Cassazione Penale, 21 giugno 2012, n. 24997 - Lavori di copertura dei tetti con lastre in eternit e omissione di cautele contro i rischi di esposizione all'amianto
Responsabilità dei legali rappresentanti di una s.n.c. per avere adibito il lavoratore dipendente (...) ai lavori di copertura dei tetti con lastre di eternit senza provvedere all'apprestamento delle precauzioni (inumidimento del materiale, uso di maschere respiratorie informazioni capillari sui rischi personali) previste dal DPR 303/1956 e DPR 547/1955 per la prevenzione dei rischi connessi alla esposizione delle polveri di amianto nocive per la salute di modo che l'esposizione alle polveri di amianto determinava l'insorgenza del mesotelioma pleurico che poi causava la morte del lavoratore.
Condannati in primo e secondo grado, ricorrono in Cassazione - Rigetto.
Fatto
Con sentenza del Tribunale di Bassano del Grappa del 30.3.2009 (...) e (...) venivano condannati, con circostanze attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante, alla pena condizionalmente sospesa di mesi sei di reclusione ciascuno, con la non menzione della condanna, e al risarcimento del danno ed assegnazione di una provvisionale in favore delle parti civili, perché ritenuti responsabili del reato di omicidio colposo con violazione delle norme in materia antinfortunistica, mentre (...) e (...) venivano assolti dalla medesima imputazione per non avere commesso il fatto.
Ad entrambi gli imputati, quali legali rappresentanti della ditta (...) s.n.c. veniva contestato di avere adibito il lavoratore dipendente (...) ai lavori di copertura dei tetti con lastre di eternit senza provvedere all'apprestamento delle precauzioni (inumidimento del materiale, uso di maschere respiratorie informazioni capillari sui rischi personali) previste dal DPR 303/1956 e DPR 547/1955 per la prevenzione dei rischi connessi alla esposizione delle polveri di amianto nocive per la salute di modo che l'esposizione alle polveri di amianto determinava l'insorgenza del mesotelioma pleurico che poi causava la morte del lavoratore (fatto del 26.9.2004).
Tale sentenza era confermata dalla Corte di Appello di Venezia con sentenza in data 16.6.2011.
La vicenda veniva ricostruita dalla Corte territoriale sulla scorta di quanto emerso dalla sentenza di primo grado ed in particolare delle deposizioni dei testi (...) e (...) e della documentazione clinica con riguardo allo svolgimento dell'attività lavorativa del (...) presso la ditta (...), dal 1965 al 1990, all'uso di amianto da parte di tale ditta, alla causa della morte individuata nel mesotelioma pleurico, manifestatosi nel 2003 e diagnosticato a seguito di esame istologico eseguito nel 2004, alla sussistenza del nesso di causalità tra l'esposizione all'amianto e la malattia contratta dal (...), all'esame della letteratura scientifica concernente la nocività dell'amianto e alle patologie connesse all'esposizione ad esso. Come il Tribunale aveva concluso che la persistente esposizione all'amianto aveva aumentato il rischio ed era stata, pertanto, la causa della morte del prevenuto, analogamente la Corte riteneva che l'esposizione all'amianto presso la ditta i assumesse un valore causale quanto meno concorrente e preponderante e rilevava come gli studi circa la specifica patologia del mesotelioma pleurico, avevano messo in luce "che il rischio di insorgenza del tumore è proporzionale al tempo e all'intensità di esposizione e che ad un aumentare della dose è stata dimostrata una riduzione del periodo di latenza"; riteneva, altresì, dimostrato che i lavoratori non erano stati informati della pericolosità derivante dalla lavorazione dell'amianto e che nessun controllo veniva fatto dai datori di lavoro sull'uso di mascherine protettive.
Avverso la sentenza della Corte veneziana ricorre per cassazione il comune difensore di fiducia (...) e (...) articolando, con dovizia di argomentazioni e riferimenti tecnico scientifici, i motivi di seguito sinteticamente riportati.
