2. L’inchiesta della Commissione: il sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro in Italia
2.1. Premessa
Nel suo terzo anno di attività la Commissione d’inchiesta ha proseguito il lavoro avviato nei due anni precedenti su alcuni importanti temi e, nel contempo, si è occupata di nuovi argomenti via via venuti alla sua attenzione, sempre nell’ambito dei compiti ad essa affidati dalla delibera istitutiva. Come in passato, questa nuova fase dell’inchiesta ha preso le mosse dalle conclusioni e dalle proposte contenute nella precedente relazione intermedia sul secondo anno di attività nonché dalle direttive impartite al Governo dall’Assemblea del Senato nella risoluzione approvata il 12 gennaio 2011 dopo il relativo dibattito.
In particolare, nell’atto d’indirizzo, pur riconoscendo la riduzione intervenuta negli ultimi anni nel numero degli incidenti mortali e degli infortuni sui luoghi di lavoro, anche grazie all’adozione di un corpus organico di norme, si è ribadita la necessità di assicurare il completamento, in tempi rapidi, dell’attuazione della nuova normativa di riferimento introdotta, sulla scorta della legge delega 3 agosto 2007, n. 123, dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, (chiamato ormai, anche se impropriamente, «testo unico» delle disposizioni in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), anche alla luce delle successive modifiche e integrazioni, procedendo all’adozione dei vari atti di normazione secondaria.
L’atto d’indirizzo sottolinea inoltre la necessità di accrescere il coordinamento e le sinergie fra tutti gli enti istituzionali preposti alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, sia centrali che periferici; di rendere più incisivi i controlli e la repressione delle infrazioni in materia di salute e sicurezza del lavoro (specie per il lavoro sommerso ed irregolare e lo sfruttamento del lavoro minorile); di promuovere la diffusione della cultura della sicurezza, non solo attraverso la formazione/informazione dei lavoratori e dei datori di lavoro, ma anche mediante appositi insegnamenti all’interno della scuola e dell’università, di assumere adeguate iniziative legislative e amministrative per aumentare la sicurezza del lavoro nel settore degli appalti, fissando regole più certe e selettive, non perseguendo il ricorso al massimo ribasso quale criterio di valutazione delle offerte, accrescendo la qualificazione delle imprese e contenendo la pratica del subappalto.
Anche nel suo terzo anno di attività, dunque, oltre ad approfondire alcuni temi specifici di particolare rilievo (di cui si dirà in dettaglio più avanti), la Commissione ha seguito con attenzione il completamento dell’attuazione della riforma introdotta dal testo unico. In particolare, in questa fase si è ritenuto opportuno iniziare un approfondimento teso a verificare lo stato di avanzamento e gli eventuali aspetti critici del processo di attuazione del testo unico nelle varie Regioni italiane, anche perché la nuova normativa ha affidato proprio alle Regioni e alle Province autonome il governo e il coordinamento dei sistemi territoriali di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

2.2. Il monitoraggio sull’attuazione della nuova disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro
Le attività di tutela della salute e della sicurezza del lavoro in Italia trovano oggi il loro principale riferimento nella nuova disciplina recata dalla legge delega n. 123 del 2007 e, soprattutto, dal relativo decreto legislativo n. 81 del 2008 (il già citato «testo unico») alla cui stesura, sul finire della precedente legislatura, ha peraltro significativamente contribuito la stessa Commissione d’inchiesta. Come già ricordato nelle precedenti relazioni intermedie, con l’adozione della nuova disciplina, l’ordinamento italiano ha riunito per la prima volta in un corpus finalmente organico ed esaustivo le varie norme di una materia complessa e multiforme e definito in maniera puntuale istituti e figure prima non chiaramente riconoscibili.
Ciò ha comportato notevoli esigenze di adeguamento per tutti i soggetti pubblici e privati coinvolti nel sistema della prevenzione degli infortuni e delle malattie sul lavoro, ponendo una serie di problemi interpretativi e applicativi nonché, soprattutto da parte del mondo imprenditoriale, richieste di semplificazione di alcuni adempimenti ritenuti eccessivamente formali o burocratici e di rimodulazione dell’apparato sanzionatorio.
Il successivo decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106, ha apportato correzioni ed integrazioni al testo unico. La Commissione d’inchiesta ha seguito con attenzione l’iter di elaborazione e di approvazione del nuovo testo, fornendo anche le proprie osservazioni e valutazioni al Governo e alle Commissioni di merito.
La disciplina risultante è sicuramente esaustiva e in linea con gli standard giuridici comunitari ed internazionali, come la Commissione ha avuto modo di verificare nel corso della sua inchiesta (si vedano le precedenti relazioni intermedie). Naturalmente molte questioni rimangono ancora aperte ed occorrerà verificare concretamente l’efficacia della nuova disciplina, la cui attuazione non è purtroppo ancora del tutto completata.
Per queste ragioni, nel suo terzo anno di attività la Commissione ha continuato il monitoraggio della riforma, del suo iter di attuazione e dei relativi problemi, anche attraverso l’apposito gruppo di lavoro coordinato dalla senatrice Donaggio. Certamente la «fase di rodaggio» può ormai dirsi superata: molti progressi sono stati compiuti, tuttavia molto rimane ancora da fare. Da un lato, mancano ancora alcuni atti normativi secondari destinati a regolare specifici settori di attività economica, sebbene quasi tutti quelli previsti siano stati già emanati o siano comunque prossimi all’emanazione.
Dall’altro lato, come già accennato nel paragrafo precedente, uno degli aspetti cruciali riguarda l’attuazione del testo unico a livello territoriale, da parte dei soggetti istituzionali e delle organizzazioni datoriali e sindacali delle varie Regioni.
La nuova disciplina ha infatti attribuito alle Regioni e alle Province autonome le principali competenze di programmazione, coordinamento e controllo delle attività di prevenzione e di contrasto al fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali sul territorio, sia di quelle svolte dalle amministrazioni locali che di quelle realizzate dagli uffici periferici delle amministrazioni statali. La sede istituzionale nella quale si esercitano le suddette competenze sono i comitati regionali di coordinamento, già istituiti dall’articolo 27 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e disciplinati dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 dicembre 2007, i quali sono stati poi ulteriormente confermati e rafforzati dall’articolo 7 del citato decreto legislativo n. 81 del 2008. Tali organismi sono formati da rappresentanti delle amministrazioni statali e locali compenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro e da rappresentanti delle parti sociali (organizzazioni datoriali e sindacali): essi gestiscono concretamente le attività di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali in ambito locale e assicurano il necessario raccordo tra il livello decisionale centrale e quello locale. Si tratta quindi di organismi di grande importanza, la cui attività dovrebbe essere adeguatamente valorizzata.
Per tali ragioni, in questo terzo anno di lavoro la Commissione, nel proseguire il monitoraggio del processo di attuazione del testo unico, ha inteso verificare l’andamento del processo nei diversi territori italiani, soffermandosi in particolare sul ruolo delle regioni e delle province autonome e dei rispettivi comitati regionali di coordinamento.
A tal fine, la Commissione ha avviato un confronto diretto con i rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome – in particolare con gli assessori alla salute – e ha svolto missioni in varie regioni del Paese (a cominciare da quelle nelle quali non si era ancora recata in questa legislatura), incontrando i soggetti istituzionali e sociali responsabili dei sistemi di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori in ambito locale. Questa attività di approfondimento è ancora in corso, ma il quadro che sta emergendo sembra confermare che, se da un lato sono stati compiuti notevoli progressi nell’attuazione della nuova disciplina e nelle attività di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali, dall’altro però esistono ancora molte lacune e ancora molte, troppe differenze tra una Regione e l’altra nel livello e nell’organizzazione del sistema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Come ha confermato l’inchiesta della Commissione, tali differenze e asimmetrie si riscontrano poi anche a livello settoriale e nel confronto tra grandi e piccole imprese. Mentre infatti le disposizioni del testo unico sono state sostanzialmente recepite e applicate nelle grandi e medie imprese industriali, molti ritardi si registrano ancora tra le piccole imprese di settori come l’agricoltura, l’edilizia e l’artigianato. Le ragioni sono sia di carattere strutturale che culturale: si tratta infatti di settori con un tessuto produttivo molto frammentato, formato da aziende di piccole o piccolissime dimensioni, che hanno meno risorse e competenze e che più di altri stanno soffrendo l’attuale crisi economica. A ciò si aggiunge spesso la mancanza di una adeguata cultura della sicurezza, che porta molti operatori a ritenere l’applicazione delle regole della prevenzione come un mero aggravio di costi o, nel migliore dei casi, un appesantimento burocratico da adempiere in modo formale e, per così dire, senza una vera convinzione.
In questi settori e in queste realtà la sicurezza diventa quindi spesso più difficile da garantire e non a caso il numero degli incidenti e delle morti che si registrano sono sempre tra i più alti. La cosa è ancora più drammatica se si pensa che, nelle piccole imprese, i titolari lavorano gomito a gomito con i dipendenti e sono quindi le prime vittime degli infortuni, spesso anche mortali. Le associazioni di categoria negli ultimi anni hanno fatto molto per formare i loro associati e creare una sempre maggiore consapevolezza e sensibilità su questi temi, soprattutto in quei settori come l’edilizia e l’artigianato dove operano gli organismi paritetici tra datori di lavoro e sindacati. Tuttavia ci sono anche molte resistenze e alcune aziende non solo sono ancora restie ad applicare le norme del testo unico ma, se possono, cercano addirittura di aggirarle. Ad esempio c’è ancora molta diffidenza nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e dei rappresentanti territoriali dei lavoratori per la sicurezza (RLST), questi ultimi introdotti dal decreto legislativo n. 81 del 2008 (articolo 48) proprio per consentire la presenza di queste importanti figure di garanzia anche nelle realtà di minori dimensioni con pochi o pochissimi lavoratori, attraverso una rappresentanza a livello territoriale o settoriale per più imprese, evitando eccessivi aggravi per le aziende stesse.
Purtroppo la crisi economica degli ultimi anni non ha aiutato, accrescendo la precarietà delle piccole imprese e spingendo molte di esse a tagliare i costi, cominciando spesso proprio da quelli della sicurezza ritenuti magari «superflui», in una visione culturalmente distorta. A ciò si lega il fenomeno del lavoro irregolare e sommerso, che è ancora diffuso, anche in settori (come i servizi) che fino a poco tempo fa sembravano esserne esclusi. Da una parte ci sono operatori senza scrupoli, i quali non esitano a praticare una vera e propria concorrenza sleale nei confronti delle aziende oneste; dall’altra la crisi rischia di indurre anche aziende corrette, in crescente difficoltà, a entrare in tutto o in parte nel sommerso. In queste condizioni l’esperienza dimostra che i livelli di tutela della sicurezza calano drammaticamente e le statistiche degli incidenti lo testimoniano chiaramente.
Queste dinamiche sono particolarmente evidenti anche nel settore degli appalti e dei subappalti, dove il ricorso al criterio del massimo ribasso nella valutazione delle offerte spinge molte aziende, specialmente negli ultimi livelli della catena degli affidamenti, a comprimere fortemente i costi per offrire prezzi competitivi: anche in questo caso, una delle prime voci di spesa che viene tagliata è quella per la sicurezza.
In conclusione, nella valutazione della concreta attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008, a fronte di innegabili e positivi risultati, si riscontrano purtroppo tuttora, a livello territoriale e settoriale, una serie di ritardi e incongruenze, delle vere e proprie «zone d’ombra», sulle quali è indispensabile intervenire. Il lavoro d’inchiesta della Commissione intende dare un contributo in tale direzione, nella consapevolezza che illuminare tali zone, colmare le lacune e superare le differenze ancora esistenti rappresenta oggi il passaggio decisivo per una sempre più efficace azione di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

2.3. Il completamento dell’attuazione del «testo unico»
Il primo passo per il potenziamento della prevenzione e del contrasto agli infortuni e alle malattie professionali è appunto il completamento del processo di attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008. In proposito, le più importanti attività sono naturalmente svolte o coordinate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Come confermato direttamente dal ministro, professoressa Elsa Fornero, durante l’audizione del 13 dicembre 2011, tali attività procedono in maniera costante e hanno prodotto, nel corso dell’ultimo anno, importanti risultati.
Infatti, anche se, come già accennato nel paragrafo precedente, non è ancora stata completata l’emanazione di tutti i provvedimenti di «secondo livello» del testo unico, occorre comunque evidenziare come il processo di attuazione abbia ormai raggiunto una fase piuttosto avanzata.
In particolare, è stato quasi completato il quadro istituzionale di riferimento previsto dal testo unico, preposto a delineare, nell’ambito della competenza «tripartita» tra amministrazioni centrali, amministrazioni locali e parti sociali, le strategie nazionali per la definizione e il sostegno delle azioni a favore della salute e sicurezza sul lavoro. Infatti, sono stati costituiti ed operano regolarmente:
a) il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale dell’attività di vigilanza (articolo 5 del decreto legislativo n. 81 del 2008), sede in cui si discute tra amministrazioni centrali e Regioni degli indirizzi nazionali per le politiche di prevenzione e di vigilanza. Tale organismo, costituito presso il Ministero della salute, ha discusso di temi di grande rilievo, quali, ad esempio, la campagna nazionale per la prevenzione degli infortuni nei settori delle costruzioni e dell’agricoltura o, ancora, la definizione di indirizzi comuni – tra Stato e Regioni – per lo svolgimento delle rispettive attività di vigilanza;
b) la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (articolo 6 del testo unico), organo a composizione tripartita che include rappresentanti dei Ministeri, delle Regioni e delle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, la quale, costituitasi nel marzo del 2009, ha effettuato varie riunioni affrontando argomenti di grande rilevanza (si pensi, per tutti, alle malattie professionali) e predisponendo documenti di indirizzo per gli operatori e per i lavoratori. La Commissione si articola in nove gruppi o comitati «tecnici» di lavoro, che svolgono le varie attività istruttorie. Tra i documenti elaborati dalla Commissione (tutti divulgati anche tramite lettera circolare e poi pubblicati sul sito istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali), si possono ricordare, a titolo di esempio:
– in data 17 novembre 2010, le indicazioni per la valutazione dello stress lavoro-correlato (articolo 28, comma 1-bis, del testo unico), da tempo attese da tutti gli operatori pubblici e privati per la rilevanza che tale «nuova» malattia professionale ha ormai assunto nel contesto lavorativo odierno. Le indicazioni sono state poi divulgate nell’apposita circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 18 novembre 2010 e, infine, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 304 del 30 dicembre 2010;
– le procedure operative per la corretta gestione della «fornitura» di calcestruzzo nei cantieri edili, approvate il 19 gennaio 2011;
– l’individuazione del concetto di «eccezionalità» per l’utilizzo delle attrezzature di lavoro per il sollevamento «in sicurezza» di persone, documento approvato anch’esso nella riunione del 19 gennaio 2011;
– in data 19 gennaio 2011, l’identificazione delle «esposizioni sporadiche e a debole intensità» (c.d. ESEDI) all’amianto, ai sensi dei commi 2 e 4 dell’articolo 249 del decreto legislativo n. 81 del 2008;
– le circolari sull’«impatto» dei regolamenti comunitari REACH e CLP sugli agenti chimici di cui al Titolo IX del decreto legislativo n. 81 del 2008, approvate nella riunione del 20 aprile 2011;
– sempre in data 20 aprile 2011, una banca dati per la valutazione del rumore nei cantieri edili, ai sensi dell’articolo 190, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 81 del 2008;
– il documento che individua, ai sensi dell’articolo 30, comma 5, del decreto legislativo n. 81 del 2008, le mancate corrispondenze tra i modelli di organizzazione e gestione della salute e sicurezza elaborati secondo le linee guida UNI-INAIL o BS 18001 e gli elementi indicati nell’articolo 30 del testo unico, approvato dalla Commissione consultiva sempre in data 20 aprile 2011;
– l’approvazione di un documento sulla presentazione delle «buone prassi» a tutela delle «differenze di genere» in materia di salute e sicurezza sul lavoro, approvato nella riunione del 21 settembre 2011, ai fini della loro validazione;
c) il Comitato consultivo per l’aggiornamento dei valori limite dell’esposizione professionale e dei valori limite biologici relativi agli agenti chimici (articolo 232, comma 1, decreto legislativo n. 81 del 2008), insediatosi nel luglio 2011 e che ha già svolto le proprie attività in relazione al recepimento (entro il 18 dicembre 2011) dei valori di esposizione di cui alla direttiva della Commissione europea n. 2009/161/UE;
d) i già citati comitati regionali di coordinamento (articolo 7 del decreto legislativo n. 81 del 2008), ormai presenti in ogni regione, sedi nelle quali le Amministrazioni locali, con la partecipazione delle parti sociali, discutono delle rispettive attività e le pianificano tenendo conto degli indirizzi provenienti dalla «cabina di regia» nazionale di cui all’articolo 5 del testo unico. (Di questi importanti organismi si parla in dettaglio nel paragrafo 2.5.)
Inoltre, a fine settembre 2011, è stata costituita presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali la Commissione sugli interpelli (articolo 12 del decreto legislativo n. 81 del 2008), al fine di fornire, su questioni suscettibili di diverse interpretazioni in materia di attività di vigilanza, indirizzi comuni agli ispettori delle ASL e delle DPL.
