munirlo di tutte le sicurezze necessaria perché esso fosse a norma.
In subordine i difensori chiedono ridursi la pena al minimo, anche, quanto alla S., previa concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e non menzione della condanna.
Esaminando per prime le questioni di ordine processuale, va detto che la mancata conoscenza della data d'inizio dell'udienza dibattimentale, da parte della persona offesa, citata mediante, deposito dell'atto in cancelleria, poteva costituire materia di possibile eccezione di nullità della sola parte lesa medesima (che in caso di omissioni o di irregolarità, si sarebbe trovata nella impossibilità di comparire o di costituirsi parte civile) e non può certo divenire oggetto di obiezioni degli imputati, che non sono i paladini del suo interesse. Con ciò restano superati i rilievi formulati dal difensore di S.G., nella parte in cui chiede dichiararsi la nullità della citazione a giudizio della persona offesa e degli atti successivi, fino alla sentenza di primo grado, per violazione dell'art. 154 e 178 lett. c), c.p.p..
Sul punto è utile citare Cass. Sez. II 8.1.2010 n. 4805, secondo cui "con riguardo alla mancata citazione in giudizio della persona offesa, va escluso che l'imputato abbia interesse ad eccepirla, trattandosi di adempimento che ha il solo scopo di consentire al destinatario l'eventuale costituzione di parte civile, atto certamente non vantaggioso per l'imputato".
Nel presente caso si era, in realtà, determinata una anomalia, perché pur non avendo la persona offesa mai direttamente dichiarato o eletto un proprio domicilio, aveva ricevuto notificazione del decreto di citazione a giudizio ad un indirizzo risultante dagli atti, rivelatosi non utile e poi mediante deposito in cancelleria, col risultato di una effettiva non conoscenza della data di fissazione della prima udienza. La parte lesa,, però, citata dal P.M. come testimone, si presentò alla seconda udienza, avendo avuto, questa volta, buon esito l'avviso, che era stato inviato all'indirizzo rumeno del D.. Costui, comparso col difensore, rappresentò le sue ragioni ed avrebbe potuto insistere per una declaratoria di nullità della citazione (pur richiesta), ma ciò non fece, preferendo acquietarsi alla decisione del giudice, che considerò formalmente valida là notifica del decreto di citazione, anche se effettivamente non conosciuto l'atto, per causa non dipendente dalla volontà dell'interessato, con il seguito di una ritenuta ammissibilità della procedura di restituzione in termine per la costituzione di parte civile.
Questo statuì il giudicante di prima designazione, che restituì il termine ponendo come condizione che fosse dimostrato che la richiesta era intervenuta nel rispetto dei 10 giorni (ex art. 175 c.p.p.) dalla conoscenza della esistenza del processo in corso, a quel punto ricavabile solo dalla documentazione che attestava l'avvenuta citazione della parte lesa come teste.
Intervenuto mutamento del giudice, quello subentrato confermò lo stesso ordine di idee, sostenendo che la notifica era avvenuta il 29 marzo 2008, vale a dire nove giorni prima del 7 aprile 2008, data in cui per la prima volta il difensore del D. aveva rilevato l'impedimento. Anche il nuovo giudice, dunque, aveva condiviso che la mancata proposizione di una tempestiva costituzione di parte civile era dipesa da quella oggettiva inidoneità della citazione a giudizio, come effettuata, a far conoscere l'esistenza dell'atto; situazione che, dal punto di vista del D., integrava una impossibilità, assimilabile a vera e propria forza maggiore. Si era speculato sulla leggibilità, in calce alla cedolina di raccomandata inviata all'estero per la citazione come teste del D., della data di ricezione, tra 20 e 29 marzo, con effetti di decisiva rilevanza sul rispetto del termine, a seconda che fosse stato individuato l'uno o l'altro giorno; ma il Tribunale aveva congruamente motivato osservando che gli altri "0" presenti nel testo leggibile, avevano caratteristiche diverse dal numero della data, da interpretarsi, perciò, come 9 (e, quindi, 29) e non 0 (e, quindi, 20). La Corte concorda con tali valutazioni, che sono aderenti alle risultanze processuali e del tutto consequenziali, per cui ritiene che bene fu fatta la restituzione in termini e, conclusivamente, che tempestiva e regolare fu la costituzione di parte civile, solo per tale ragione intervenuta in seconda udienza.