1. La violazione di legge in relazione agli artt. 40 e 41 c.p. ed il vizio motivazionale:
- avendo la sentenza ricostruito in modo incongruente con le risultanze processuali -(che addirittura, in taluni casi erroneamente ometteva di considerare)- la vicenda lavorativa e- la Claudio alle dipendenze del (...) s.n.c;
- pur ammettendo che lo stesso dipendente fosse stato esposto alle polveri di amianto fuori dell'ambiente di lavoro, sin dai 1950, cioè da ben prima di esserlo il (...) s.n.c, la sentenza impugnata negava la rilevanza causale di siffatte esposizioni extraprofessionali, per effetto di un travisamento delle risultanze peritali acquisite nel processo.
In particolare, assume che la motivazione è:
- manifestamente Illogica, laddove, da un lato, accoglie le obiezioni degli imputati appellanti in merito alla durata effettiva del rapporto lavorativo (...) alle dipendenze dell’(...) S.n.c. e in merito al tipo di attività principalmente svolta da quest'ultima, mentre, dall'altro, conferma la correttezza della sentenza di primo grado in ordine alla ricostruzione della vicenda lavorativa dello stesso dipendente (che aveva prestato la propria attività lavorativa non in via continuativa tra il 1965 e il 1989 ma con talune interruzioni ammontanti, complessivamente, a circa un anno e mezzo);
- contraddittoria, laddove travisa e fraintende le deposizioni testimoniali dalla stessa ritenute da sole sufficienti a provare con certezza la condotta degli imputati (quelle dei testi (...);
- assente, laddove trascura di valutare talune prove contrarie alla ricostruzione dei fatti compiuta dai Giudici di appello (dichiarazioni del defunte le io, riprese dal questionario ISPESL, testimonianze di (...) e dei legali rappresentanti delle ditte clienti (...) S.n.c);
- manifestamente illogica e contraddittoria, laddove svaluta la rilevanza delle prove di esposizioni all'amianto estranee alle lavorazioni svolte dal (...) a presso la (...) S.n.c. (deposizioni dei testi (...);
- manifestamente illogica e contraddittoria, laddove travisa il senso delle "deposizioni" e delle "relazioni" dei periti e consulenti di parte, in particolare, sul rapporto fra durata ed intensità di esposizione alle polveri di amianto e ampiezza del periodo di latenza convenzionale del mesotelioma pleurico.
I descritti vizi motivazionali avevano indotto la Corte di merito a ricostruire in maniera errata la vicenda lavorativa alle dipendenze della (...) s.n.c. del signor e a concludere in maniera altrettanto errata sulla ricostruzione del nesso di causalità (ex artt. 40 e 41 c.p.) fra la condotta degli imputati (...) e (...) e l'evento, laddove sostiene che:
"La ricostruzione della vicenda lavorativa e delle esposizioni extra lavorative del (...) all'amianto dimostrano quindi che l'esposizione che ha avuto una maggiore durata e che ha comportato per le modalità con cui la lavorazione veniva eseguita una esposizione alle polveri di amianto di significativa rilevanza e quindi con maggior rischio di contrazione della malattia è stata solo quella presso la ditta (...) dovendosi invece negare alcuna rilevanza a quella ambientale in relazione alla durata della latenza e ritenersi scarsamente rilevante perché limitata ed occasionale quella extra lavorativa".
"..deve pertanto ritenersi sulla base delle generalizzazioni dì carattere scientifico - quale nella fattispecie il non contestato nesso di causalità tra l'esposizione alle polveri di amianto ed il mesotelioma pleurico - ed esclusa l'incidenza nel caso specifico di fattori interagenti in via alternativa che nel caso concreto in esame risulti provato con sufficiente certezza il nesso di condizionamento tra la malattia e l'esposizione lavorativa presso la ditta (...)".