Il quadro di governo della salute e sicurezza delineato dal testo unico sconta però, come già detto, ancora alcune lacune, tra le quali particolarmente rilevante è quella relativa all’approvazione del decreto interministeriale concernente il Sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP), previsto dall’articolo 8 del testo unico. Come più volte sottolineato anche nelle precedenti relazioni annuali, si tratta di uno strumento essenziale per l’attività delle amministrazioni, in quanto – grazie alla condivisione delle informazioni relative alle azioni di tutela e vigilanza della salute e sicurezza – consentirà loro di evitare sovrapposizioni di interventi e garantire un utilizzo efficace delle rispettive risorse da destinare alla prevenzione di infortuni e malattie professionali e alla vigilanza.
L’iter di approvazione del decreto è stato alquanto lungo e complesso, coinvolgendo la competenza di numerose amministrazioni, ma sembra ora finalmente arrivato a conclusione. Gli uffici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali hanno inviato un primo testo consolidato, scaturito dal confronto «tecnico» con le altre amministrazioni pubbliche concertanti e con le regioni, al vaglio del Garante per la protezione dei dati personali, che ha reso parere favorevole in data 7 luglio 2011, formulando alcune osservazioni. Il Ministero ha, di conseguenza, elaborato una nuova versione dello schema di decreto e dei relativi allegati (che disciplinano il trattamento dei «flussi» di dati in materia) la quale, dopo essere stata condivisa dalle amministrazioni concertanti, è stata infine inviata alla Conferenza Stato-Regioni, che l’ha approvata definitivamente nella seduta del 21 dicembre 2011.
Un altro tema affidato a uno dei comitati «interni» della Commissione consultiva permanente è quello dell’attuazione del cosiddetto «sistema di qualificazione» delle imprese, il quale ha lo scopo di individuare, in determinati settori, quali imprese possano operare e con quali requisiti, con riferimento a elementi relativi alla salute e sicurezza sul lavoro. Tale sistema, che si dovrà realizzare per mezzo di un decreto del Presidente della Repubblica, ai sensi degli articoli 6 e 27 del testo unico, è in corso di definizione anzitutto per il settore edile mediante l’attivazione della cosiddetta «patente a punti», mentre altri settori debbono essere individuati dalla Commissione consultiva. Purtroppo, su questo fronte continuano a registrarsi ritardi.
Si tratta infatti di una questione complessa e di grande rilevanza, che è da tempo oggetto di attenzione da parte della Commissione d’inchiesta e che è stata espressamente richiamata anche nell’atto di indirizzo al Governo approvato dall’Assemblea del Senato il 12 gennaio 2011, a seguito del dibattito sulla seconda relazione annuale della Commissione. Occorre ricordare che la richiesta di fissare dei requisiti «minimi» di qualificazione delle imprese in materia di salute e sicurezza del lavoro proviene dalle stesse associazioni di categoria, in particolare da quelle del settore edile, che denunciano da tempo la presenza di soggetti che intraprendono l’attività imprenditoriale senza avere adeguati livelli di organizzazione, di struttura e di esperienza. Questi soggetti praticano così una vera e propria concorrenza sleale nei confronti delle imprese più serie, offrendo prezzi assai più bassi, a danno però del rispetto delle norme di tutela dei lavoratori (quasi sempre disattese) e della stessa qualità del lavoro svolto.
Per fronteggiare questa situazione serve dunque una riforma di tipo normativo che, da un lato, salvaguardi la libertà di iniziativa economica, dall’altro garantisca la presenza di operatori seri e adeguatamente organizzati.
Anche la Commissione d’inchiesta sta studiando la questione per cercare di offrire, nell’ambito delle proprie competenze, un contributo alla sua risoluzione. Sul punto si tornerà diffusamente più avanti, nel paragrafo 3.6.
Un’ulteriore questione venuta all’attenzione della Commissione consultiva permanente è stata quella delle lavorazioni svolte in ambienti confinati (silos, cisterne, cunicoli, pozzi, ecc.), in ragione del drammatico ripetersi di gravissimi infortuni, tra i quali quello avvenuto l’11 settembre 2010 presso lo stabilimento della DSM s.p.a. di Capua, dove sono morti tre operai. Anche la Commissione d’inchiesta si era occupata di quell’incidente, segnalando con forza la necessità di regolamentazioni e controlli più stringenti per questo tipo di attività, troppo elevati essendo i rischi e troppo numerosi gli incidenti verificatisi in questo settore negli ultimi anni, quasi sempre mortali (si veda in proposito la precedente relazione intermedia).
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, riprendendo peraltro un’iniziativa già assunta prima della tragedia di Capua, ha predisposto una serie di misure ad hoc per fare fronte a questa grave problematica. Tali misure, condivise dai rappresentanti delle regioni e delle parti sociali all’interno della Commissione consultiva, inseriscono anzitutto le lavorazioni che si svolgono in ambienti confinati tra le attività del futuro sistema di qualificazione delle imprese, al fine di garantire ex lege che le imprese chiamate a svolgere tali operazioni siano soltanto quelle che applicano adeguate misure in termini di sicurezza.
Nel merito, sono stati poi previsti alcuni interventi di carattere operativo volti ad accrescere la sicurezza e i controlli dei lavori che avvengono in ambienti confinati. Questi interventi, adottati dapprima in via amministrativa, hanno infine trovato attuazione in sede normativa con il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177, sugli «ambienti confinati», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 260 dell’8 novembre 2011.
Il citato regolamento del Presidente della Repubblica impedisce che in simili contesti possano operare soggetti non adeguatamente formati, addestrati o, comunque, non perfettamente a conoscenza dei rischi delle lavorazioni e di quelli propri degli ambienti nei quali le stesse si svolgano.
A tal fine sono previsti per le imprese e i lavoratori autonomi che effettuano i lavori una serie di obblighi specifici, in aggiunta a quelli già sanciti dalle norme vigenti: formazione e addestramento di tutto il personale; possesso e capacità di utilizzo dei necessari dispositivi di protezione individuale, strumenti e attrezzature; regolarità e qualificazione sia delle imprese appaltatrici che subappaltatrici; limitazione del ricorso al subappalto.
Al fine di garantire la massima coordinazione ed informazione tra committenti ed appaltatori, le imprese committenti sono poi obbligate a informare preventivamente gli appaltatori e i lavoratori di tutti i rischi e le condizioni del lavoro, a nominare un proprio esperto che sia presente durante le attività e ad adottare una procedura di lavoro (anche sotto forma di «buone prassi») specificamente diretta a eliminare o ridurre al minimo i rischi.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, inoltre, ha completato o sta completando talune ulteriori attività, previste dal decreto legislativo n. 81 del 2008, al di fuori dei compiti della Commissione consultiva per la salute e sicurezza sul lavoro. Per quanto riguarda i provvedimenti già vigenti in attuazione del testo unico, si segnalano, solo a titolo di esempio tra gli ultimi, i seguenti:
– il decreto 13 aprile 2011 (ex articolo 3, comma 3-bis, del testo unico) che individua la normativa di salute e sicurezza relativa alle «peculiari esigenze» per le società cooperative e per alcune categorie di volontari (della protezione civile, della Croce Rossa ecc.), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 159 dell’11 luglio 2011;
– il decreto 11 aprile 2011 per l’individuazione delle modalità per la effettuazione delle verifiche periodiche delle attrezzature di lavoro e dei criteri per l’abilitazione dei soggetti pubblici o privati legittimati a realizzare tali verifiche (articolo 71, comma 13, decreto legislativo n. 81 del 2008), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 98 del 29 aprile 2011, S.O. n. 111;
– il decreto 9 febbraio 2011, ex articolo 82, comma 2, del decreto legislativo n. 81 del 2008, relativo alle autorizzazioni per i lavori sotto tensione (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 83 dell’11 aprile 2011);
– il regolamento di cui al decreto 24 gennaio 2011, n. 13 sulle modalità di applicazione in ambito ferroviario del decreto 15 luglio 2003, n. 388, ai sensi dell’articolo 45, comma 3, del testo unico (cosiddetto «pronto soccorso in ambito ferroviario»), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 58 dell’11 marzo 2011;
– lo schema di Regolamento, approvato in sede di Conferenza Stato-Regioni del 22 settembre 2011 ex articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 81 del 2008, recante le disposizioni per l’attuazione della salute e sicurezza negli uffici all’estero del Ministero degli affari esteri;
– gli accordi, approvati in sede di Conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, relativi all’individuazione dei contenuti e delle modalità della formazione del datore di lavoro che intenda svolgere «in proprio» i compiti del servizio di prevenzione e protezione (articolo 34, del decreto legislativo n. 81 del 2008) e della formazione dei dirigenti, preposti e lavoratori (articolo 37 del testo unico), pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 8 dell’11 gennaio 2012.
Altri provvedimenti sono nella fase finale dell’iter normativo e la loro approvazione dovrebbe quindi essere imminente. Tra di essi, si possono citare:
– il regolamento che disciplinerà le «particolari esigenze» delle università e delle scuole in materia di salute e sicurezza sul lavoro, al momento oggetto di una rivisitazione da parte del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, per tenere conto delle osservazioni del Consiglio di Stato, che sarà pubblicato a breve;
– l’istituzione in data 27 maggio 2011 del Comitato consultivo per l’aggiornamento dei valori limite dell’esposizione professionale e dei valori limite biologici relativi agli agenti chimici (articolo 232, comma 1, del decreto legislativo n. 81 del 2008). Il Comitato ha proceduto innanzitutto alla elaborazione di un documento per il recepimento dei valori di esposizione di cui alla direttiva n. 2009/161/UE, da recepire entro il 18 dicembre 2011; tale documento è stato approvato, nella seduta del 13 settembre 2011 (è, quindi, in corso la procedura di recepimento di cui all’articolo 232, comma 2, del testo unico essendo stata, in particolare, redatta la relativa bozza di decreto);
– la prosecuzione dei confronti, iniziati in data 9 settembre 2010, con i rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e le parti sociali del settore trasporti relativi all’attuazione dell’articolo 161, comma 2-bis, del decreto legislativo n. 81 del 2008, il quale prevede la adozione di un decreto interministeriale dedicato alla segnaletica stradale per i cantieri in presenza di traffico veicolare;
– l’approvazione, in data 15 settembre 2011, sotto la supervisione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di un «avviso comune» tra le parti sociali dell’agricoltura relativo alle semplificazioni nei riguardi dei lavoratori «stagionali» del settore, ove essi non vengano impiegati per oltre 50 giornate lavorative nell’anno di riferimento (articolo 3, comma 13, decreto legislativo n. 81 del 2008). È, quindi, in fase avanzata di elaborazione il relativo decreto ministeriale il quale recepirà i contenuti del citato «avviso comune»;
– la predisposizione, in fase molto avanzata, della bozza di decreto che individuerà le modalità della formazione richiesta per determinate attrezzature di lavoro (macchine agricole, gru, ecc.), elaborata da parte di un gruppo di «tecnici» di Stato e regioni e che verrà sottoposta alla Conferenza Stato-Regioni per la prevista approvazione (articolo 73, comma 5, del testo unico), presumibilmente alla prima riunione utile.
Quest’ultimo provvedimento riveste particolare importanza, perché potrebbe contribuire a risolvere un problema molto serio, del quale la Commissione si è occupata a lungo e che verrà trattato in modo approfondito nel paragrafo 3.1. Si tratta degli incidenti legati all’utilizzo delle macchine agricole, in particolare dei trattori, che costituiscono una delle più frequenti modalità di infortunio del settore agricolo: tra le concause degli incidenti vi è anche la circostanza che nell’ordinamento vigente non è richiesta una particolare abilitazione per i conducenti di questi mezzi, essendo sufficienti le normali patenti automobilistiche. Peraltro, spesso nelle campagne si assiste al fenomeno di persone molto anziane (in genere ex agricoltori) o addirittura di minorenni che si pongono alla guida, con i risultati tragici che è possibile immaginare.
Vi sono naturalmente altri fattori che concorrono ad alimentare questo tipo di infortuni, in particolare la mancanza su molti mezzi dei necessari dispositivi di sicurezza, anche a causa dell’elevata vetustà del parco macchine circolante. Tuttavia la mancanza di una regolamentazione più stringente in merito ai requisiti dei conducenti è senz’altro il problema più importante, sul quale la Commissione d’inchiesta sta sollecitando con forza un intervento normativo. D’altra parte, anche altri macchinari molto complessi come le gru dell’edilizia richiederebbero una specifica abilitazione, come già accade in altri Paesi e come chiedono da tempo le stesse associazioni di categoria2. L’auspicio è dunque che il lavoro della Commissione consultiva permanente su questo tema possa condurre presto a un risultato concreto. La Commissione d’inchiesta intende naturalmente continuare a seguire con attenzione il relativo iter, cercando di contribuire, per quanto di sua competenza, alla sua positiva conclusione.

2.4. Il ruolo del Governo. Le politiche di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali
La strategia di contrasto al fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali non passa naturalmente solo attraverso il completamento del quadro giuridico di riferimento – attraverso la disciplina di rango secondario rispetto al decreto legislativo n. 81 del 2008, – ma anche mediante la realizzazione di una serie di azioni pubbliche e private dirette a migliorare la prevenzione e i livelli di tutela in tutti gli ambienti di lavoro.
In tale contesto rientrano le iniziative assunte dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per favorire la sinergia con vari soggetti pubblici e privati e rafforzare l’efficacia delle rispettive attività. L’ultimo aggiornamento su tali attività è stato fornito alla Commissione in occasione dell’audizione del ministro del lavoro e delle politiche sociali Fornero svolta il 13 dicembre 2011. Tra le varie iniziative, si segnala lo stanziamento, nel triennio 2008-2010, dei fondi per lo svolgimento delle attività promozionali in materia di salute e sicurezza di cui all’articolo 11, comma 2, del decreto legislativo n. 81 del 2008, sulla base dell’Accordo Stato- Regioni del 20 novembre 2008.
In particolare, per il 2008 sono stati stanziati (e già impegnati e resi disponibili) fondi per 50 milioni di euro, destinati:
– alla realizzazione, già effettuata, di una campagna di comunicazione (per l’importo complessivo di 20 milioni di euro) sulla salute e sicurezza sul lavoro;
– al finanziamento di attività di formazione su base regionale (per complessivi 30 milioni di euro). A ciascuna regione è stato chiesto da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – per ottenere l’erogazione di quanto dovuto – di presentare un programma di attività formative coerenti con i contenuti dell’Accordo e si è già provveduto, sempre da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, a erogare le somme alle regioni adempienti.
Per il 2009, sono stati stanziati oltre 37 milioni di euro ed è stato predisposto il decreto interministeriale di riparto, per finanziare attività promozionali in materia di salute e sicurezza sul lavoro tra i seguenti tre temi:
– progetti di investimento per le piccole e medie imprese, con particolare riferimento al finanziamento di modelli di organizzazione e gestione (5 milioni di euro);
– finanziamento di progetti formativi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sempre su base regionale;
– finanziamento di attività di istituti scolastici, universitari e di formazione dirette a inserire nei rispettivi programmi il tema della salute e sicurezza sul lavoro e finanziare iniziative promozionali nelle scuole e università (5 milioni di euro).
Per il 2010, sono state messe a disposizione risorse per oltre 36 milioni di euro. La bozza del decreto di riparto, già discussa nella Commissione consultiva permanente, ha altresì avuto il parere favorevole della Conferenza Stato-Regioni, I fondi sono quindi così ripartiti:
– 20 milioni di euro per il finanziamento di attività promozionali per le piccole e medie imprese, di cui 15 relativi all’acquisto di attrezzature di lavoro rispettose delle previsioni comunitarie di riferimento e 5 da destinare al finanziamento dell’adozione di modelli di organizzazione e gestione per la sicurezza da parte delle piccole e medie imprese;
– circa 11 milioni di euro per attività formative su base regionale, in continuità con le impostazioni adottate per il 2008 ed il 2009;
– 5 milioni di euro per il finanziamento di attività di istituti scolastici, universitari e di formazione diretti a inserire nei rispettivi programmi il tema della salute e sicurezza sul lavoro.
Riguardo ai fondi stanziati sia per il 2009 che per il 2010 a favore delle scuole e delle università, occorre sottolineare come si tratti delle prime iniziative concrete per inserire gli insegnamenti relativi alla salute e sicurezza sul lavoro all’interno degli istituti di formazione giovanile, intesa nell’accezione più ampia. La Commissione si è a lungo battuta a favore di tale iniziativa, nella convinzione che solo la sensibilizzazione dei giovani, anche in età infantile, sui temi della prevenzione possa consentire la diffusione di una vera cultura della sicurezza, che è il metodo più efficace per contribuire a combattere la piaga degli infortuni e delle malattie professionali.
A livello istituzionale, occorre segnalare come si sia ormai definita l’organizzazione chiamata a progettare e dare concreta attuazione a queste attività. In particolare, è stata costituita e si è già più volte riunita la «cabina di regia» prevista dalla Carta d’intenti tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero della pubblica istruzione, dell’università e della ricerca e l’INAIL. Al riguardo, si deve ricordare che, proprio sotto la supervisione della citata cabina di regia, è stato emanato dal Ministero della pubblica istruzione un bando che, scaduto lo scorso giugno, ha ottenuto un grande riscontro, con oltre 1.000 progetti presentati e 800.000 studenti coinvolti in tutta Italia. La valutazione dei progetti, da parte di un apposito comitato, si è conclusa alla fine dell’estate 2011 e ha consentito di individuare i 48 progetti vincitori, che dovranno essere realizzati dalle scuole e dagli studenti interessati nel corso dell’anno scolastico 2011-2012.