Passando all'esame del merito va detto che ampiamente provata è la implicazione degli attuali imputati, dei quali va confermata l'affermazione di responsabilità.
Pacifica è la ricostruzione del fatto nei termini già sopra rappresentati; secondo le difese, la generosa iniziativa dell'operaio di rimuovere il tubo dell'aria compressa, sarebbe stato intervento dissennato, non richiesto e, perciò, del tutto imprevedibile, come tale per sé stesso idoneo ad escludere l'esistenza di ogni diverso rapporto di causalità rispetto all'evento, derivato da grave ed esclusiva incautela dello stesso infortunato.
Sul punto si è già bene espresso il primo giudice che ha giustamente rimarcato come la condotta del D., sebbene da evitare, non fosse affatto abnorme, inimmaginabile, o al di fuori degli schemi di una agevole prevedibilità. È fin troppo evidente, infatti, che in presenza di una mancata segregazione delle parti in movimento e, quindi, di una accessibilità delle zone pericolose, per le più varie ragioni si sarebbero potuti determinare sconfinamenti intempestivi, che erano resi possibili proprio per il fato che mancavano barriere o sistemi di elisione oggettiva del pericolo.
In questo caso l'operaio si era intromesso nel percorso del carosello, perché aveva visto lì, di traverso, un tubo dell'aria compressa; ma avrebbe potuto fare altrettanto perché, ad esempio, per un colpo di vento, gli fosse lì volato un oggetto personale, o perché si fosse tardivamente accorto di una qualche anomalia da correggersi subito. In tutti i casi ed in tanti altri che si potrebbero elencare, sol che ci si soffermasse un momento a riflettere, il pericolo era inseparabile dalla vulnerabilità del sistema, non concepito per garantire piena sicurezza ai dipendenti, ma lasciato permeabile alle loro azioni, anche imprudenti o disattente.
Si sa, invece, che le misure di sicurezza debbono operare oggettivamente ed in modo tale da preservare il dipendente anche dalle sue stesse incautele, che nei luoghi di lavoro divengono sempre più possibili con l'instaurarsi dell'assuefazione al rischio, destinata ad attenuare o a far perdere addirittura la percezione stessa del pericolo.
Tali rilievi - costituiscono nozione di comune esperienza e comportano la esigibilità di comportamenti ed osservanze idonei a porre riparo preventivo da parte di chi rivesta posizione di garanzia.
Nel caso in esame, prima responsabile della sicurezza del proprio dipendente era la S.G., nella sua qualità di legale rappresentante della ditta H.R. s.r.l., per la quale il D. lavorava.
Ella avrebbe dovuto verificare la sicurezza dell'ambiente di lavoro nel quale andava a collocare l'operaio ed adottare tutti i correttivi necessari per garantirla, sia agendo direttamente, sia intervenendo presso la ditta appaltatrice T. S.p.A. che le aveva messo a disposizione l'impianto per la produzione dei conci, esigendo da essa gli adeguamenti opportuni, che non le fossero stati altrimenti possibili.
Il primo e più ovvio degli apprestamenti di sicurezza era costituito dalla segregazione delle parti in cui dovevano avvenire i movimenti meccanici, attraverso la predisposizione di chiusure dei percorsi di accesso alla linea di trascinamento dei casseri, con cancelli muniti di congegni elettrici di automatica interruzione del loro movimento, qualora aperti o utilizzati in momenti non consentiti. Un sistema siffatto (richiesto dalla normativa antinfortunistica che, con l'art. 55 del D.P.R. 547/55 impone che gli organi o gli elementi di trasmissione del movimento debbono essere protetti e con l'art. 35 del D.Lgs. 626/94 prescrive l'adozione di misure tecniche idonee a ridurre al minimo i rischi presenti nell'ambiente di lavoro), realizzato solo dopo l'incidente, avrebbe garantito la sicurezza dei dipendenti, mettendoli automaticamente al sicuro qualora, per passare, avessero intempestivamente aperto uno dei cancelli.
Si è obiettato che i cancelli avrebbero potuto pure essere scavalcati dall'operaio imprudente, con vanificazione dell'apprestamento.