Invece, secondo i ricorrenti, il percorso logico seguito dai Giudici di secondo grado era stato quello di ritenere sussistente la responsabilità degli imputati (...) per il fatto di avere erroneamente ritenuto dimostrato il contatto di (...) con il cemento-amianto, allorché egli lavorava alle loro dipendenze, nel periodo compreso fra il 1972 ed il 1979, ed avere desunto da siffatta presunta durata e da modalità di lavorazione non ricostruite con certezza, la maggiore intensità e rilevanza di codesta esposizione professionale rispetto a quella che pur si era dimostrato esservi stato in ambito familiare (in Belgio tra il 1950 e il 1959), ambientale (di ben 25 anni, avendo vissuto in un'abitazione che aveva davanti una tettoia di eternit di 20-30 mq.) ed extra lavorativo: tale errore del Collegio a quo non è superabile con il richiamo al c.d. principio di equivalenza delle cause, sostenendo che tutte le eventuali esposizioni avrebbero contribuito a causare la morte del (...) attesa l'assenza di certezza scientifica sul punto.
Tra l'altro, si rappresenta come non vi sia una legge scientifica in grado di giustificare, con il grado di probabilità necessario ai fini penali, l'efficacia causale delle dosi successive a quella innescante e che in mancanza dell'individuazione del momento dell'innesco biologico della patologia tumorale in parola, nulla si può dire in ordine al peso eziologico delle esposizioni successive a quella iniziale. Ancora si evidenzia, con richiami di ricerche scientifiche al riguardo, la peculiare suscettibilità individuale verso tale patologia tumorale. Si propone, infine, la conseguente diversa lettura dei dati istruttori ai quali sarebbe dovuta pervenire la Corte di merito rappresentando la configurabilità del ragionevole dubbio circa la sussistenza dei presupposti della responsabilità degl'imputati.
2. La violazione di legge ed il vizio motivazionale per non avere motivato, o motivato solo apparentemente, sulla scelta della legge di copertura applicata nel caso di specie, ai fini della ricostruzione del nesso di causalità fra la condotta degli imputati e l'evento.
Si espongono, al riguardo, dopo il richiamo e commento della nota sentenza delle SS.UU. c.d. "(...)", i vari orientamenti giurisprudenziali in materia, con citazione di gran messe di pronunce, specialmente di questa Sezione, laddove si è passato da quello meno recente sul c.d. aumento del rischio, a quello della c.d. dose-dipendenza (sarebbe sufficiente una dose bassa ad innescare il processo del mesotelioma che esplode dopo un lungo periodo di latenza), della incertezza scientifica e della dose-indipendenza della riduzione della latenza per giungere all'orientamento che distingue tra asbestosi e carcinoma da un lato e mesotelioma pleurico dall'altro (Cass. pen. Sez IV, 10.6.2001, n. 38991; Sez. IV, 17.9.2010, n. 43786, Rv. 248943), criticando la tesi della dose-dipendenza della latenza del mesotelioma pleurico e quella dell'incertezza scientifica che dovrebbe condurre, diversamente da quanto si evince da talune sentenze di questa Corte di annullamento con rinvio, all'impossibilità di affermare una penale responsabilità.
Si sono esaminati, altresì, il problema dell'esclusione di eventuali decorsi causali alternativi e le sinergie tra il mesotelioma ed altri fattori. Si contestano le argomentazioni peritali in ordine alla dipendenza dell'insorgenza del mesotelioma dall'esposizione professionale all'amianto da parte del (...).
3. Il vizio motivazionale per aver erroneamente ricostruito il giudizio controfattuale in ordine all'efficacia del comportamento alternativo lecito, pur in presenza di una riscontrata incertezza scientifica.
Si ripropongono, in proposito, i due quesiti fondamentali circa la dipendenza del mesotelioma dall'esposizione professionale all'amianto e circa l'omissione da parte del datore di lavoro di cautele dovute idonee ad impedire l'evento e si assume che nel giudizio controfattuale si era confusa (come da pag. 33 sent.) una parte di esso attinente alla ricostruzione del nesso causale, con il giudizio di evitabilità, attinente, invece, alla ricostruzione della colpevolezza.