Naturalmente, è auspicabile che, accanto a singoli progetti di questo tipo, si possa individuare il modo per realizzare anche dei moduli didattici ad hoc di tipo regolare, all’interno dei vari programmi scolastici e formativi, ad esempio nell’ambito dell’insegnamento di cittadinanza attiva già esistente.
In materia di attività promozionali un ruolo fondamentale spetta naturalmente all’INAIL, nell’esercizio della sua funzione di «polo unico» italiano della prevenzione (funzione consolidata anche a seguito dell’«incorporazione » dell’ISPESL). L’Istituto sta incentivando le imprese a realizzare interventi finalizzati al miglioramento dei livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (progetti di investimento per l’ammodernamento degli impianti e delle attrezzature, per la formazione e per l’adozione di modelli organizzativi e di responsabilità sociale), e ha stanziato, ai sensi dell’articolo 11, comma 5, del decreto legislativo n. 81 del 2008, 60 milioni di euro per il 2010, 180 milioni per il 2011, 225 milioni per il 2012 e 280 milioni per il 2013, ripartiti su base regionale.
Destinatarie dell’incentivo sono le imprese, anche individuali, iscritte alla Camera di commercio industria artigianato e agricoltura. La prima erogazione degli incentivi è avvenuta tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, mediante un’apposita procedura informatica: a partire dal 10 dicembre 2010, le aziende interessate hanno potuto verificare il possesso dei requisiti per poter accedere al finanziamento nella sezione «Punto Cliente» del sito dell’INAIL, mentre le domande di contributo sono state presentate in data 12 gennaio 2011 (c.d. «click day») tramite la piattaforma informatica INAIL, in un numero tale da avere esaurito in poche ore la capienza dei finanziamenti.
Se da un lato quindi questa iniziativa si è rivelata un grande successo, dall’altro proprio il rapido esaurirsi dei finanziamenti e il fatto che molte aziende non abbiano potuto accedervi ha messo in luce l’importanza di prevedere un volume di risorse più ampio per fare fronte a un’esigenza (quella del miglioramento dei livelli di salute e sicurezza) che è ormai assai diffusa e avvertita tra le imprese.
Per questa ragione, l’attività promozionale continuerà negli anni 2011 e 2012, opportunamente potenziata sotto il profilo finanziario e migliorata sotto quello tecnico, superando così anche alcuni inconvenienti della procedura informatica verificatisi nella fase di avvio del «click day». In particolare, come formalizzato nella delibera del Comitato di indirizzo e valutazione (CIV) dell’INAIL n. 15 del 3 agosto 2011, l’INAIL garantirà per il 2011 benefici economici per le imprese che investono in sicurezza per 180 milioni di euro, ai quali peraltro andranno aggiunte le risorse residue rispetto all’esercizio 2010, secondo criteri di immediatezza (tramite la modalità di aggiudicazione «a sportello»), promuovendo le misure più efficaci in termini prevenzionistici quali, solo a titolo di esempio, il finanziamento della «messa in sicurezza» di attrezzature di lavoro, con particolare riguardo a quelle utilizzate in agricoltura, settore a particolare rischio infortunistico3.
Per completare il quadro informativo sulle attività di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali, occorre accennare alle prestazioni erogate dall’INAIL ai lavoratori infortunati. Negli ultimi tempi, l’Istituto sta cercando di potenziare la propria attività in questo settore, nell’ottica di costruire un sistema di «tutela globale ed integrata» a favore degli assicurati, erogando prestazioni economiche, sanitarie, riabilitative e protesiche nonché realizzando interventi atti a favorire il reinserimento delle persone con disabilità da lavoro nella vita di relazione.
L’INAIL sta favorendo in particolare gli interventi per l’abbattimento delle barriere architettoniche nel contesto domestico, rafforzando l’aspetto relativo al reinserimento nella vita di relazione dei disabili da lavoro, anche attraverso azioni volte a supportare i familiari dei lavoratori disabili e i superstiti di quelli deceduti per infortunio sul lavoro o tecnopatia. Si tratta di un aspetto importante, che mira a tradurre in azioni concrete la profonda evoluzione culturale intervenuta negli ultimi anni rispetto ai temi della disabilità e che si è recentemente concretizzata nell’elaborazione del sistema di classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF), adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale indirizzo qualifica la «riabilitazione» non più unicamente nell’accezione di recupero funzionale, ma con un significato più ampio che comprende la riappropriazione da parte della persona divenuta disabile della capacità di autodeterminazione e del proprio ruolo nel contesto familiare, socio-ambientale e lavorativo.
Sempre ai fini al miglioramento dei livelli delle prestazioni erogate per il pieno recupero dell’integrità psico-fisica da parte dei lavoratori infortunati, nel corso del 2011 è stata ampliata dall’INAIL la tipologia dei presidi concedibili nel periodo di inabilità temporanea assoluta al lavoro.
Inoltre, una volta stipulato l’Accordo quadro in sede di Conferenza Stato- Regioni – in attuazione dell’articolo 9, comma 4, lettera d-bis, del decreto legislativo n. 81 del 2008, che consente l’erogazione di prestazioni di assistenza sanitaria riabilitativa non ospedaliera da parte dell’Istituto – l’obiettivo che si intende perseguire è quello di attivare, sulla base di Protocolli d’intesa, forme stabili di collaborazione tra l’INAIL ed i Servizi sanitari regionali, miranti a garantire ai lavoratori assicurati prestazioni tempestive, assistenza continuativa e, soprattutto, un adeguato e omogeneo livello di tutela sanitaria su tutto il territorio nazionale.
In sostanza, come risulta dalla delibera n. 14 del CIV del INAIL dello scorso 3 agosto, l’INAIL mira a dare finalmente attuazione – in coerenza con la concreta realizzazione del «Polo salute e sicurezza» – al principio della «tutela globale del lavoratore», finora rimasto ineffettivo soprattutto in ragione della incompiutezza delle norme di riferimento, creando un ciclo completo di ricerca, prevenzione, cura, indennizzo, riabilitazione, reinserimento sociale e lavorativo, ferma restando l’esigenza della piena sostenibilità finanziaria.
Un altro importante passo nel processo di costruzione del «Polo salute e sicurezza» intorno all’INAIL è stato compiuto con il decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, che ha attribuito all’INAIL le funzioni in precedenza svolte dai soppressi ISPESL ed IPSEMA, rafforzando e consolidando la missione dell’Istituto, che ha acquisito ora un ruolo centrale nella gestione della tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, in stretta e sinergica collaborazione con gli altri soggetti istituzionali che compongono il sistema del welfare.
La Commissione d’inchiesta ha seguito con molta attenzione questo processo (si veda in proposito la seconda relazione intermedia), nella convinzione della validità della «scommessa» lanciata dal legislatore di mettere assieme, nello stesso ente, le attività di ricerca e certificazione a fianco di quelle assicurative e prevenzionali, al fine di costituire un sistema integrato di servizi, riducendo il numero degli attori e, contemporaneamente, mantenendo la necessaria visibilità ed autonomia alle attività di ricerca in precedenza svolte dall’ISPESL, per loro natura diverse da quelle assicurativo-prevenzionali esercitate dall’INAIL e dall’IPSEMA. Il punto essenziale era ed è quindi quello di garantire che questo processo di accorpamento non comprometta il corretto svolgimento delle varie funzioni, ma che anzi le rafforzi e le potenzi in una logica di gestione integrata e sinergica. A circa un anno e mezzo dall’avvio, il processo di riordino per incorporazione di INAIL, IPSEMA e ISPESL è in pieno svolgimento, anche se non ancora concluso. Si tratta obiettivamente di un’operazione assai complessa, dovendosi progettare un nuovo ed efficiente modello organizzativo, che superi la logica della conferenza di servizi e del coordinamento di autonome entità istituzionali attraverso l’integrazione delle competenze, la semplificazione dei processi decisionali e la riorganizzazione degli apparati, sia a livello centrale che territoriale.
I vari adempimenti richiesti, anche di carattere strettamente amministrativo, sono comunque ormai in fase avanzata e, secondo le informazioni fornite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, anche la progettazione del nuovo modello organizzativo, svolta sotto il coordinamento di una cabina di regia appositamente costituita e articolata in undici diversi gruppi tematici integrati, è a buon punto e dovrebbe concludersi in tempi rapidi, avendo già definito il Piano generale o «Master plan» del percorso di integrazione, documento che riconduce i progetti individuati alle diverse strutture delineando in modo chiaro le relative competenze.
Al di là dei modelli organizzativi che verranno formalmente adottati, tuttavia, la ricomposizione in un’unica struttura delle competenze prima appartenenti ai tre Istituti e l’effettiva sinergia tra di essi implica anche un cambiamento culturale e uno sforzo concreto di collaborazione tra i vari uffici, per superare quelle duplicazioni e quei ritardi che troppo spesso rallentano l’efficacia e la speditezza dell’attività amministrativa.
Il coordinamento tra i diversi attori del sistema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, del quale l’integrazione di INAIL, IPSEMA e ISPESL rappresenta una tappa fondamentale, è infatti uno degli aspetti cruciali di una sempre più efficace azione di prevenzione e repressione degli infortuni e delle malattie professionali.
Al riguardo, i primi segnali che la stessa Commissione d’inchiesta ha avuto modo di cogliere nelle sue numerose missioni sul territorio italiano appaiono certamente incoraggianti: funzionari e strutture delle amministrazioni accorpate collaborano in maniera sempre più stretta e sinergica, anche se, in alcuni casi, permangono ancora talune difficoltà e resistenze.
L’auspicio è naturalmente che queste incertezze e ritardi possano essere superati e che il processo di integrazione – formale e sostanziale – di INAIL, IPSEMA e ISPESL continui e si concluda in maniera rapida ed efficace.
A conclusione di questa lunga panoramica, occorre dare conto dell’audizione, già richiamata, che la Commissione ha svolto il 13 dicembre 2011 con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, professoressa Elsa Fornero. Oltre a fornire un aggiornamento sul processo di attuazione del testo unico e sulle attività di prevenzione portate avanti dal Governo, di cui si è già riferito, l’audizione è stata soprattutto l’occasione per fare il punto sul complesso delle politiche in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, anche alla luce dell’insediamento del nuovo Esecutivo Monti.
In particolare, la Commissione ha richiamato il lavoro svolto in questi tre anni di inchiesta, segnalando al Ministro le problematiche più rilevanti riscontrate e alle quali appare più urgente fornire risposta: oltre a richiamare l’esigenza di completare quanto prima l’attuazione del testo unico, si sono quindi evidenziate questioni specifiche come i problemi della sicurezza degli appalti e dei subappalti, quelli degli incidenti legati all’uso delle macchine nel settore agricolo, ecc. Ancora, si è segnalato l’aggravarsi del contenzioso INAIL per il recupero dei contributi assicurativi evasi, che oltre a mettere in difficoltà l’istituto rappresenta una ingiusta concorrenza sleale delle aziende morose nei confronti di quelle oneste.
Inoltre, è stata chiesta un’attenzione particolare per la condizione del lavoro femminile e azioni concrete contro il fenomeno sempre più invasivo delle malattie professionali. Si è altresì rappresentata l’esigenza di un rafforzamento dei controlli e delle attività ispettive, anche attraverso una standardizzazione delle procedure e dei verbali di contestazione. Si è richiamata, altresì, l’attenzione sul problema della sicurezza degli edifici scolastici, considerato che l’80 per cento di tali strutture in Italia non è, di fatto, a norma.
Un aspetto particolare sul quale la Commissione ha insistito molto è poi quello della corretta collaborazione tra lo Stato e le regioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, alla luce della competenza legislativa concorrente e delle importanti competenze di programmazione e coordinamento sul territorio che proprio il testo unico affida alle regioni.
L’inchiesta della Commissione, come si è già accennato, ha rilevato molti ritardi e lacune al riguardo, atteso che molte Regioni non stanno operando come dovrebbero. Soprattutto, vi è il rischio che ci sia una applicazione non uniforme delle normative nei vari territori, ciò che sarebbe estremamente grave.
Infine, la Commissione ha evidenziato l’opportunità di assicurare un’applicazione delle norme anche in quei settori «nascosti» o marginali che ancora fanno resistenza, per un complesso di motivi, non ultimo il peso dell’attuale crisi economica che sta incoraggiando una preoccupante diffusione del lavoro nero o irregolare, anche in settori che ne erano un tempo esclusi.
Il ministro Fornero ha assicurato la più ampia disponibilità sua e del Governo a perseguire con decisione le politiche di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali, in tutte le loro forme. Sul tema dell’attuazione del testo unico, ha fatto presente come la quasi totalità dei provvedimenti secondari previsti dalla normativa siano stati emanati ovvero siano prossimi ad esserlo o, comunque, abbiano completato la relativa istruttoria. Il Ministro si è detta altresì assai interessata a recepire tutti gli spunti e le segnalazioni che la Commissione d’inchiesta ha fornito sulle tematiche in questione, convenendo in particolare sull’opportunità di garantire la massima uniformità nell’applicazione delle disposizioni su tutto il territorio nazionale e di vigilare contro gli effetti negativi che la crisi economica può avere sulle aziende in termini di rispetto delle norme antinfortunistiche.
La professoressa Fornero si è altresì soffermata sulla questione della recente procedura di infrazione aperta dall’Unione europea contro l’Italia in relazione ad alcune norme del decreto legislativo n. 81 del 2008, introdotte a suo tempo con il decreto legislativo n. 109 del 2009. Il Ministro ha assicurato che il Governo sta seguendo con la massima attenzione la vicenda, al fine di studiare le soluzioni più opportune per superare il contenzioso, in particolare per quanto concerne le contestazioni sull’articolo 16 del testo unico relativo alla delega di funzioni da parte del datore di lavoro, sul quale si intende compiere una verifica approfondita.
La Commissione ha accolto con grande favore la disponibilità del Ministro, auspicando che il proficuo rapporto di collaborazione instaurato con il Governo e gli altri attori istituzionali possa continuare, nell’obiettivo comune di una sempre più efficace azione di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali.

2.5. Il ruolo delle regioni e delle province autonome. I comitati regionali di coordinamento
Nel paragrafo 2.2 si è sottolineato il ruolo centrale che il testo unico ha affidato alle regioni e alle province autonome in materia di programmazione, coordinamento e controllo delle attività di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali a livello territoriale, nonché l’importanza dei comitati regionali di coordinamento nei quali dovrebbero esercitarsi tali funzioni.
Occorre anzitutto ricordare che la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, nell’attuale sistema istituzionale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), è materia di legislazione concorrente e, pertanto, la sua attuazione implica di per sé una costante cooperazione tra lo Stato da una parte e le regioni e province autonome dall’altra. Inoltre, la programmazione e la gestione dei vari interventi non può che essere affidata, concretamente, agli organismi che hanno competenza diretta sui singoli territori, siano essi enti locali o articolazioni decentrate di enti statali.
Sul tema della competenza legislativa è tuttora in corso un ampio dibattito, fra chi ritiene che essa dovrebbe essere ricondotta in via esclusiva allo Stato, per assicurare una effettiva uniformità di indirizzo, e chi invece sostiene l’opportunità che essa rimanga concorrente fra lo Stato e le regioni e le province autonome, per garantire una più efficace attuazione in ambito territoriale. Si tratta ovviamente di una questione complessa, che si iscrive nel più generale dibattito sulla ridefinizione dei rapporti e sulla ripartizione delle competenze tra lo Stato centrale e gli enti locali, intorno al quale esistono opinioni e sensibilità diverse.
Al di là di questi profili, quello che conta però è che la legislazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro sia applicata in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, proprio per evitare che, a fronte della suddetta competenza legislativa concorrente, si possano un giorno determinare pericolose asimmetrie tra una regione e l’altra in una materia così delicata.
In termini giuridico-formali, la possibilità esiste: l’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede infatti che le disposizioni del decreto stesso concernenti ambiti di competenza delle regioni e delle province autonome siano applicate «nell’esercizio del potere sostitutivo dello Stato e con carattere di cedevolezza», ovvero fino all’eventuale approvazione di una normativa propria da parte delle regioni e delle province autonome. Di conseguenza, se una regione volesse emanare una normativa in deroga alle previsioni del testo unico potrebbe farlo, a meno che non vada ad incidere sui livelli essenziali delle prestazioni.
Finora le regioni e le province autonome hanno avuto un approccio molto attento a questo riguardo, evitando di emanare disposizioni o di adottare interpretazioni che fossero anche solo parzialmente in contrasto con la normativa nazionale. Per assicurare la tenuta del sistema, resta comunque essenziale il dialogo e la collaborazione costante tra gli apparati centrali e locali dello Stato, attraverso l’articolata rete di istituti che il legislatore ha creato a tal fine e che è opportuno richiamare.
A livello centrale, operano anzitutto il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale dell’attività di vigilanza previsto dall’articolo 5 del testo unico, cui spetta di elaborare e valutare le politiche nazionali in materia si salute e sicurezza sul lavoro, di programmare i relativi interventi e di assicurare il coordinamento tra gli enti che si occupano della vigilanza, nonché la Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro prevista dall’articolo 6 del testo unico, che ha una serie di compiti legati all’elaborazione, alla valutazione e al miglioramento della normativa, delle procedure e delle buone prassi nonché alla programmazione delle attività di prevenzione e promozione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. L’aspetto che qui interessa sottolineare è che in entrambi gli organismi è prevista un’ampia rappresentanza delle regioni e delle province autonome, accanto a quella delle amministrazioni centrali dello Stato e delle parti sociali. In tal modo, gli enti territoriali partecipano da subito all’elaborazione e alla definizione delle linee guida in tema di salute e sicurezza sul lavoro.