Il rilievo, però, non sembra pertinente perché attiene ad altra e ben diversa situazione nella quale il datore di lavoro avrebbe dato prova di tutto lo scrupolo possibile nel fornire garanzia e, per converso, l'operaio dimostrato tutta la sua sconsideratezza nell'eluderla. In questa fattispecie, invece, è proprio il primo aspetto a mancare, con immediata rilevanza colposa, a fronte di una solo immaginata maggiore spericolatezza eventuale del dipendente, mai verificatasi in concreto nelle forme postulate dalla tesi difensiva, perché, al contrario, l'operaio aveva trovato via libera sul percorso rischioso, come si sarebbe dovuto impedire o, per lo meno, rendere niente affatto agevole.
Ma alla sicurezza del luogo di lavoro avrebbe dovuto provvedere non solo la diretta datrice, secondo le logiche di cui si è detto, ma anche la ditta To. che aveva messo a disposizione l'impianto, rivelatosi non sicuro; ditta che, peraltro, non era rimasta assente o disinteressata ai lavori in corso, dopo averli subappaltati alla H.R. s.r.l.. Risulta, infatti, da tutte le dichiarazioni testimoniali, che i tecnici della To. erano sempre presenti in cantiere e venivano chiamati per ogni esigenza o necessità di intervento, il che riscontra che la subcommittente non si era estraneata dando il subappalto, ma aveva continuato a compiere atti di ingerenza, anche ponendosi come continuo punto di riferimento nelle operatività in concreto, per ciò stesso implicandosi nei doveri di sicurezza.
Doveri che, non diversamente, investivano il P., responsabile della sicurezza in cantiere e, perciò, parimenti tenuto ad assumere tutte le iniziative necessarie per elidere pericoli ed attuare interventi risolutori, come omise di fare.
Si è molto insistito nel sostenere che, in realtà, esistevano sistemi di sicurezza che, nel loro insieme, costituivano apprestamenti in grado di scongiurare pericoli per i dipendenti; sistemi costituiti dai 5 livelli di misure preventive o alternative sopra elencate, idonee ad integrare l'equipollente della segregazione della quale si rimprovera la mancanza.
Sul punto ha già bene argomentato il primo giudice, ponendo in evidenza che quelle misure costituivano protezioni complementari e del tutto accessorie rispetto a quella principale omessa, perché ciascuna di esse richiedeva la attenta collaborazione del dipendente o la assunzione di sue specifiche iniziative per poter essere efficace, ma non era in grado di salvaguardarlo oggettivamente, anche contro la sua stessa incautela; il che vuol dire che esse, senz'altro utili come richiamo di attenzione, apprestamenti integrativi e, in definitiva, strumenti di riduzione del rischio, rimettevano pur sempre - in parte - allo stesso destinatario della tutela la sua salvaguardia; di qui l'accessorietà e non esaustività ai fini del perfetto adempimento del dovere di sicurezza.
Né vale obiettare che già la ditta costruttrice avrebbe dovuto dotare il sistema delle protezioni necessarie (argomento superato dalla intervenuta assoluzione in primo grado di chi per essa era stato imputato), perché in materia di sicurezza, le responsabilità si aggiungono e non si elidono quando, per il ruolo e la funzione, anche soggetti diversi vengano investiti dal dovere di intervento.
Passando alle richieste subordinate ritiene la Corte che la pena irrogata a ciascuno degli imputati sia congrua e ben commisurata all'entità del fatto, si che essa non debba essere qui modificata. Né, quanto a S.G., si reputano concedibili le attenuanti generiche, tenuto conto della natura dei profili di colpa accertati e della gravità delle conseguenze patite dalla parte lesa; cose, queste, che non consentono una visione minimizzatrice del fatto; a suo favore, tuttavia, può essere valutata la condizione di totale incensuratezza, che rende concedibile il richiesto beneficio della non menzione della condanna nel certificato penale.
P.Q.M.
Visto l'art. 605 c.p.p.
In parziale riforma della sentenza impugnata concede a S.G. il beneficio della non menzione della condanna.
Condanna T.P. e P.M. al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in Euro 1.800,00 per onorari, maggiorati del 12,50% per spese generali, oltre Iva e Cnpa.
Conferma nel resto.
Fissa il termine di giorni 60 per il deposito della sentenza.