Si rappresenta, inoltre, come i periti non avessero fornito, in ordine all'efficacia delle cautele indicate nel capo d'imputazione, altro che un giudizio di diminuzione del rischio di insorgenza della malattia e non già di eliminazione totale dell'evento. Si rileva, ancora, che gli unici dispositivi di prevenzione, nemmeno risolutivi, potevano essere i facciali filtranti antipolvere, non esistenti in commercio all'epoca dell'esposizione in parola e che ia stessa Corte territoriale, all'esito del supplemento di perizia il cui responso è stato ritenuto generico sul punto, aveva dovuto ammettere che vi era incertezza scientifica su quale tipo di fibre fosse causa del mesotelioma e che non vi era certezza che l'omesso uso della mascherina avrebbe evitato l'evento, concludendo solo che l'uso di tale precauzione avrebbe influito almeno sulla fase di induzione della malattia, richiamando la corretta applicazione del principio "in dubio pro reo".
4. La violazione di legge ed il vizio motivazionale per avere erroneamente ricostruito il requisito della prevedibilità.
Si rappresenta che nel caso di specie non vi era prova che il (...) avesse lavorato in un ambiente non rispettoso della concentrazione di polveri di asbesto, all'epoca ritenuta sicura, evidenziando le evoluzioni scientifiche nel tempo (a partire dagli anni sessanta-settanta), in ordine al tasso di concentrazione di amianto tollerabile sul posto di lavoro. Si conclude per la non esigibilità di un diverso comportamento da parte dei ricorrenti.
5. La violazione di legge per aver erroneamente configurato la responsabilità civile dei soci della (...) s.n.c, che doveva, in conseguenza di quanto rilevato con le censure di merito sopra enunciate, essere esclusa.
E' stata depositata una memoria difensiva nell'interesse dei ricorrenti con la quale si ribadiscono ed illustrano ulteriormente i motivi di ricorso.
Diritto
I ricorsi sono infondati e vanno rigettati.
Premesso che, in buona sostanza, i ricorrenti invocano precipuamente il vizio motivazionale in ordine a tutte le doglianze e con particolare riguardo a quella sub 1, si rammenta che il nuovo testo dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Il novum normativo, invece, rappresenta il riconoscimento della possibilità di dedurre in sede di legittimità, il cosiddetto "travisamento della prova", finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere ad una inammissibile rivalutazione dei fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all'interno della decisione (cfr. Cass. pen. Sez. V, n. 39048 del 25.9.2007, Rv. 238215).
Orbene, la Corte territoriale ha fornito una motivazione ampia e congrua, esente da vizi di sorta con compiuta valutazione degli elementi probatori acquisiti, svolgendo un'analisi attenta e meticolosa, con apprezzamenti estremamente corretti ed improntati a solida logica, delle emergenze istruttorie.
Ma con i motivi di ricorso non si critica, in realtà, la violazione di specifiche regole preposte alla formazione del convincimento del giudice, bensì si pretende la rilettura dei quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito, non consentita in sede di verifica della legittimità del percorso giustificativo della decisione, quando -come nel caso in esame- la struttura razionale della motivazione della sentenza ha una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa ed è saldamente ancorata alle risultanze del quadro probatorio.
Non va, peraltro, sottaciuto che con il ricorso vengono sostanzialmente riproposte in buona parte le medesime doglianze rappresentate senza successo in grado d'appello che ha fornito, in ordine ad esse, quella compiuta ed esaustiva motivazione alla quale si è fatto cenno poc'anzi.
Sub 1 e 2. Ancora una volta, vengono portate all'attenzione di questa Corte tutte le questioni che nel recente passato hanno caratterizzato il dibattito dottrinario e giurisprudenziale in tema di causalità e di colpa, e che hanno trovato il punto di più controversa emersione nei processi afferenti a reati connessi all'esposizione professionale a sostanze dannose.