Per poter garantire il recepimento e la concreta attuazione nelle diverse regioni del Paese, il legislatore ha opportunamente individuato un’apposita sede istituzionale anche in ambito territoriale, ossia i comitati regionali di coordinamento, disciplinati dall’articolo 7 del decreto legislativo n. 81 del 2008. Secondo tale norma, la loro finalità è quella di realizzare una programmazione coordinata di interventi, nonché una uniformità degli stessi ed il necessario raccordo con il Comitato di cui all’articolo 5 e con la Commissione di cui all’articolo 6 del citato decreto legislativo n. 81 del 2008. La loro funzione primaria è dunque proprio quella di garantire il collegamento tra il livello decisionale centrale e quello locale nelle politiche della salute e della sicurezza del lavoro, in ossequio al principio di sussidiarietà e di leale collaborazione tra le istituzioni che deriva dalla potestà legislativa concorrente in questa materia.
L’altra funzione, strettamente connessa, è quella di assicurare il coordinamento nella programmazione delle azioni e l’uniformità delle stesse su tutto il territorio nazionale. Come si è più volte segnalato nelle precedenti relazioni intermedie, infatti, l’attività di prevenzione e contrasto a favore della sicurezza sul lavoro rischia spesso di essere rallentata e a volte addirittura vanificata dalla sovrapposizione e duplicazione degli interventi da parte dei numerosi enti pubblici competenti, specialmente per quanto riguarda i controlli ispettivi. Le ragioni sono note: frammentazione e incertezza delle competenze, differenti approcci culturali e organizzativi, resistenze di carattere burocratico, scarso dialogo tra le varie amministrazioni.
La normativa introdotta dal testo unico ha fatto chiarezza in questo campo e ridefinito in maniera più precisa compiti e funzioni dei diversi organismi, puntando a rafforzare il raccordo e la sinergia tra gli stessi: nella maggior parte dei casi questi cambiamenti (che sono prima di tutto culturali) sono stati pienamente recepiti e talvolta addirittura anticipati, grazie all’attenzione e alla solerzia dei funzionari preposti. In taluni casi, invece, permangono lentezze e difficoltà: le amministrazioni non collaborano come dovrebbero e i risultati dell’attività complessiva ne risentono.
Uno dei profili più sensibili riguarda i controlli ispettivi: se questi mancano o sono troppo sporadici, rischia di venire meno l’efficacia delle norme poste a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Ma conseguenze altrettanto negative si creano se la medesima azienda è controllata in più occasioni da enti diversi, che magari adottano anche procedure amministrative o interpretazioni giuridiche difformi tra loro. Si tratta purtroppo di eventualità non infrequenti, che da un lato accrescono la confusione e la sfiducia degli operatori, traducendosi anche in ulteriori costi per le aziende, dall’altro riducono l’efficacia stessa dell’azione di vigilanza.
Purtroppo, malgrado alcuni innegabili progressi, su questo fronte restano ancora molte difficoltà, specie nel rapporto tra enti ispettivi statali e regionali. Alla fine di dicembre 2011, la Commissione ha interpellato in proposito la Direzione generale per l’attività ispettiva del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, per avere notizie circa la situazione del coordinamento delle attività di vigilanza, anche ai fini dell’adozione di procedure uniformi e di un verbale unico ispettivo per la contestazione degli illeciti amministrativi. La Direzione generale ha risposto confermando le difficoltà di realizzare un coordinamento sinergico tra lo Stato e le Regioni, sia riguardo all’adozione di procedure e strumenti uniformi per i controlli ispettivi, sia in termini più generali per la programmazione delle attività di prevenzione. Il problema principale segnalato dal Ministero sta nell’impossibilità di individuare, all’interno del sistema regionale, un referente unico dotato di potere decisionale in materia di salute e sicurezza sul lavoro, dovendo ogni atto di rilevanza esterna (tra cui i rapporti con le amministrazioni statali) passare per la Conferenza dei Presidenti delle regioni e delle province autonome, il che allunga inevitabilmente i tempi.
Per superare tali difficoltà e cercare di condividere tra Stato e regioni circolari interpretative e operative, modelli unificati e altri aspetti, si è deciso allora di utilizzare come sede di confronto – sia pure impropriamente dato il diverso ruolo che esso assume nel sistema istituzionale delineato dal decreto legislativo n. 81 del 2008 – il già citato Comitato di cui all’articolo 5 dello stesso decreto. L’auspicio è che tale scelta possa rafforzare la cooperazione e il raccordo tra gli enti: oltre a evitare duplicazioni e sovrapposizioni (nell’attività di vigilanza e non solo), ciò servirebbe anche a mettere in comune le risorse di personale, ovviando almeno in parte alla cronica insufficienza degli organici che affligge le amministrazioni pubbliche, specie in questa fase di sofferenza della finanza pubblica.
In ambito locale, il coordinamento tra gli organismi che si occupano di salute e sicurezza sul lavoro, siano essi articolazioni decentrate di enti statali o enti locali in senso stretto, è invece affidato alle regioni e alle province autonome, attraverso lo strumento dei comitati regionali di coordinamento.
Come già ricordato, i comitati sono disciplinati dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 dicembre 2007. Essi sono presieduti dal Presidente della giunta regionale (o provinciale nel caso di Trento e Bolzano) ovvero da un assessore da lui delegato, di solito quello della salute o del lavoro, con la partecipazione degli assessori preposti alle funzioni correlate. Dei comitati fanno poi parte, secondo un elenco molto dettagliato4, i rappresentanti delle amministrazioni statali e locali compenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro che operano sul territorio e i rappresentanti delle parti sociali (quattro per i datori di lavoro e quattro per i lavoratori) designati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello regionale. I comitati si riuniscono almeno ogni tre mesi e svolgono funzioni di programmazione e di indirizzo delle attività di prevenzione e vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, nel rispetto delle indicazioni e dei criteri formulati a livello nazionale e al fine di individuare i settori e le priorità di intervento. Essi quindi assicurano il necessario raccordo tra il livello decisionale centrale e quello locale e il coordinamento sul territorio degli interventi dei diversi enti preposti.
Un’altra funzione essenziale affidata ai comitati regionali è quella di organizzare e coordinare le attività di vigilanza. A tal fine, all’interno di ogni comitato è prevista l’attivazione di un ufficio operativo composto da rappresentanti degli organi di vigilanza che pianifica il coordinamento delle rispettive attività, individuando le priorità a livello territoriale e stilando appositi piani operativi, nei quali sono definiti gli obiettivi specifici, gli ambiti territoriali, i settori produttivi, i tempi, i mezzi e le risorse ordinarie «che sono rese sinergicamente disponibili da parte dei vari soggetti pubblici interessati». Per migliorare ulteriormente l’efficacia delle azioni di prevenzione e di vigilanza, si prevede inoltre che, «in specifici contesti produttivi e in situazioni eccezionali», si possano costituire speciali gruppi di lavoro tra i vari enti competenti.
Aspetto importante, sul quale si tornerà più avanti, è infine la previsione che i piani operativi delle attività di vigilanza siano attuati da organismi provinciali composti dai servizi interessati (Servizi di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro delle ASL, Direzione provinciale del lavoro, INAIL, ex ISPESL, INPS e Comando provinciale Vigili del fuoco).
I comitati regionali di coordinamento provvedono a monitorare le attività di vigilanza svolte dalle sezioni permanenti per verificare il raggiungimento degli obiettivi, dando comunicazione annuale dei risultati di tale monitoraggio ai Ministeri della salute e del lavoro e delle politiche sociali.
Ai comitati regionali di coordinamento sono comunque affidati compiti più ampi di monitoraggio e raccolta dati in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in attesa del completamento del Sistema informativo nazionale per la prevenzione.
Infine, nel caso di mancata costituzione, ripetuta mancata convocazione del comitato regionale ovvero inadempimento da parte delle amministrazioni o degli enti pubblici che ne fanno parte, la legge prevede l’esercizio di poteri sostitutivi da parte dello Stato, al fine di assicurare i necessari adempimenti.
Dopo aver richiamato le funzioni e l’organizzazione dei comitati regionali di coordinamento, si comprende dunque come il legislatore si sia sforzato di comporre un sistema articolato e completo che, pur nel rispetto delle competenze e delle specificità di ognuno, fosse però in grado di agevolare concretamente, a livello territoriale, il coordinamento e la collaborazione tra i diversi attori della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro pubblici e privati, centrali e periferici. In tale ambito, il comitato regionale di coordinamento appare come uno strumento in grado di favorire il dialogo e la sinergia tra le varie amministrazioni pubbliche competenti e, in modo particolare, tra quelle statali e regionali, soddisfacendo le esigenze esposte in precedenza.
Il successo di questo istituto richiede però che, nelle diverse regioni e Province autonome, sia attuato in modo completo e che, soprattutto, funzioni regolarmente. In altre parole, esso deve rivestire un ruolo sostanziale e non meramente burocratico, altrimenti rischia di trasformarsi nell’ennesima superfetazione amministrativa che rallenta e complica l’attività istituzionale anziché agevolarla. Come si è accennato in precedenza, in questo terzo anno di attività la Commissione ha avviato uno specifico approfondimento per verificare il modo in cui le varie Regioni stanno organizzando il sistema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro nei loro territori, sistema di cui i comitati regionali di coordinamento dovrebbero appunto costituire il fulcro. Dei risultati di tale approfondimento si darà conto nel paragrafo seguente.

2.6. La costruzione dei sistemi di tutela della salute e sicurezza sul lavoro nelle diverse regioni italiane
L’attività di verifica della Commissione riguardo all’attuazione della disciplina sulla salute e sicurezza sul lavoro a livello regionale si è mossa lungo due percorsi paralleli: da una parte la Commissione ha aperto un confronto sul tema con i rappresentanti della Conferenza delle regioni e delle province autonome, dall’altra ha iniziato un ciclo di missioni nelle varie regioni, per acquisire informazioni direttamente dai soggetti che operano sul territorio.
Il primo incontro con i rappresentanti della Conferenza delle regioni e delle province autonome si è svolto il 25 maggio 2011, con l’audizione degli esperti del Coordinamento tecnico interregionale prevenzione, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro. Il Coordinamento tecnico interregionale è attivato attualmente presso l’Assessorato alla salute della regione Veneto, in quanto la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha delegato a quest’ultima il compito di raccordare le iniziative svolte dalle regioni e dalle province autonome in materia di tutela e sicurezza nei luoghi di lavoro. L’audizione, promossa dal gruppo di lavoro sulla prevenzione e sulla formazione coordinato dalla senatrice Bugnano, aveva una duplice finalità: da un lato verificare le iniziative a favore della prevenzione e della formazione messe in campo dalle regioni italiane, dall’altro avere notizie sul completamento del processo di attuazione del testo unico.
Il responsabile del Coordinamento, dottor Luciano Marchiori, ha anzitutto ricordato che l’attività di prevenzione negli ambienti di lavoro è pianificata dalle Regioni sulla base del Patto per la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro del 2007, adottato nella Conferenza Stato-Regioni. Il Patto impegna le ASL a coprire nella loro attività di vigilanza almeno il 5 per cento delle unità produttive locali del territorio; impegna altresì il sistema delle regioni a sviluppare sistemi di sorveglianza epidemiologica sugli infortuni e sulle malattie professionali nonché alla predisposizione di piani mirati di intervento nei comparti a maggior rischio, in particolare edilizia e agricoltura.
Un altro riferimento strategico è il piano nazionale di prevenzione 2010-2012 basato sull’intesa Stato-Regioni del 29 aprile 2010. Il piano impegna le regioni a destinare, nel periodo 2010-2012, 200 milioni di euro a favore delle attività di prevenzione, intese in senso generale e non solo con riferimento alla salute e alla sicurezza negli ambienti di lavoro.
Per questo specifico aspetto, il piano nazionale di prevenzione (in base al quale nel dicembre 2010 tutte le regioni e province autonome hanno elaborato i loro piani di prevenzione e formazione) ha fissato come obiettivi principali la riduzione degli infortuni gravi e invalidanti e delle malattie professionali e lo sviluppo dei sistemi informativi. Per questi obiettivi si è definita una strategia che prevede il potenziamento dell’attività dei comitati regionali di coordinamento, lo sviluppo dei piani nazionali di prevenzione in edilizia e in agricoltura (i settori con il maggior rischio di infortuni), nonché azioni di contrasto agli infortuni gravi e mortali.
Lo sviluppo delle attività di prevenzione in edilizia e agricoltura si è tradotto in un incremento delle attività di vigilanza: il piano dell’edilizia, ad esempio, impegna le regioni a controllare annualmente 50.000 cantieri, di cui almeno il 20 per cento in maniera congiunta con i servizi ispettivi delle direzioni provinciali del lavoro, per garantire una maggiore omogeneità a livello nazionale. Al momento dell’audizione, non erano ancora disponibili i dati consuntivi del 2010, che sono stati successivamente trasmessi alla Commissione d’inchiesta dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome alla fine di novembre 2011 in un’apposita relazione, intitolata appunto «Attività delle regioni per la prevenzione nei luoghi di lavoro e per il contrasto agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali. Anno 2010».
Integrando quindi le indicazioni fornite dai tecnici del Coordinamento interregionale con questi ultimi dati, risulta che nel 2010 le aziende ispezionate dai Servizi regionali sono state 162.525 (rispetto alle 120.196 nel 2007); i cantieri ispezionati sono stati 53.165 (41.457 nel 2007); le inchieste concluse sugli infortuni sono state 16.337 (21.573 nel 2007), mentre quelle concluse sulle malattie professionali 8.863 (8.603 nel 2007); infine, le aziende o i cantieri controllati con indagini di igiene industriale sono stati 3.519 (3.552 nel 2007). Poiché il Patto per la salute del 2007 impegna le Regioni a controllare annualmente almeno 150.000 unità locali con un dipendente e 50.000 cantieri edili (valori assunti come livello essenziale di assistenza per valutare la tutela della salute in ambito lavorativo da parte delle regioni), si può dire che nel 2010 questi obiettivi sono stati raggiunti.
È da sottolineare la percentuale di cantieri ispezionati su quelli notificati: nel 2010 è stato controllato il 17 per cento circa dei cantieri notificati a rischio (18 per cento nel 2010), a riprova dell’importanza del sistema delle notifiche. Tale flusso informativo permette infatti alle ASL di pianificare il controllo del territorio rispetto all’edilizia, considerando che, mediamente, il 40 per cento di questi cantieri presenta problemi di irregolarità rispetto alla normativa per la sicurezza sul lavoro, un dato che si è ormai standardizzato negli anni e che è indicativo del problema.
Anche i controlli in agricoltura sono aumentati negli ultimi anni. In particolare, dal 2007 al 2010 si è registrato un aumento di oltre 2.200 unità, passando da 3.701 a 5.980 aziende. Se si guarda alla distribuzione per regioni, emerge chiaramente come quelle a maggiore densità abitativa sviluppano solitamente un livello di controllo maggiore. Aver individuato una priorità in agricoltura e averla sancita nel Patto sottoscritto nel 2007 sta dunque portando un forte miglioramento nei controlli in questo ambito produttivo, anche se si è ancora lontani dall’obiettivo nazionale di 10.000 aziende ispezionate all’anno proposto dal gruppo di lavoro in agricoltura.
Nel periodo 2007-2010, le inchieste sugli infortuni concluse a livello nazionale sono state mediamente circa 20.000 all’anno; variazione che deriva probabilmente anche da una variazione del fenomeno infortunistico nel suo complesso. Nel 2010, sono state rilevate violazioni di legge nel 32 per cento delle inchieste effettuate.
Sempre nel periodo 2007-2010, le malattie professionali indagate annualmente dal sistema sono state, in media, intorno a 10.000: un terzo di quelle denunciate all’INAIL. Si riconferma dunque, anche sotto questo aspetto, la necessità di una maggiore attenzione al fenomeno, mediante un approfondimento dei profili di responsabilità e del nesso di causalità.
Nel 2010, mediamente, il 12 per cento delle malattie professionali indagate ha portato ad un riscontro di violazione della normativa di sicurezza o igiene del lavoro.
In conclusione, nel periodo 2007-2010, l’attività di vigilanza ha visto un incremento dei controlli del 35 per cento per le unità locali, del 28 per cento per i cantieri, del 62 per cento per le aziende agricole e una crescita del 3 per cento delle risorse impiegate. Resta ancora una certa disomogeneità tra le varie regioni, anche se i dati indicano un riallineamento tra le regioni per quanto riguarda l’attività di controllo, per cui le regioni che erano in maggiore ritardo lo hanno ridotto mentre, viceversa, quelle che avevano un’attività molto intensa l’hanno un po’ diminuita, probabilmente alla ricerca di un miglioramento del livello qualitativo rispetto alla quantità degli interventi posti in essere. Se gli obiettivi in generale appaiono raggiunti, restano però alcune criticità nell’integrazione dei controlli tra aziende sanitarie locali e direzioni provinciali del lavoro. L’obiettivo annuale del 20 per cento di controlli congiunti sembra in molti casi «eccessivo», nel senso che il suo raggiungimento richiederebbe un impegno di risorse da parte delle amministrazioni coinvolte maggiore di quello attuale.
Infine, il dottor Marchiori si è soffermato sull’attività di formazione e assistenza, che rappresenta l’altro aspetto del lavoro dei Servizi di prevenzione.
Accanto ai corsi di formazione straordinaria finanziata ex articolo 11, comma 7, del decreto legislativo 81 del 2008 per lavoratori, datori di lavoro di comparti a rischio, insegnanti e studenti, vi è da segnalare soprattutto l’attività di formazione cosiddetta «partecipata», quella erogata da parte delle ASL, in collaborazione con le parti sociali e gli organismi paritetici, secondo piani e progetti regionali. Rifacendosi anche in questo caso ai dati più recenti forniti dall’ultima relazione del novembre 2011, risulta che nel 2010, complessivamente, i Servizi delle ASL hanno erogato 40.229 ore di formazione, coinvolgendo 88.571 persone. Rispetto al 2007 vi è stato quindi un significativo aumento, tanto nel monte ore complessivamente erogato (+24,9 per cento) quanto nel numero delle persone coinvolte nei diversi percorsi di formazione (+12,1 per cento), entrambi fattori indicativi del radicamento territoriale del Servizio sanitario nazionale. Accanto a queste attività, va poi ricordato che i Servizi di prevenzione svolgono anche azioni di controllo sull’idoneità e qualità della formazione erogata da altri soggetti formatori garantendo l’appropriatezza dei programmi rispetto alle disposizioni legislative in materia di formazione dei lavoratori.
Se il dato fornito testimonia dunque un crescente impegno delle regioni anche sul fronte della formazione, il dottor Marchiori ha però avvertito che il dato stesso deve essere valutato in modo critico, in quanto, a differenza delle attività di vigilanza, manca ancora una statistica completa e articolata delle altre attività di prevenzione svolte all’interno delle regioni, in particolare la formazione, l’informazione e l’assistenza, nonché la produzione di materiali informativi. Per rafforzare questi interventi, nel futuro si dovrà allora allargare la capacità di monitoraggio e di valutazione dei prodotti erogati dal sistema di prevenzione nei luoghi di lavoro, anche nell’ottica del più volte citato Sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP) di cui all’articolo 8 del decreto legislativo n. 81 del 2008, che dovrebbe aiutare anche le Regioni a meglio valutare e programmare le proprie azioni.
Nel tracciare una valutazione complessiva sulle attività di prevenzione svolte dalle regioni e dalle province autonome, i rappresentanti del Coordinamento interregionale hanno messo in luce come la scelta strategica di definire delle priorità a livello nazionale assegnando obiettivi precisi a tutto il sistema delle regioni abbia certamente avuto effetti positivi sia in termini di risultati che di partecipazione, coinvolgendo anche attori esterni quali le forze sociali (organizzazioni sindacali e datoriali).
In termini di efficienza l’aumento medio misurato nell’ultimo triennio, senza un aumento delle risorse del sistema, è stato del 30 per cento. Il problema delle risorse deve però essere valutato da regione a regione, dato che vi è una grossa differenza di investimento su questo tema: alcune regioni investono il doppio rispetto ad altre, però indicare obiettivi e priorità di interventi permette a tutti di raggiungere uno standard che è il livello essenziale di assistenza.
Ad esempio, il dottor Fabio Menin, della direzione formazione della regione Veneto, ha illustrato, come esempio di eccellenza in questo settore, l’esperienza della campagna straordinaria di formazione portata avanti dalla sua regione nel periodo settembre 2010 - dicembre 2011 a favore delle piccole e medie imprese locali. Sono stati avviati 49 progetti, per un totale di circa 1.300 interventi, dei quali circa la metà già realizzati.
Purtroppo però non tutte le regioni riescono, per motivi finanziari od organizzativi, a fare altrettanto e le differenze tra i vari territori possono essere anche molto sensibili. In ogni caso, si pone l’esigenza di sviluppare un sistema di monitoraggio dell’attività di formazione svolta sia dagli enti accreditati dalle regioni, che da quelli accreditati ope legis (enti bilaterali ed organizzazioni datoriali), proprio per misurare in modo più preciso i risultati e facilitare i confronti tra le diverse Regioni.
Un aspetto critico segnalato dal dottor Marchiori è stato poi quello del sistema di monitoraggio e di sistema di sorveglianza epidemiologica sviluppato negli ultimi anni in collaborazione con l’ex ISPESL. Con l’accorpamento dell’ISPESL all’INAIL questa attività dovrebbe essere «formalizzata» per raccordare in maniera sistematica questo supporto tecnologico ed informatico con il sistema delle regioni. Se infatti quest’ultimo ha il vantaggio di essere capillarmente diffuso sul territorio e di avere un rapporto privilegiato con i lavoratori e i datori di lavoro, proprio l’ampio decentramento ne riduce la capacità di coordinamento e l’efficacia, per cui i tempi si allungano.
Infine, i rappresentanti del Coordinamento interregionale hanno richiamato l’opportunità di avere strumenti che valorizzino maggiormente la formazione del lavoratore, come ad esempio il libretto formativo individuale.
Questo strumento consentirebbe al lavoratore di spendere meglio il proprio percorso formativo nell’ambito di un rapporto contrattuale, mentre da parte sua il datore di lavoro, nel momento in cui assume un lavoratore, sarebbe immediatamente in grado di valutare quali sono le sue capacità.
Si tratta quindi di uno strumento che avrebbe un notevole valore anche dal punto di vista del miglioramento dell’efficacia del sistema e del quale non a caso le organizzazioni sindacali e datoriali invocano da tempo la realizzazione.
L’altro tema dell’audizione riguardava lo stato di avanzamento del processo di attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008 nelle varie regioni e province autonome. Tralasciando quindi le attività a competenza congiunta con le istituzioni centrali dello Stato e le parti sociali (sulla cui situazione si è già riferito nel paragrafo 2.3) e soffermandosi sulle attività di stretta competenza regionale, i rappresentanti del Coordinamento hanno confermato sostanzialmente come gli adempimenti previsti siano ormai stati in gran parte completati. In particolare, per quanto riguarda i comitati regionali di coordinamento, essi sono stati regolarmente costituiti da tutte le regioni e le province autonome. Purtroppo, nella realtà non in tutti i casi l’istituzione formale corrisponde a un effettivo funzionamento di questi organismi, con tutti i problemi connessi.
Tale situazione ha indotto la Commissione a instaurare un confronto diretto con gli assessori alla salute delle regioni e delle province autonome, in qualità di principali responsabili dei sistemi territoriali di tutela della salute e sicurezza sul lavoro. L’audizione, fortemente voluta dalla Commissione, si è svolta il 27 luglio 2011 e ha consentito di fare il punto della situazione, nell’auspicio di contribuire a rilanciare l’azione dei comitati, in virtù del loro ruolo fondamentale di raccordo tra gli organismi centrali e periferici preposti alla prevenzione e al contrasto degli infortuni e delle malattie professionali. Al momento dell’audizione, la Commissione aveva già svolto una serie di missioni sul territorio (in Toscana, Trentino- Alto Adige, Campania, Puglia e Sardegna), specificamente dirette a verificare lo stato dell’arte, e i primi riscontri avevano appunto evidenziato un quadro molto variegato: mentre alcune regioni sono molto avanti nel processo, altre accusano ancora ritardi, anche se, in generale, vi è ormai una maggiore consapevolezza e attenzione sui temi della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro.
Questi aspetti sono emersi chiaramente nell’audizione con gli assessori alla salute, ciascuno dei quali ha anzitutto illustrato l’esperienza della propria Regione. Così l’assessore alla salute della regione Liguria, dottor Claudio Montaldo, ha descritto una situazione molto positiva in quella Regione, dove il comitato regionale di coordinamento opera regolarmente fin dal 2008, con una forte collaborazione sia tra gli enti istituzionali che tra i rappresentanti delle parti sociali. Analogamente è stato attivato anche l’ufficio operativo del comitato, che riunisce per legge gli enti ispettivi. Per quanto riguarda le azioni di prevenzione, queste si sono concentrate sul problema dell’incidentalità e quindi sui settori con il più alto tasso di infortuni, con particolare riguardo all’edilizia e alle attività portuali, che nella regione Liguria rivestono particolare importanza e che, negli anni passati, hanno visto purtroppo anche molti incidenti mortali.
In particolare, nel caso delle attività portuali il comitato regionale di coordinamento si è indirizzato soprattutto verso la prevenzione dei rischi legati alle cadute dall’alto e all’uso dei mezzi di movimentazione merci, mentre nel caso dell’edilizia si sono attivati specifici progetti di formazione, anche in collaborazione con l’INAIL. In generale, grande attenzione è stata posta nella nomina dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, nonché nella formazione, sia verso i lavoratori che verso gli studenti delle scuole. Su questo fronte, in particolare, è stata avviata un’azione molto intensa, che negli ultimi tre anni ha coinvolto 1.500 insegnanti e 22.000 studenti della scuola primaria e secondaria, attraverso varie campagne di informazione e di comunicazione. Altre iniziative hanno visto la realizzazione di piani integrati di intervento in specifici settori, mentre un’attenzione speciale è stata dedicata al fenomeno delle malattie professionali, specie quelle da amianto, che sono legate alle attività portuali.
Il dottor Montaldo ha infine richiamato il problema della carenza di risorse adeguate per le attività di prevenzione, soprattutto per quanto riguarda il personale sanitario, sempre più ridotto per il blocco del turn over imposto al servizio sanitario nazionale. In proposito si è auspicata quindi una specifica attenzione del Parlamento, per non vanificare l’importante lavoro fin qui fatto.
È quindi intervenuto il dottor Luca Coletto, che ha portato la sua esperienza come assessore alla salute della regione Veneto e come coordinatore della Commissione salute della Conferenza delle regioni e delle province autonome. Nel Veneto l’attività di prevenzione e controllo è da ritenersi positiva, e supera del 5 per cento i livelli previsti dalla norma.
La Regione inoltre ha registrato negli ultimi anni un calo degli infortuni sul lavoro del 13,2 per cento, a fronte di un aumento del numero degli iscritti INAIL del 18 per cento, il che rappresenta dunque un buon risultato, cui si affianca la forte emersione dei casi di malattie professionali, dovuta anche ai lunghi periodi di latenza delle stesse. Ha infine sottolineato l’importanza della già citata formazione nelle scuole e delle attività di prevenzione, che però devono essere supportate da adeguate risorse e considerate non come costi ma come investimenti.
La Commissione ha convenuto sull’importanza della diffusione della cultura della sicurezza nelle scuole, tema sul quale si è impegnata direttamente.
In proposito, è stata richiamata la specifica intesa tra il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e l’INAIL che ha dato origine alla cosiddetta «cabina di regia»: tra le iniziative più recenti, è stato ricordato il concorso per finanziare progetti di formazione sulla sicurezza sul lavoro nelle scuole, che ha visto la partecipazione di oltre 800.000 studenti in tutta Italia e di cui si è già detto nel paragrafo 2.4. Alcune regioni sono state però meno attive di altre, per cui la Commissione ha auspicato in futuro una maggiore sinergia tra gli Assessorati alla salute e quelli all’istruzione, al fine di consentire una più ampia partecipazione di tutte le regioni a questi progetti.
La dottoressa Mariella Zezza, assessore al lavoro e formazione della regione Lazio, ha illustrato l’impegno della regione Lazio sul fronte della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, citando l’esempio virtuoso dell’azienda Viscolube in provincia di Frosinone, dove da sette anni non si verificano incidenti sul lavoro, grazie alle rigorose procedure adottate e all’intensa attività di formazione: ben 3.000 ore all’anno, di cui oltre la metà dedicate proprio alla sicurezza sul lavoro.
Sulla scorta di tali positivi risultati, la dottoressa Zezza ha confermato la volontà della regione Lazio di diffondere tali prassi anche in altre aziende, attraverso specifiche azioni di prevenzione, finanziate con il recente assestamento di bilancio. Tra le altre, sono state avviate campagne di formazione per i lavoratori (ad esempio per quelli stranieri, con specifiche traduzioni nelle lingue d’origine) e azioni di comunicazione per gli studenti delle scuole. Un’attenzione specifica sulla sicurezza del lavoro è stata posta nel settore edile, anche in previsione degli sviluppi legati al nuovo piano regionale della casa (che secondo le previsioni dovrebbe dare lavoro a oltre 21.000 persone). Infine, particolarmente interessanti sono state le misure di sostegno all’occupazione dei lavoratori in mobilità e in cassa integrazione, finalizzate a prevenire il rischio del lavoro sommerso e che hanno favorito l’assunzione di 1.400 lavoratori.
Per quanto riguarda il comitato regionale di coordinamento, l’assessore Zezza ha confermato che esso è pienamente operativo e svolge varie attività di prevenzione, cui sono dedicati fondi specifici: in particolare, sono state segnalate le iniziative a favore dell’emersione delle malattie professionali e della prevenzione dello stress lavoro-correlato, tema molto sentito in una regione come il Lazio la cui economia è fortemente incentrata sui servizi e sulle attività amministrative. Infine, è stata richiamata l’importanza di campagne di sensibilizzazione mirate sui temi della sicurezza, che potrebbero essere ospitate negli appositi spazi istituzionali dei mezzi di comunicazione.
Il dottor Luciano Bresciani, assessore alla sanità della regione Lombardia, ha esposto le attività svolte in materia di prevenzione e contrasto degli infortuni sul lavoro attraverso il comitato regionale di coordinamento, che opera attivamente e che ha concentrato le azioni sul fronte della comunicazione, dei controlli e del coinvolgimento delle imprese, fissando una serie di obiettivi e di parametri di valutazione. Attraverso i Piani di prevenzione 2008-2010 e 2011-2013, nel periodo 2008-2011 si è avuto un significativo calo degli incidenti (dal 33 al 28 per cento) e delle morti (-37,5 per cento), specie in agricoltura e in misura maggiore nell’industria, mentre vi è un livello costante nell’edilizia. Questo resta infatti il settore più critico, a causa soprattutto della presenza di un alto numero di operatori extracomunitari, non preparati e non formati, che stanno arrivando in queste aree di lavoro e che sono maggiormente esposti ai rischi in assenza di una adeguata formazione. Per tale ragione occorrerebbe coinvolgere maggiormente i datori di lavoro.
Se dunque il trend degli incidenti in Lombardia è complessivamente in diminuzione, i numeri assoluti restano però alti, in ragione dell’elevato numero di ore lavorate della Regione: i risultati sono quindi soddisfacenti ma non ancora sufficienti, per cui sono previsti obiettivi di ulteriore calo degli incidenti e di emersione delle malattie professionali.
Il dottor Carlo Lusenti, assessore alle politiche per la salute della regione Emilia-Romagna, ha confermato che anche nella sua Regione le azioni di prevenzione hanno prodotto un calo significativo degli incidenti sul lavoro. Si è poi soffermato sul legame tra la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e il rispetto della legalità, ad esempio nel settore dei subappalti, uno di quelli dove i lavoratori sono meno tutelati e più esposti al rischio. Un altro tema è quello della qualità e stabilità dei rapporti di lavoro, poiché qualsiasi attività di formazione e prevenzione è indebolita dalla precarietà del lavoro, che a sua volta si lega strettamente al problema dell’integrazione e dell’accoglienza dei lavoratori stranieri. Infine è stata ricordata l’esperienza virtuosa, già nota alla Commissione5, della collaborazione avviata tra la regione Emilia-Romagna e l’Università di Bologna istituendo un centro di ricerche specificamente dedicato al rapporto tra salute e condizioni di lavoro.
Il dottor Lusenti ha quindi richiamato il dibattito sull’eventuale trasferimento delle competenze di tutela della salute e sicurezza sul lavoro dalle regioni al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ossia allo Stato centrale. In proposito egli, a nome della sua Regione, si è dichiarato nettamente contrario, osservando che queste funzioni rientrano in quelle più generali di tutela della salute dei cittadini affidate alle Regioni, che possono quindi svolgerle in modo più efficace, mentre allo Stato spetta una diversa competenza, quella di vigilare sul rispetto delle norme e sulla regolarità dei rapporti di lavoro.
Al riguardo, la Commissione ha sottolineato come il problema non sia quello della competenza legislativa in tema di sicurezza e salute sul lavoro, essendo ormai assai difficile immaginare un ritorno al passato, per riattribuire la competenza esclusiva allo Stato centrale. Occorre invece garantire una legislazione omogenea su tutto il territorio nazionale, evitando che in tema di sicurezza sul lavoro vi siano differenze normative o interpretative tra le Regioni, da cui potrebbero derivare diverse condizioni non tanto in campo sanitario, quanto nella gestione dei rapporti economici e lavorativi. È quindi essenziale assicurare un effettivo coordinamento a livello nazionale, per prevenire possibili discrasie. La Commissione ha insistito fortemente su questo punto, auspicando una collaborazione sempre più stretta tra istituzioni centrali e locali, che ha trovato peraltro la piena condivisione da parte degli assessori presenti all’audizione.
Le due audizioni testé richiamate del 25 maggio e del 27 luglio 2011 sono dunque servite a fornire un quadro più ampio sull’attività delle regioni e delle province autonome a favore della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nel contesto della nuova disciplina dettata dal testo unico e della riorganizzazione dei servizi che questa comporta. Al tempo stesso, l’avvio di un confronto diretto tra la Commissione e i responsabili delle politiche di settore (ossia gli assessori regionali alla salute) potrà certamente contribuire a una maggiore sinergia fra tutte le istituzioni su un tema così complesso.