Il contesto è quello di patologie che trovano la causa o una causa nel contatto, nel corso dell'attività lavorativa, con sostanze la cui tossicità è ritenuta sulla base di informazioni epidemiologiche. Si tratta dunque, in primo luogo, di accertare se la patologia che ha colpito il lavoratore abbia effettivamente la sua causa nell'esposizione lavorativa; o se, invece, siano concretamente ipotizzabili altre ipotesi causali che riconducano l'evento lesivo a distinti fattori eziologici o ad esposizioni extra lavo rati ve o lavorative ma diverse da quella ipotizzata dall'accusa. Non risulta essere, nel caso di specie, in contestazione la circostanza che l'asbesto (o amianto) è possibile causa del mesotelioma che ha colpito il lavoratore (sul punto le conclusioni della comunità scientifica, come riconosce lo stesso ricorrente, sono pacifiche), ma si discute solo se ed in quale modo tale informazione possa essere utilizzata nel ragionamento probatorio inerente alla responsabilità individuale. Peraltro, non si verte nemmeno nell'ipotesi in cui l'esposizione lavorativa si è protratta per un arco di tempo nel corso del quale si siano succeduti diversi responsabili dell'organizzazione del lavoro essendo unico il rapporto lavorativo (con la (...) s.n.c.) avuto da (...).
Quanto, poi, al periodo di vita della vittima antecedente a quello speso alle dipendenze della (...) la tesi dell'esposizione all'amianto non è sufficientemente provata e comunque generica.
Invero, il periodo giovanile, dal 1950 al 1959, allorché il padre del (...) lavorava in miniera in Belgio e per tale ragione avrebbe potuto introdurre in casa le polveri di amianto, risulta risalire ad epoca molto antecedente rispetto alla data d'insorgenza della malattia, avvenuta nel 2003 e, quindi, come osservato dall'impugnata sentenza, oltre l'arco temporale corrispondente alla durata massima della latenza, che, salvo casi eccezionali, è pari ad anni 40.
Quanto alle esposizioni extralavorative durante lo svolgimento dell'attività alle dipendenze della ditta (...) secondo quanto riferito dai testi assunti (...), si trattò di esposizioni alla lavorazione dell'eternit di modesta durata, del tutto occasionali e limitate a due sostituzioni della copertura del proprio garage e del capannone del (...), comunque contestuali allo svolgimento, di durata continua ed estesa, dell'attività lavorativa alle dipendenze della ditta (...). Invece, quanto al periodo successivo (cioè, secondo l'imputazione, dal 21.6.1989 al 31.3.2003) all'esposizione dipendente dall'attività lavorativa alle dipendenze della ditta (...) (svoltasi, ancora secondo l'imputazione, dal 16.9.1965 al 3.4.1989) risulta l'assoluzione dai medesimo reato dei due coimputati (...) e (...) alle cui dipendenze era passata la vittima.
Ulteriori cause alternative dell'insorgenza del tumore non sono state provate: quindi, sotto il profilo eziologico, correttamente la stessa è stata ricondotta all'esposizione alle polveri di amianto cui fu sottoposto (...) nel corso dell'attività lavorativa alle dipendenze della ditta (...).
E ciò in linea con il principio secondo cui la responsabilità per gli eventi dannosi legati all'inalazione di polveri di amianto, pur in assenza di dati certi sull'epoca di maturazione della patologia, va attribuita causalmente alla condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale, anche se per una parte soltanto del periodo di tempo di esposizione delle persone offese, in quanto tale condotta, con riguardo alle patologie già insorte, ha ridotto i tempi di latenza della malattia, ovvero, con riguardo alle affezioni insorte successivamente, ha accelerato i tempi di insorgenza (cfr. Cass. pen. Sez. IV, n. 38991, del 10.6.2010, Rv. 248851). Infatti, quanto alla legge di copertura necessaria per la valutazione del nesso di causalità, la Corte territoriale ha correttamente adottato quella della "dose cumulativa" (v. pagg. 31-32 sent), inducendo il protrarsi della esposizione alle polveri di amianto per la lunga durata della lavorazione presso la ditta (...) a ritenere che tale esposizione abbia influito sulla durata del periodo di latenza con accelerazione dello sviluppo del tumore.