L’altro percorso di approfondimento e di confronto avviato dalla Commissione riguarda i sopralluoghi intrapresi nelle varie realtà territoriali italiane, che hanno toccato finora otto regioni: Toscana, Trentino-Alto Adige, Campania, Puglia, Sardegna, Basilicata, Valle d’Aosta e Marche.
Rinviando al successivo capitolo 4 per il resoconto dettagliato di ciascuna missione, è opportuno in questa sede svolgere alcune considerazioni di carattere generale sui risultati emersi dall’indagine. Pur essendo infatti questa ancora in corso, è comunque già possibile trarre alcune indicazioni, necessariamente parziali, ma non per questo meno significative.
Il primo aspetto – confermato in parte anche dalle due audizioni del Coordinamento tecnico interregionale e degli assessori regionali alla salute – è che sussistono ancora molte, troppe differenze organizzative e procedurali tra le varie regioni nel processo di attuazione del testo unico, che rischiano di compromettere l’efficacia delle azioni di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali.
Questa eccessiva frammentazione e diversificazione riguarda in primo luogo proprio i comitati regionali di coordinamento. Anche se ormai istituiti in tutte le regioni, questi organismi incontrano a volte ancora difficoltà nella loro attività. Anzitutto, le regioni hanno spesso adottato soluzioni diverse in merito alla disciplina dell’organizzazione e al funzionamento.
Pur trattandosi di materia di dettaglio la cui regolazione è rimessa all’autonomia regionale, sarebbe però essenziale, su questo e su altri aspetti, che vi fosse una impostazione omogenea. Accade invece, ad esempio, che in alcuni casi le riunioni avvengano con una cadenza più lunga di quella trimestrale prevista dalla legge: pur essendo il termine in questione ordinamentale e non tassativo, è però vero che l’allungamento potrebbe rallentare l’azione del comitato. Ancora, specie in alcune regioni ad autonomia speciale, può succedere che la composizione dei comitati sia più ampia rispetto a quella indicata dalla norma, con il rischio di creare un organo eccessivamente pletorico e meno efficiente.
Più in generale, in alcune delle regioni visitate si è riscontrata ancora una certa «fatica» nell’instaurare un pieno coordinamento e una più ampia sinergia tra i diversi soggetti istituzionali preposti alla salute e alla sicurezza sul lavoro. Si tratta di ritardi legati in parte a motivi organizzativi, in parte anche a elementi culturali: va detto comunque che vi è ormai una consapevolezza sempre più diffusa dei problemi e che, sia pure in modo diversificato nelle varie realtà locali, si sta concretamente cercando di superarli, anche sulla spinta delle direttive che arrivano dallo Stato centrale e che non a caso enfatizzano molto questo aspetto.
In molte circostanze, poi, la Commissione ha riscontrato che l’attività dei comitati regionali di coordinamento coesiste con quella di altri organismi, che riuniscono una parte più o meno ampia dei soggetti che compongono i comitati regionali e svolgono funzioni simili. Si tratta spesso di organismi istituiti prima delle riforma del testo unico, che svolgono un ruolo anche importante, ma che in assenza di un disegno più organico e coordinato rischiano di tradursi in una sovrapposizione e duplicazione dei comitati regionali di coordinamento, indebolendone l’azione complessiva.
In proposito, occorre ricordare che, già prima dell’istituzione dei comitati regionali di coordinamento, in molte regioni erano stati attivati dei comitati provinciali, presieduti dai prefetti nella loro qualità di commissari del Governo, che riunivano i vari soggetti istituzionali e sociali competenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro (comprese le forze dell’ordine) allo scopo di programmare e coordinare gli interventi sul territorio. In molti casi, queste iniziative hanno conseguito risultati di grande importanza, favorendo una collaborazione effettiva tra le amministrazioni competenti e una maggiore attenzione alla sicurezza sul lavoro, che si sono poi tradotte in una migliore azione di prevenzione, specie sul fronte delle attività di vigilanza, e in un calo significativo degli infortuni a livello locale.
Un aspetto critico di questi organismi era però il fatto di essere troppo legati all’iniziativa e alle capacità organizzative delle singole Prefetture, creando situazioni spesso disomogenee anche all’interno della stessa regione. Con l’avvento dei comitati regionali di coordinamento, i comitati provinciali hanno assunto un ruolo più sfumato, con esiti piuttosto diversificati a seconda delle situazioni: in alcune Province i comitati sono sopravvissuti e continuano ad operare in modo attivo, in altre hanno invece ridotto la loro attività. In entrambi i casi, tuttavia, non esiste un raccordo formale con i comitati regionali di coordinamento, perché in effetti la legge non lo prevede e perché diverse sono le competenze delle autorità prefettizie e regionali.
D’altro canto, i comitati prefettizi, a differenza dei comitati regionali, sono in genere integrati anche dalle forze dell’ordine (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza) e questo consente una migliore programmazione dei controlli ispettivi. Contemporaneamente, come si è accennato in precedenza, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 dicembre 2007, che disciplina il funzionamento dei comitati regionali di coordinamento, dispone espressamente che le attività di vigilanza pianificate dai comitati attraverso gli uffici operativi siano attuate da organismi provinciali composti dai servizi interessati (tra i quali non rientrano, ovviamente, le forze dell’ordine). Potrebbe quindi senz’altro essere utile un raccordo diretto tra queste strutture in ambito provinciale, per garantire una più efficace attività di controllo. In genere, questa esigenza viene soddisfatta attraverso protocolli d’intesa stipulati ad hoc in sede prefettizia tra i soggetti istituzionali interessati, ma manca una cornice giuridica formale che sarebbe forse opportuno prevedere.
Un altro punto critico nell’attuale funzionamento dei comitati regionali di coordinamento rilevato dalla Commissione sia durante le audizioni in Senato che nei sopralluoghi presso le regioni, è il fatto che, contrariamente a quanto prevede la norma, finora quasi nessuna regione ha trasmesso la relazione annuale sul monitoraggio delle attività di vigilanza ai Ministeri del lavoro e della salute. Si tratta di un adempimento importante, sulla cui necessità la Commissione d’inchiesta, nei vari incontri, ha insistito con forza, ricordando che le relazioni dovrebbero fornire agli organismi di programmazione nazionale (Commissione consultiva permanente e Comitato nazionale di coordinamento) un riscontro diretto sui risultati, a livello locale, delle politiche decise in ambito centrale, rafforzando così il collegamento tra i due livelli decisionali.
D’altra parte, proprio i rappresentanti di alcune regioni, nel corso dei sopralluoghi sul territorio, hanno evidenziato come le norme non definiscano esattamente il contenuto di questo tipo di relazione: il rischio che è stato segnalato alla Commissione è che le varie amministrazioni regionali, all’atto di stilare la relazione, adottino modelli diversi, il che, oltre ad accrescere la confusione in una materia così delicata, renderebbe poi anche difficile fare confronti omogenei sui risultati ottenuti, indebolendo il valore delle stesse informazioni. Per questo, si è indicato da parte degli stessi rappresentanti regionali l’opportunità di definire, a livello nazionale, un «formato» comune e standardizzato per la relazione ai ministeri, che possa aiutare ad adempiere meglio a questa disposizione.
Conclusivamente, dalle prime verifiche sulla costruzione dei sistemi regionali di tutela della salute e sicurezza sul lavoro emerge un quadro piuttosto variegato. Rispetto al passato, la situazione è certamente migliorata: come già accennato, la scelta strategica di definire delle priorità a livello nazionale assegnando obiettivi precisi a tutto il sistema delle regioni sulla base del «Patto per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro» del 1º agosto 2007, ha avuto effetti largamente positivi, consentendo fin da quell’anno alle regioni, nel loro complesso, di garantire a livello nazionale la copertura dei livelli essenziali di assistenza (LEA), tra i quali l’obiettivo del controllo del 5 per cento delle aziende con almeno un dipendente o assimilato. In quella stessa logica si sono elaborati i Piani regionali di prevenzione 2010-2012 che, seguendo gli indirizzi del Piano nazionale di prevenzione e tenendo conto dei dati raccolti a livello locale, danno priorità agli interventi dotati di maggiore efficacia e rivolti alle situazioni di maggior rischio.
Ciononostante, permangono ancora molte difficoltà nel coordinamento tra i diversi attori del sistema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sia nel rapporto tra gli organi centrali e periferici a livello nazionale, sia in quello tra gli organi periferici di ciascuna regione. In questo contesto, diventa cruciale il ruolo dei comitati regionali di coordinamento, che dovrebbero costituire appunto la «cabina di regia» del sistema a livello territoriale. La relazione della Conferenza delle regioni e delle province autonome sull’attività di prevenzione 2010 sottolinea che i comitati sono costituiti e operanti in tutte le regioni e ne ribadisce il ruolo centrale.
Tuttavia, come si è spiegato in precedenza, le verifiche condotte dalla Commissione hanno evidenziato che la situazione è più complessa e che i comitati regionali non riescono sempre a funzionare in maniera ottimale, nel senso che non vengono convocati regolarmente o che non svolgono tutti i compiti loro assegnati. Senza ripetere le considerazioni già svolte, in molti casi c’è ancora bisogno di mettere a punto una serie di meccanismi, per garantire la piena efficacia del sistema territoriale di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali, che risulta altrimenti indebolita o addirittura annullata.
Naturalmente, non si può generalizzare: in molte regioni i comitati funzionano bene e stanno ottenendo significativi risultati. Il punto però è che su questo, come su altri aspetti, si registrano ancora troppe differenze e asimmetrie tra le varie regioni, nonostante gli sforzi fatti per superarle.
Ad esempio, in questi anni si è cercato di lavorare molto sulla formazione degli operatori delle ASL, mediante corsi gestiti a livello centralizzato, per garantire la massima omogeneità di intervento su tutto il territorio nazionale. Ciononostante, come la stessa Commissione d’inchiesta ha potuto rilevare, il livello delle attività e spesso anche l’approccio non è sempre uniforme: un caso tipico è quello dell’attività di vigilanza, in cui non solo il numero dei controlli, ma anche le forme di svolgimento degli stessi possono variare, in particolare per quanto riguarda il livello di coordinamento che si riesce a instaurare tra i diversi enti e corpi ispettivi. Su questo punto, del resto, si è già riferita nel precedente paragrafo 2.5 la risposta fornita alla Commissione dalla Direzione generale per l’attività ispettiva del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che ha purtroppo confermato il persistere di difficoltà e ritardi nel coordinamento tra Stato e regioni sia sul fronte delle attività ispettive che su quello più generale della attività di prevenzione.
La stessa relazione della Conferenza delle regioni e delle province autonome evidenzia come la costituzione dei comitati regionali di coordinamento sia avvenuta in momenti diversi nelle varie regioni (in tre, Calabria, Campania e Sardegna, addirittura solo nel 2011). Questi ritardi sono dovuti a cause diverse, ma hanno creato difficoltà operative e rallentato l’azione complessiva di prevenzione. In altri casi, lo svolgimento delle elezioni in alcune regioni durante il 2010 ha ugualmente rallentato l’azione dei comitati di coordinamento, dovendosi attendere la ricostituzione degli organi regionali politici e amministrativi e il conferimento delle necessarie deleghe per poter reinsediare i comitati. Un altro dato che emerge dalla relazione è poi il fatto che nelle varie regioni i comitati si sono riuniti con una frequenza molto diversa tra loro.
A parte i fattori legati al diverso tessuto economico-sociale dei vari territori italiani, un aspetto che incide profondamente sul divario dei sistemi di prevenzione regionale è il diverso ammontare di risorse che le singole regioni sono in grado di mettere in campo. Si tratta però di un divario non facile da ridurre, anche per le possibilità sempre più limitate di incrementare le risorse disponibili per la prevenzione, in un periodo di crisi economica come quello che caratterizza questi anni e quelli a venire.
La sfida è quindi anche quella di un ulteriore sforzo di razionalizzazione delle risorse, senza compromettere la qualità delle prestazioni, agendo sugli obiettivi (aziende o situazioni a maggior rischio) e sui metodi di intervento (abbandono delle pratiche poco efficaci o che interessano un target limitato). In questo contesto diventa allora essenziale recuperare in pieno il ruolo dei comitati regionali di coordinamento, superando i ritardi e le resistenze di carattere organizzativo e burocratico, per realizzare un effettivo raccordo, in ambito territoriale, tra gli enti del sistema regionale della prevenzione afferenti ai comitati e, in ambito nazionale, tra lo Stato e le regioni stesse. Lo scopo è quello di garantire finalmente, a tutti i livelli, una vera sinergia e integrazione dei programmi e delle azioni di vigilanza e di promozione della salute e sicurezza sul lavoro.
La Commissione è attivamente impegnata su questo fronte, attraverso un dialogo costante con tutti i soggetti competenti nazionali e regionali e un confronto diretto con le singole realtà territoriali, sia al fine di ottenere un quadro conoscitivo completo della situazione, sia al fine di contribuire, per quanto di sua competenza, alla realizzazione di un efficace sistema di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

2.7. Il quadro statistico degli infortuni e delle malattie professionali
A conclusione di questa seconda sezione, è opportuno fornire alcuni dati sull’andamento degli infortuni e delle malattie professionali nel corso dell’ultimo anno, utilizzando i dati ufficiali contenuti nel Rapporto annuale INAIL 2010 presentato il 5 luglio 2011. Contemporaneamente, si daranno anche alcune indicazioni di massima sull’andamento dei primi nove mesi del 2011, sulla base dei dati provvisori diffusi dall’INAIL in data 13 dicembre 2011. È bene sottolineare che i dati per il 2010 sono consolidati e definitivi e possono quindi consentire una serie di valutazioni più precise.
Viceversa, i dati per il 2011 sono, oltre che riferiti solo a una parte dell’anno, ancora provvisori e suscettibili di successivi controlli e revisioni, fino al consolidamento che avverrà, per l’intero 2011, a metà dell’anno successivo. Essi, di conseguenza, devono essere considerati con cautela, ai fini delle valutazioni sull’andamento del fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali nell’ultimo anno.

2.7.1. I dati definitivi del 2010
I dati INAIL mostrano per il 2010 un andamento degli infortuni sul lavoro ancora in diminuzione dopo il forte calo registrato nell’anno precedente.
Con 775.000 denunce pervenute – 15.000 in meno rispetto al 2009 – si è avuta una diminuzione (sia pure più contenuta) dell’1,9 per cento degli infortuni. Da segnalare è anche il risultato sul versante degli incidenti mortali che, per la prima volta nella storia della Repubblica, scendono sotto la soglia simbolica dei mille casi, passando dai 1.053 del 2009 ai 9736 del 2010, con una riduzione del 7,6 per cento.
Dopo la forte riduzione del 2009 – quando gli infortuni, anche per effetto della grave crisi occupazionale, erano scesi del 9,7 per cento rispetto al 2008, la diminuzione più alta dell’ultimo quindicennio –, si temeva infatti che si potesse creare una sorta di «effetto-rimbalzo», con una ripresa del fenomeno infortunistico e un suo riallineamento ai livelli più consolidati degli anni precedenti. Così non è stato e la diminuzione degli infortuni nel 2010, dell’1,9 per cento pur in un perdurante clima di incertezza economica, rappresenta pertanto un risultato importante, anche se, come testimoniano i dati provvisori per i primi nove mesi del 2011 del successivo paragrafo, purtroppo i numeri assoluti degli incidenti e dei casi mortali restano ancora molto, troppo elevati per un Paese avanzato come l’Italia e impongono un ulteriore sforzo sul fronte della prevenzione e del contrasto.
Nel dettaglio, gli infortuni in itinere sono scesi del 4,7 per cento (dai 93.037 casi del 2009 agli 88.629 del 2010), mentre quelli in occasione di lavoro dell’1,5 per cento (da 697.075 a 686.745). Tra questi ultimi, da segnalare l’impennata degli infortuni occorsi ai lavoratori che operano sulla strada (autotrasportatori merci, autotrasportatori di persone, rappresentanti di commercio, addetti alla manutenzione stradale, ecc.), passati dai 50.969 casi del 2009 ai 53.679 del 2010 (+5,3 per cento): il valore più alto dal 2005, primo anno di rilevazione strutturale e completa del dato. Per quanto riguarda i casi mortali, scendono del 10,9 per cento le morti in itinere (da 274 a 244) e del 5,5 per cento quelle in occasione di lavoro (da 779 a 736). Tra questi, in calo anche i decessi per circolazione stradale in ambito lavorativo (-3,9 per cento): da 308 a 296.
Un discorso importante riguarda naturalmente l’impatto dell’occupazione sul fenomeno infortunistico. Nel 2010, rispetto al 2009, gli effetti della crisi hanno pesato meno sul piano dell’occupazione, soprattutto per quanto riguarda il monte ore lavorate: c’è stato, infatti, un ricorso minore alla cassa integrazione e al taglio degli orari. Questa situazione viene valutata attraverso le ULA, le unità di lavoro per anno equivalente, che elabora l’ISTAT e che per il 2010 fanno registrare un calo dello 0,7 per cento (nel 2009 era stato del 2,9 per cento). A fronte di questa situazione si può stimare che, a livello medio generale, nel 2010 la riduzione degli infortuni in termini reali – al netto quindi della componente del calo del lavoro – è di circa 1,2 per cento per gli infortuni e 6,2 per cento per i casi mortali.
Su questo punto è necessario però chiarire alcuni aspetti. Il dato elaborato dall’ISTAT riguarda gli occupati nel complesso: si tratta cioè delle persone che prestano la propria attività lavorativa e che, anche se temporaneamente non al lavoro, mantengono un legame formale con la loro posizione lavorativa, come i lavoratori in «cassa integrazione guadagni» (CIG). Per la definizione stessa di occupati, quindi, il loro numero non subisce riduzioni per prestazioni lavorative a tempo ridotto. Poiché dunque il numero sugli occupati incorpora anche lavoratori temporaneamente assenti dal lavoro, esso potrebbe non offrire un’indicazione chiara dell’eventuale effetto che l’andamento occupazionale ha su quello degli infortuni sul lavoro.
Per tali ragioni, al fine di poter valutare in maniera più corretta se e in che misura l’evoluzione del quadro occupazionale possa aver influito sulla riduzione degli incidenti sul lavoro nell’ultimo anno, la Commissione ha chiesto uno specifico approfondimento all’INAIL, con particolare riferimento ai dati sul numero delle ore effettivamente lavorate, che consentono di avere una visione più chiara del fenomeno.
L’INAIL, con il consueto spirito di collaborazione, ha quindi svolto tale analisi, dalla quale è emerso che nell’anno 2010 il monte ore lavorate relativo ai lavoratori dipendenti, secondo l’ISTAT, è diminuito dello 0,9 per cento rispetto al 2009. In particolare il decremento è stato del 2,5 per cento per l’industria (di cui -2,6 per cento è da attribuire al settore delle costruzioni) e dello 0,4 per cento per i servizi, mentre si è avuto addirittura un aumento del 3,0 per cento in agricoltura. Dalle statistiche congiunturali sull’occupazione e sui redditi dell’ISTAT si desumono poi i dati relativi alla cassa integrazione guadagni effettivamente «utilizzate» dalle imprese con almeno 10 dipendenti. Il numero di ore di CIG per mille ore lavorate è in diminuzione: si passa infatti da 39,8 nel 2009 a 32,8 nel 2010. Tale dato risulta evidente anche dai comunicati stampa e dal Rapporto annuale dell’INPS, che confermano come il numero di ore di CIG autorizzate ed effettivamente utilizzate siano in diminuzione: nel 2009 erano state autorizzate più di 914 milioni di ore ed utilizzate quasi 600 milioni (con un «tiraggio» pari al 65,4 per cento), nel 2010 di 1,2 miliardi autorizzate se ne sono utilizzate 580 milioni («tiraggio» pari al 48,2 per cento). In definitiva, quindi, anche l’andamento del monte ore lavorate conferma le stime precedenti sull’impatto del calo occupazionale sulla riduzione degli infortuni.
Un altro aspetto che incide sulla completezza delle statistiche sugli infortuni sul lavoro è quello degli incidenti occorsi ai cosiddetti lavoratori «in nero». Poiché tali eventi naturalmente non sono denunciati, l’INAIL ha fatto una stima basandosi sui lavoratori irregolari rilevati dall’ISTAT.
Considerando che, secondo l’Istituto di statistica, i lavoratori non coperti da assicurazione sono quasi tre milioni, si può stimare che siano circa 165.000 gli infortuni che sfuggono alle rilevazioni ufficiali, ossia circa il 20 per cento degli incidenti totali.
In un’ottica di genere, il calo infortunistico nel 2010 riguarda esclusivamente gli uomini: -2,9 per cento rispetto al 2009 per gli infortuni in complesso e -8,2 per cento per i casi mortali. Crescono lievemente invece gli infortuni per le donne: un migliaio in più quelli in complesso (+0,4 per cento rispetto al 2009) e 7 in più quelli mortali (da 72 a 79), tenendo conto che metà dei decessi femminili è avvenuto in itinere. I dati sono coerenti con l’andamento dell’occupazione, scesa rispetto all’anno precedente per i maschi (-1,1 per cento) e rimasta stabile per le donne. Occorre comunque precisare che, poiché le donne rappresentano circa il 40 per cento degli occupati e la quota di infortuni femminili rispetto al totale è del 32 per cento e dell’8 per cento per i casi mortali, l’incidenza del rischio nel lavoro femminile è in media più bassa.
Relativamente ai settori di attività, nel 2010 quelli che hanno beneficiato di più del calo infortunistico sono l’agricoltura – che ha registrato un calo del 4,8 per cento degli incidenti e del 10,2 per cento dei casi mortali – e l’industria (rispettivamente -4,7 per cento e -10 per cento). Il ramo dei servizi, invece, ha fatto registrare una sostanziale stabilità degli infortuni (+0,4 per cento) e un calo modesto del 3 per cento degli incidenti mortali.
Per una valutazione più completa di questi dati, è opportuno ricordare che nello stesso periodo l’ISTAT ha rilevato una diminuzione degli occupati nell’industria del 3,0 per cento e, viceversa, una leggera ripresa nei servizi (+0,2 per cento) e un significativo aumento dell’1,9 per cento in agricoltura.
Più in dettaglio, tra le attività industriali – le più colpite dalla crisi economica – le costruzioni registrano la diminuzione più elevata (-12,4 per cento) a fronte di una lieve contrazione dell’occupazione (-0,7 per cento). Riduzioni più contenute si hanno per la metallurgia (-3,6 per cento) e la meccanica (-3,3 per cento), tenendo però conto che nel 2009 questi settori avevano visto cali addirittura del 25-30 per cento. Nei servizi la mancata diminuzione degli infortuni è da ascrivere praticamente a tre settori, che confermano purtroppo il trend crescente degli ultimi anni: i servizi domestici (colf e badanti, +25,6 per cento), l’istruzione (+17,7 per cento) e, più consistenti in termini assoluti (quasi 1.500 casi in più rispetto al 2009), gli altri servizi pubblici quali smaltimento rifiuti e lavanderie (+4,0) per cento. Il primo di tali settori occupa una elevata quota di lavoratori stranieri, che sono infatti i più colpiti dagli incidenti (3 su 4).
Altri settori rilevanti dei servizi sono i trasporti e comunicazioni e il commercio, dove gli infortuni scendono rispettivamente del 4,6 per cento e del 4,3 per cento.
Per quanto riguarda i casi mortali, nel 2010 sono scesi in tutti i rami di attività: agricoltura (-10,2 per cento), industria (-9,7 per cento) e servizi (-3,0 per cento). Particolarmente elevato il calo nella metallurgia (- 37,8 per cento, 28 decessi in meno) e nel commercio (-26,3 per cento, 26 in meno), più contenuto nelle costruzioni (-6,1 per cento, 14 in meno). In aumento viceversa le vittime occupate nei trasporti e comunicazioni (+9,8 per cento, 12 in più rispetto al 2009).
Per i lavoratori immigrati, pur in presenza di un lieve calo degli assicurati, l’andamento infortunistico nel 2010 fa registrare un leggero incremento (+900 casi, pari al +0,8 per cento). Per i casi mortali, invece, la diminuzione in termini percentuali si attesta al -4 per cento. Le comunità più interessate continuano a essere la Romania, il Marocco e l’Albania che da sole rappresentano il 40 per cento di tutti gli infortuni agli stranieri e il 50 per cento dei casi mortali.
Passando a un’analisi di tipo territoriale, il calo registrato a livello nazionale (-1,9 per cento tra il 2009 e il 2010) ha interessato tutte le aree del Paese, in maniera crescente dal Nord al Sud (dal -1,3 per cento del Nord-Ovest al -3,2 per cento del Mezzogiorno, passando per il -1,6 per cento del Nord-Est e il -1,8 per cento del Centro), l’area meridionale essendo più penalizzata delle altre dal calo occupazionale (-1,4 per cento contro il -0,7 per cento nazionale).
A livello regionale, praticamente quasi tutte le regioni vedono una contrazione degli incidenti con i risultati più significativi in Piemonte (- 3,6 per cento), Veneto (-2,5 per cento) e Campania (-6,5 per cento).
Nel Nord continua a concentrarsi il 60 per cento degli infortuni, trattandosi d’altronde del territorio a maggiore densità occupazionale (52 per cento degli occupati nazionali nel 2010). Le regioni con più denunce di infortunio si confermano Lombardia (133.000), Emilia-Romagna (106.000) e Veneto (87.000): tre regioni che concentrano da sole il 42 per cento dell’intero fenomeno. La diminuzione del 7,6 per cento delle morti sul lavoro è la risultante del forte calo al Nord-Ovest (15,2 per cento, 41 vittime in meno), al Centro (-9,5 per cento) che recupera così sul sensibile aumento fatto registrare lo scorso anno, al Mezzogiorno (- 5,5 per cento) e, infine, dell’aumento pari al 3,7 per cento (8 decessi in più) del Nord-Est.
Per quanto riguarda gli infortuni occorsi a lavoratori stranieri, il 2010 è stato un anno peggiore del precedente in termini di infortuni sul lavoro.
A fronte di una diminuzione complessiva del numero di assicurati presso l’INAIL (-1,6 per cento, da 2.713.740 a 2.669.808), si è passati infatti dai 119.240 infortuni del 2009 ai 120.135 del 2010, con un incremento dello 0,25 per cento. Migliore la situazione per i casi mortali, che sono ancora diminuiti passando dai 144 del 2009 ai 138 del 2010.
Gli infortuni degli stranieri rappresentano il 15,5 per cento degli infortuni complessivi, quelli dei soli extracomunitari, invece, l’11,5 per cento; se si considerano i casi mortali le percentuali sono rispettivamente del 14,1 per cento e dell’8,6 per cento.
Con riferimento alla gestione assicurativa, nel 2010 il 94,4 per cento degli infortuni degli stranieri si sono verificati nell’industria e servizi (+0,7 per cento rispetto al 2009), il 4,9 per cento in agricoltura (+2,8 per cento rispetto al 2009) e lo 0,7 per cento tra i dipendenti conto Stato (-4,8 per cento rispetto al 2009). Il settore più colpito è quello delle costruzioni, che con poco più di 15.000 infortuni copre il 12,5 per cento delle denunce. A seguire, i trasporti (7,8 per cento) e i servizi alle imprese (7,7 per cento) che inglobano anche le attività di pulizia nelle quali è elevata la concentrazione di lavoratori stranieri.
Per quanto riguarda i casi mortali, il triste primato spetta alle costruzioni dove nel 2010, pur in forte diminuzione rispetto al 2009, si sono avuti comunque 32 decessi, a fronte dei 22 in agricoltura e dei 21 nei trasporti.
L’incidenza infortunistica, espressa dal rapporto tra infortuni denunciati e lavoratori assicurati all’INAIL, risulta più elevata per gli stranieri rispetto a quella degli italiani, rispettivamente 45 casi denunciati ogni 1.000 occupati contro 39,2. A determinare queste differenze concorre senz’altro l’occupazione prevalente degli immigrati in settori particolarmente rischiosi nei quali l’attività manuale è prevalente (edilizia, industria pesante, agricoltura), i turni di lavoro sono più lunghi e spesso la formazione professionale non è adeguata. Da sottolineare il caso del comparto relativo al personale domestico, intendendo con questo colf e badanti, nel quale 77 infortuni su 100 riguardano proprio lavoratori immigrati, in prevalenza donne.
Rispetto al genere, per gli stranieri il sesso maschile prevale nettamente su quello femminile quanto a numero di infortuni, infatti la quota raggiunge il 75 per cento delle denunce e l’88 per cento dei casi mortali (per il complesso dei lavoratori le percentuali sono rispettivamente pari al 68 per cento e 92 per cento).
Romania, Marocco e Albania nell’ordine sono le comunità che ogni anno denunciano il maggior numero di infortuni sul lavoro: circa il 40 per cento del totale. Se si considerano, poi, i casi mortali la percentuale arriva al 48 per cento, in calo rispetto al 2009 quando superava il 50 per cento.
A livello territoriale, il 42,9 per cento degli infortuni ai lavoratori stranieri avviene nel Nord-Est e ben il 75 per cento al Nord. Il Mezzogiorno fa registrare il 7,2 per cento delle denunce in complesso ed il 18,1 per cento degli eventi mortali. La maggior parte delle denunce si concentrano nelle regioni a maggior densità occupazionale, ossia Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto che insieme totalizzano il 55,3 per cento delle denunce e il 41,3 per cento dei decessi.
Per quanto riguarda le malattie professionali, anche nel 2010 si è avuto un record delle denunce, superando il livello già assai elevato dell’anno precedente: si è infatti passati dai 34.750 casi del 2009 ai 42.350 del 2010, con un incremento del 22 per cento.
La crescita del fenomeno, osservata già da alcuni anni, si è fatta nell’ultimo biennio particolarmente alta, ma si tratta in realtà di un fatto positivo.
Da sempre l’INAIL, le parti sociali e i medici del lavoro consideravano quello delle malattie professionali un fenomeno sottostimato, una parte rilevante del quale non riusciva a emergere, dando luogo alle cosiddette malattie «nascoste» o «perdute». Ciò per una serie di motivi, tra cui i lunghi periodi di latenza di molte patologie, le difficoltà nell’individuazione e nell’accertamento del nesso causale ma, soprattutto, un significativo fenomeno di «sottodenuncia» da parte degli interessati.
Il notevole aumento degli ultimi anni si può quindi ricondurre senz’altro ad una più matura consapevolezza raggiunta da lavoratori e datori di lavoro. Hanno certamente contribuito in tal senso le numerose iniziative di formazione/informazione intraprese dai medici INAIL e le attività di istituzioni e organizzazioni interessate al fenomeno come enti di ricerca (ex ISPESL), parti sociali, medici di famiglia, patronati, ecc.
Un altro fattore che ha concorso all’incremento delle denunce è stata l’entrata in vigore delle nuove «tabelle» delle malattie professionali. Alcune malattie prima erano «non tabellate», cioè non erano riconosciute direttamente e richiedevano l’onere della prova per il lavoratore che doveva dimostrarne l’origine professionale. L’aggiornamento dell’elenco delle tecnopatie con il decreto ministeriale del 9 aprile 2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 169 del 21 luglio 2008, ha invece introdotto la presunzione legale d’origine per molte patologie, in particolare per le malattie muscolo-scheletriche causate da sovraccarico biomeccanico (ormai anche in Italia come in Europa la prima causa di malattia professionale). Lo status di «tabellate», agevolando il riconoscimento sul piano probatorio, ha quindi favorito un ricorso più massiccio allo strumento assicurativo.
Le nuove tabelle hanno inoltre consentito l’emersione di una serie di patologie meno note o sottovalutate in passato nonché, in alcuni casi, la denuncia di più malattie insistenti su un unico lavoratore e connesse alla sua mansione. Al riguardo, negli ultimi due anni si è assistito ad un notevole aumento di queste denunce «plurime» con un rilevante effetto sul conteggio complessivo dei casi. Ad esempio, nel 2010 sono stati circa 34.000 i lavoratori che hanno presentato denuncia all’INAIL e, delle oltre 42.000 denunce, un quarto sono plurime.
L’analisi per gestione evidenzia come anche nel 2010 in agricoltura l’aumento del fenomeno delle malattie professionali sia stato molto più sostenuto che nelle altre gestioni, con un incremento del 63 per cento (6.380 denunce, 2.500 in più del 2009). Da segnalare anche la particolare incidenza delle denunce plurime, che in questo comparto arriva addirittura al 38 per cento. Per quanto riguarda l’industria e servizi, l’aumento è stato del 17 per cento (35.548 denunce, 5.000 casi in più del 2009), mentre nei dipendenti conto Stato del 13 per cento (419 denunce, 47 in più).
Tra le tecnopatie, anche nel 2010 le più numerose sono state le malattie osteo-articolari e muscolo-tendinee, dovute prevalentemente a sovraccarico biomeccanico: da sole, con quasi 26.000 denunce nel 2010, rappresentano circa il 60 per cento del totale. Le affezioni dei dischi intervertebrali (oltre 9.000 denunce) e tendiniti (più di 8.000) sono invece le patologie più frequenti: più che raddoppiate negli ultimi cinque anni.
Tuttora molto diffuse si confermano le ipoacusie da rumore: quasi 6.300 denunce nel 2010 (circa 600 casi in più rispetto all’anno precedente).
Un cenno particolare meritano le patologie da amianto, passate a 2.300 denunce nel 2010, con una crescita del 7 per cento rispetto al 2009. Si conferma così il trend crescente degli ultimi anni, causato anche dai lunghi periodi di latenza pari, come nel caso del mesotelioma, anche a 40 anni col picco di manifestazione stimato intorno al 2025. Circa 300 infine i casi denunciati di silicosi nell’ultimo quinquennio, con una certa variabilità negli anni.
Più in generale, i tumori professionali restano la principale causa di morte per malattia tra i lavoratori. Le cifre rilevate dall’INAIL devono, purtroppo, considerarsi sottostimate: esiste infatti per queste patologie un fenomeno di sottodenuncia, a causa delle difficoltà di riscontro del nesso causale – il più delle volte di natura multifattoriale – e della ancora ridotta consapevolezza della possibile natura professionale di molti tumori.
I tumori denunciati (compresi quelli da asbesto) – per tutte le gestioni – continuano a superare i 2.000 casi l’anno, restando tra le patologie professionali più frequenti. Più della metà sono legati ai polmoni e alla pleura, con una certa rilevanza anche di quelli legati alla vescica (quasi 300 denunce l’anno).
Un ultimo accenno alle malattie professionali di natura psichica. I cambiamenti occorsi negli ultimi anni ai rapporti lavorativi, a causa anche del protrarsi della crisi economica e del fenomeno del precariato, hanno purtroppo contribuito a innescare in alcuni lavoratori malesseri e disagi psicologici, fino a sfociare, in alcuni casi, in vere e proprie malattie, definibili sinteticamente come disturbi psichici da stress lavoro-correlato.