E' stata al riguardo richiamata la letteratura scientifica sostanzialmente convergente sulla circostanza che nella fase di induzione ogni esposizione ha un effetto causale concorrente, non essendo necessario l'accertamento della data dell'iniziale insorgenza della malattia e, pur non essendovi certezze circa la dose sufficiente a scatenare l'insorgenza del mesotelioma pleurico, è stato comunque accertato che il rischio di insorgenza è proporzionale al tempo e all'intensità dell'esposizione, nel senso che l'aumento della dose è inversamente proporzionale al periodo di latenza: insomma, la scienza medica riconosce un rapporto esponenziale tra dose cancerogena assorbita determinata dalla durata e dalla concentrazione dell'esposizione alle polveri di amianto e risposta tumorale.
Nel caso di specie, il periodo di latenza era stato particolarmente lungo (esposizione risalente al 1965 e con manifestazione clinica della malattia avvenuta nel 2004), proprio per effetto dell'esposizione non permanente ma limitata a due, tre giorni al mese e quindi di non particolare intensità.
Tale ragionamento inferenziale si pone in linea con il principio per il quale nella valutazione della sussistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura debba attingere al sapere scientifico, la funzione strumentale e probatoria (integrativa delle conoscenze giudiziali) di quest'ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di ponderare la scelta ricostruttiva della causalità ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti (Cass. pen. Sez. IV, n. 38991 del 10.6.2010, Rv. 248853: la Corte ha precisato che una opzione ricostruttiva fondata sulla mera opinione del giudice, attribuirebbe a questi, in modo inaccettabile, la funzione di elaborazione della legge scientifica e non, invece, come consentito, della mera sua utilizzazione).
Quanto alle censure sub 3 e 4, la prevedibilità dell'evento -e qui il discorso attiene prevalentemente alla colpa ma non è estraneo al problema della causalità, come proposto dai ricorrenti, sotto il profilo finalistico delle norme di prevenzione- non riguarda soltanto specifiche conseguenze dannose che da una certa condotta possono derivare ma si riferisce a tutte le conseguenze dannose che possono derivare da una condotta che sia conosciuta come pericolosa per la salute (o per altri beni tutelati dall'ordinamento).
Orbene, "l'inalazione da amianto è ritenuta da ben oltre i tempi citati di grande lesività della salute (se ne fa cenno nel r.d. 14 giugno 1909 n. 442 in tema di lavori ritenuti insalubri per donne e fanciulli ed esistono precedenti giurisprudenziali risalenti al 1906) e la malattia da inalazione da amianto, l'asbestosi (conosciuta fin dai primi del '900 ed inserita nelle malattie professionali dalla L 12 aprile 1943 n. 455), è ritenuta conseguenza diretta, potenzialmente mortale, e comunque sicuramente produttrice di una significativa abbreviazione della vita se non altro per le patologie respiratorie e cardiocircolatorie ad essa correlate.
Ne consegue che la mancata eliminazione, o riduzione significativa, della fonte di assunzione comportava il rischio del tutto prevedibile dell'insorgere di una malattia gravemente lesiva della salute dei lavoratori addetti. Se solo successivamente sono state conosciute altre conseguenze di particolare lesività non v'è ragione per escludere il rapporto di causalità con l'evento e il requisito della prevedibilità dell'evento medesimo. E non v'è ragione di escluderlo, in particolare, perché le misure di prevenzione da adottare per evitare l'insorgenza della malattia conosciuta erano identiche (fino all'approvazione della L. 27 marzo 1992 n. 257 che ha vietato in assoluto l'uso dell'amianto) a quelle richieste per eliminare o ridurre gli altri rischi, anche non conosciuti; con la conseguenza, sotto il profilo obiettivo, che ben può affermarsi che la mancata adozione di "quelle" misure ha cagionato l'evento e, sotto il profilo soggettivo, che l'evento era prevedibile perché erano conosciute conseguenze potenzialmente letali della mancata adozione di quelle misure" (Cass. pen. Sez. IV, n. 988 delì11.7.2002, Rv. 227001).