Tale fenomeno ha trovato un importante riconoscimento normativo con la circolare del 18 novembre 2010 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che ha fornito le indicazioni metodologiche per la valutazione, da parte dei datori di lavoro, dello stress lavoro-correlato negli ambienti di lavoro (così come previsto dal testo unico).
Le denunce pervenute all’INAIL per tale patologia devono essere considerate, in una certa misura, sottostimate, sia per la difficoltà di distinguere, in fase di denuncia e prima codifica, lo specifico disturbo psichico, sia in base a confronti con i dati provenienti da altri organismi e osservatori.
In generale comunque i «disturbi psichici da stress lavoro-correlato», hanno registrato, nell’ultimo quinquennio, circa 500 denunce l’anno, con una diminuzione tendenziale nell’ultimo biennio. I casi denunciati si concentrano soprattutto nelle attività dei servizi, piuttosto che in quelle dell’industria, e tra i dipendenti dello Stato.
In linea con quanto osservato negli ultimi anni e con l’andamento del fenomeno in generale, il 2010 ha fatto registrare un aumento di denunce di malattia professionale anche tra i lavoratori stranieri. Si è passati dalle 2.068 denunce del 2009 alle 2.462 del 2010 con un incremento del 19 per cento; notevole è stato l’aumento di denunce in agricoltura, passate dai 58 casi del 2009 ai 111 del 2010 (+91,4 per cento).
Aumentano le malattie osteo-articolari e muscolo-tendinee, che rappresentano ormai quasi i due terzi del complesso delle denunce. Tornano a crescere anche le ipoacusie da rumore che dopo la frenata del 2009 (22008 casi) sono arrivate a quota 364 denunce. Continua il trend crescente dei tumori con 44 denunce.
I Paesi di provenienza dei tecnopatici sono principalmente Marocco (14,0 per cento), Romania (9,8 per cento) e Albania (9,6 per cento), gli stessi che detengono il primato per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro.
Come già ricordato nel paragrafo 2.4, la legge n. 122 del 2010 (che ha convertito il decreto-legge n. 78 del 2010) ha previsto tra l’altro l’incorporazione nell’INAIL dell’IPSEMA (Istituto di previdenza per il settore marittimo) che assicura i lavoratori del comparto marittimo. Nella fase di transizione che necessariamente accompagna il complesso lavoro di integrazione e armonizzazione delle attività, nonché degli apparati informatici, l’INAIL ha ritenuto di mantenere separate le informazioni raccolte nei diversi ambiti di competenza relativamente agli andamenti infortunistici.
Di conseguenza, per gli infortuni 2010, i dati finora esposti riguardano le sole gestioni tradizionali INAIL (agricoltura, industria e servizi, dipendenti conto Stato).
Per quanto attiene specificamente al fenomeno infortunistico del personale della navigazione marittima, in termini molto sintetici, tra il 2009 e il 2010 si è avuto un netto calo, in linea con i dati osservati per le altre categorie di lavoratori assicurati INAIL. Precisamente, gli infortuni nel complesso sono scesi da 1.293 a 1.268 (-1,9 per cento), mentre quelli mortali sono calati da 7 a 5.
Di questi infortuni, circa il 97 per cento è avvenuto in occasione di lavoro, ossia a bordo delle navi, mentre solo il rimanente 3 per cento in itinere. Gli incidenti a bordo delle navi sono scesi del 29 per cento, mentre quelli in itinere sono aumentati del 41 per cento, un valore elevato che però si ridimensiona quando si tiene conto del numero molto esiguo di casi.
La diminuzione degli infortuni del 2010 si accompagna ad un aumento del 2,7 per cento della massa retributiva accertata per l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali e quindi ad un livello di occupazione da ritenersi stabile.
Il dato conferma il trend decrescente registrato negli ultimi anni: tra il 2001 e il 2010, infatti, nel settore marittimo gli infortuni sono scesi da 1.693 a 1.268, ossia di circa un quarto.
Se si esamina la distribuzione degli incidenti per categoria di naviglio, la categoria passeggeri (trasporto persone) è quella nella quale si è contato il maggior numero di infortuni sul luogo di lavoro, con oltre la metà dei casi; la categoria passeggeri insieme alla categoria del carico (trasporto merci) e al settore pesca copre oltre l’86 per cento degli eventi avvenuti nel 2010. Il settore passeggeri è anche quello che ha registrato, tra il 2009 e il 2010, la diminuzione più significativa: -8,7 per cento, a fronte di un andamento dell’occupazione in lieve aumento (il complesso delle retribuzioni imponibili è salito del 6,6 per cento), segno che la riduzione degli incidenti non è riconducibile a una diminuzione dell’attività lavorativa e quindi dell’esposizione al rischio.
Dei 5 casi mortali accaduti nel 2010, 3 sono avvenuti a bordo e 2 in itinere. I 3 avvenuti a bordo appartengono tutti al settore della pesca, che conferma purtroppo ogni anno la sua rischiosità, soprattutto a causa dei naufragi che mettono a repentaglio la vita degli equipaggi. Nel periodo 2001-2010, infatti, dei circa 70 infortuni avvenuti in luogo di lavoro, quasi il 68 per cento si è registrato nel settore della pesca.
Infine, nel raffronto con l’Europa, in attesa dei dati EUROSTAT 2008, occorre ribadire come sulla base dei tassi d’incidenza standardizzati EUROSTAT l’Italia registri per il 2007 (ultimo anno reso disponibile) un indice infortunistico pari a 2.674 infortuni per 100.000 occupati: più favorevole, dunque, rispetto a quello medio riscontrato nelle due aree dell’Unione europea (3.279 per l’area euro e 2.859 per l’Unione europea a 15).
Nelle statistiche armonizzate l’Italia risulta in posizione migliore rispetto a Paesi come Spagna (4.691), Francia (3.975) e Germania (3.125).
Per quanto riguarda gli infortuni mortali7, nel 2007 si è registrata per l’intera UE, rispetto all’anno precedente, una diminuzione dei tassi d’incidenza da 2,4 a 2,1 decessi (sempre per 100.000 occupati), anche se tale valore è ancora provvisorio, poiché alcuni Paesi non hanno comunicato a EUROSTAT i dati riguardanti l’anno 2007. Anche l’indice dell’Italia ha registrato nel 2007 un calo da 2,9 a 2,5 decessi per 100.000 occupati, mantenendosi ancora al di sopra del valore medio UE. È possibile, tuttavia, anticipare che l’indice relativo all’anno 2008 per il nostro Paese è destinato a segnare una sensibile riduzione, in linea peraltro con il calo degli infortuni mortali registrato tra gli anni 2007-2008, e a posizionarsi, probabilmente, al di sotto della media UE.

2.7.2. I dati provvisori dei primi nove mesi del 2011
Il 13 dicembre 2011 l’INAIL ha diffuso i dati provvisori sull’andamento degli infortuni sul lavoro nel periodo gennaio-settembre 2011. La Commissione ha chiesto in merito alcuni approfondimenti e l’Istituto, con la consueta disponibilità e puntualità, ha fornito una dettagliata e articolata analisi, dalla quale è possibile evincere alcune importanti indicazioni.
Si tratta però, è bene ribadirlo, di valutazioni ancora del tutto provvisorie, essendo i dati ancora soggetti a revisione, in attesa del consolidamento definitivo che avverrà a metà del 2012.
In primo luogo, i dati dei primi nove mesi del 2011 segnano una riduzione nel numero complessivo degli infortuni di circa 26.000 casi (da 579.000 a 553.000) rispetto allo stesso periodo del 2010: si tratta di un calo pari al 4,5 per cento, sensibilmente superiore a quello, pari all’1,9 per cento, che si era registrato per l’intero anno precedente. Per quanto riguarda gli infortuni mortali, nei primi nove mesi si registra, invece, un decremento più contenuto pari allo 0,9 per cento (da 697 a 691 vittime); occorre però ricordare, come evidenziato nel paragrafo precedente, che il 2010 è stato un anno che ha fatto registrare un calo molto sostenuto rispetto agli anni precedenti scendendo, per la prima volta dal dopoguerra, sotto la soglia dei mille casi.
Anche in questo caso, come nel paragrafo precedente, il dato sul trend degli infortuni può essere confrontato con i dati ISTAT sull’andamento dell’occupazione, che nel confronto tra i primi nove mesi del 2009 e lo stesso periodo del 2010 registra un leggero aumento, sia rispetto al numero degli occupati (+0,4 per cento), sia rispetto al monte ore lavorate (+0,5 per cento). Anche il numero delle ore di cassa integrazione guadagni (CIG) è in diminuzione: si passa infatti da 33,6 ore per mille ore lavorate nei primi nove mesi del 2010, a 26 ore nei primi nove mesi del 2011. Questa tendenza al calo della CIG risulta evidente pure dai dati INPS, secondo i quali nei primi nove mesi del 2011 erano state autorizzate 732 milioni di ore, delle quali se ne sono utilizzate solo 337 milioni («tiraggio» 46,1 per cento), confermando così l’andamento decrescente già rilevato nel 2010 rispetto al 2009 e di cui si è detto nel paragrafo precedente.
Dal punto di vista settoriale, il calo tendenziale degli infortuni è comune a tutti i rami di attività, seppure in misura diversa. La diminuzione degli infortuni è più pronunciata nell’industria (-6,7 per cento) rispetto all’agricoltura (-4,9 per cento) e alle attività dei servizi (-3,1 per cento). Per quanto riguarda l’andamento occupazionale, l’ISTAT segnala un lieve aumento nel numero degli occupati distribuito fra tutti i comparti: agricoltura +0,2 per cento, industria +0,1 per cento e servizi +0,4 per cento. Viceversa, vi è un andamento differenziato per quanto riguarda il numero delle ore lavorate, che sono aumentate del 3,9 per cento in agricoltura e dello 0,7 per cento nei servizi, ma sono diminuite dello 0,3 per cento nell’industria.
Analizzando i principali settori di attività, nell’industria positivo è stato il dato infortunistico delle costruzioni (-9,8 per cento), sia pure condizionato dal calo dell’occupazione nel settore (-1,2 per cento come numero degli occupati e addirittura -7,0 per cento come monte ore lavorate); una riduzione degli infortuni si è riscontrata anche per gli altri due settori industriali notoriamente più a rischio, la metallurgia (-2,0 per cento) e la meccanica (-2,1 per cento). Nei servizi, si è avuto un calo significativo nei trasporti e comunicazioni (-6,1 per cento) e nel commercio (-5,6 per cento). Più limitata (-1,4 per cento) la diminuzione verificatasi nel settore dei servizi alle imprese (che comprende tra l’altro noleggio di macchinari, manutenzione e riparazione di macchine per ufficio, servizi di pulizia e disinfestazione industriale, ecc.).
Per quanto riguarda i casi mortali, a fronte di una contrazione nei servizi (-3,6 per cento) appare preoccupante l’aumento in agricoltura (+4,7 per cento), mentre sostanzialmente stabile è il dato nell’industria (+0,3 per cento). Tale ultimo dato è però la risultante di andamenti discordanti all’interno dei singoli settori di attività. Se per le costruzioni, il settore in assoluto più colpito dagli infortuni, si registra un sensibile calo delle vittime (-7,5 per cento, da 146 a 135), nell’industria manifatturiera si è verificato, viceversa, un aumento significativo dei decessi. Per tale comparto, i settori notoriamente più a rischio – industria metallurgica e meccanica – hanno registrato un aumento delle vittime sul lavoro (rispettivamente 3 e 4 in più), come pure l’industria chimica e quella della lavorazione dei minerali non metalliferi (vetro, ceramica, ecc.). Nei servizi, il calo dei decessi (11 casi in meno rispetto ai primi nove mesi del 2010) è dovuto prevalentemente al buon risultato del settore dei trasporti e comunicazioni (-18,6 per cento); vi sono poi 2 vittime in meno nel commercio, mentre il settore dei servizi alle imprese registra 4 decessi in più (da 40 a 44).
A livello territoriale, il calo degli infortuni complessivi risulta generalizzato. Precisamente, nel Nord vi è una riduzione del 3,8 per cento, nel Centro del 4,9 per cento e nel Mezzogiorno del 6,4 per cento: tali dati devono essere raffrontati con l’andamento occupazionale (misurato come numero di occupati), che ha segnato un aumento più sostenuto nel Mezzogiorno (+1,2 per cento) e uno più contenuto nel Nord (+0,3 per cento), registrando invece un calo nel Centro (-0,3 per cento). La lieve crescita indicata per il Sud si può attribuire per lo più all’occupazione femminile precedentemente penalizzata nel Meridione, oltre che ad un effetto di tipo statistico. Infatti, la variazione positiva deriva dal confronto con un periodo (primi nove mesi 2010) in pieno clima di crisi, in cui l’occupazione del Sud era diminuita rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente dell’1,9 per cento, contro un decremento nazionale pari a 0,9. Per i casi mortali, il Mezzogiorno registra ugualmente una contrazione molto alta (33 decessi in meno, -13,9 per cento), mentre preoccupante è l’aumento nel Nord e nel Centro (+6,6 per cento e +4,3 per cento rispettivamente).
Per quanto riguarda la distribuzione per dimensione aziendale degli infortuni sul lavoro avvenuti nel corso del 2011, l’INAIL ha precisato che per le aziende assicurate nel 2011 tale informazione sarà tecnicamente disponibile – per la prima volta per le nuove aziende, aggiornata per quelle già esistenti – negli archivi informatici dell’Istituto solo dopo il procedimento di «autoliquidazione», che prevede per il datore di lavoro la dichiarazione e la trasmissione delle retribuzioni effettivamente erogate in ciascun anno entro il 16 febbraio dell’anno successivo (16 marzo se la comunicazione avviene per via telematica). Comunque la distribuzione degli infortuni per dimensione aziendale è ormai abbastanza consolidata negli anni: pertanto, in base all’osservazione dell’ultimo triennio (2008- 2010) nell’ambito della gestione industria e servizi, si rileva che oltre il 40 per cento degli infortuni sul lavoro denunciati ha colpito i lavoratori autonomi e le imprese fino a 15 addetti, il 32 per cento le aziende con 16-250 addetti e il 28 per cento le grandi imprese. In pratica, quasi 3 infortuni su 4 sono avvenuti nell’ambito delle piccole-medie imprese (fino a 250 addetti).
Sulla base dei dati raccolti, l’INAIL ha sviluppato anche alcune stime prospettiche sul presumibile andamento degli infortuni per l’intero anno 2011. Per quanto riguarda il fenomeno nel suo complesso, il bilancio dovrebbe essere comunque positivo: secondo le previsioni dell’Istituto, infatti, nell’ipotesi in cui l’andamento del quarto trimestre – trascorso anche il necessario periodo di consolidamento tecnico dei dati – confermasse l’andamento delle rilevazioni provvisorie, si potrebbe prospettare un bilancio consuntivo per l’intero anno 2011 con un numero di infortuni sotto i 750.000 casi (contro i 775.000 del 2010, con un calo del 3,2 per cento).
Relativamente ai casi mortali, è bene ricordare che per rilevare tale fenomeno è necessario un congruo periodo di osservazione. Ai fini statistici, infatti, vanno conteggiati i decessi avvenuti entro 180 giorni dall’evento: l’INAIL, inoltre, sottopone costantemente a verifica le denunce d’infortunio sul lavoro e alcuni casi possono essere rivisti in un senso o in un altro. Pertanto, il dato provvisorio elaborato dall’Istituto per i primi nove mesi del 2011 è destinato a lievitare nel tempo, per cui occorre procedere a una stima per ricavare il dato definitivo dell’intero anno e consentire il confronto (da effettuarsi comunque con una certa cautela) con il dato consolidato del 2010. Ciò premesso, l’andamento dell’ultimo trimestre, l’aggiornamento tecnico degli archivi e l’evolversi di eventi potenzialmente letali ma non ancora risultanti tali, determineranno il risultato finale relativamente alle vittime sul lavoro dell’anno 2011. Per le ragioni tecniche anzidette, le stime più attendibili per il 2011 saranno elaborate e diffuse a marzo del 2012. L’INAIL, al momento, ritiene comunque ragionevole ipotizzare che il numero delle morti per l’anno 2011 possa rimanere al di sotto dei 973 casi registrati nel 2010, quindi ancora una volta sotto le mille unità.
I dati appena esposti, pur nel loro carattere preliminare e parziale, confermano quindi il numero ancora alto degli infortuni nel nostro Paese, soprattutto di quelli mortali, che in alcuni settori e in alcune Regioni risultano addirittura aumentati, pur a fronte di un andamento occupazionale tendenzialmente stabile. Ciò testimonia anzitutto come, malgrado un trend complessivo decrescente degli infortuni, permangano ancora forti contraddizioni e asimmetrie nell’applicazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro, sia a livello settoriale che territoriale. Occorre dunque tenere desta l’attenzione e intensificare le azioni di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali, capitalizzando i successi già ottenuti e potenziando gli sforzi, con azioni mirate, in quei settori e in quelle realtà che sono tuttora vulnerabili. Si tratta cioè di «illuminare gli angoli bui» che ancora esistono nel tessuto economico-produttivo del nostro Paese, in una battaglia di civiltà che richiede l’impegno e la coesione di tutti gli attori istituzionali e sociali.