Inoltre giova evidenziare che (Cass. pen. Sez. IV, n. 22165 del 11.4,2008, Rv. 240517) "In tema di omicidio colposo, sussiste il nesso di causalità tra l'omessa adozione da parte del datore di lavoro di idonee misure di protezione e il decesso del lavoratore in conseguenza della protratta esposizione alle polveri di amianto, quando, pur non essendo possibile determinare l'esatto momento di insorgenza della malattia, deve ritenersi prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo tempo di latenza".
Invero, questa Corte in più occasioni (Sez. Un. n. 30328 del 10.7.2002, (...); e successive conformi), nel ripercorrere i fondamenti giuridici della causalità omissiva ha affermato che la spiegazione degli eventi attraverso il sapere scientifico non significa fare uso solo dì leggi universali che sono molto rare, ma anche di leggi statistiche, di rilevazioni epidiemologiche, di generalizzazioni empiriche del senso comune.
La causalità omissiva presenta una complessità particolare perché si fonda non su fatti materiali empiricamente verificabili, ma su di una ricostruzione logica, che, a differenza di quella commissiva, non può avere una verifica fenomenica.
Il rapporto che si istituisce tra una entità reale, vale a dire l'evento verificatosi, ed un'entità immaginata, la condotta omessa ed il giudizio contrafattuale ("contro i fatti": se l'intervento omesso fosse stato adottato si sarebbe evitato il prodursi dell'evento?) serve a ricostruire la sequenza e a fondare la risposta. Tuttavia questa risposta che deve servirsi del sapere scientifico e quindi necessita di una "legge di copertura" non va fondata solo su leggi assolute, ma anche su altre forme di sapere che comportino la possibilità di affermare con logica certezza la riferibilità della condotta omessa all'evento.
Nel caso di specie la Corte territoriale, servendosi delle conclusioni e delle spiegazioni peritali, indica le conoscenze scientifiche attraverso le quali giunge ad affermare che sussiste nesso di causalità tra condotta ed evento anche quando non si può stabilire il momento preciso dell'insorgenza della malattia tumorale, perché è sufficiente che la condotta abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne abbia ridotto il periodo di latenza. La validità di siffatto ragionamento scientifico è stato sovente apprezzata da questa Corte poiché la riduzione dei tempi di latenza dell'esplodere del tumore incide in modo significativo sull'evento morte, riducendo la durata della vita.
La Corte territoriale ha motivato sia in ordine alla gravità della condotta omissiva, sia in ordine agli effetti dell'esposizione all'amianto e con argomentazioni logiche condivisibili ha supportato il proprio convincimento relativo all'effetto utile per evitare il danno alla salute del lavoratore del doveroso abbattimento delle polveri attraverso il rispetto delle norme antinfortunistiche che anche all'epoca erano ben conosciute.
Infatti, l'efficacia protettiva delle prescritte mascherine, il cui uso fu consapevolmente omesso dagli imputati, è stata relazionata non solo alla capacità di scongiurare il verificarsi della malattia, ma soprattutto al freno che essa poneva all'inalazione incontrollata di fibre pericolose riducendo l'intensità della esposizione, così influendo sulla fase di induzione della malattia. Né la mancata adozione di questa e delle altre misure antinfortunistiche indicate nel capo d'imputazione può essere disgiunta dalla consapevole adibizione del lavoratore ad attività di pericolosità scientificamente già risaputa all'epoca e cioè all'uso e lavorazione delle lastre di eternit (cioè di cemento-amianto).
Ed anzi, il datore di lavoro non andrebbe esente da responsabilità anche qualora, pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro (Cass. pen. Sez. IV, n. 5117 del 22.11.2007, Rv. 238778).
Né può l'eventuale maggiore suscettibilità personale a contrarre la malattia aver alcuna rilevanza scagionante delle omissioni ascritte ai ricorrenti, ponendosi, al massimo, quale concausa acceleratrice dell'attecchimento del tumore: altrimenti, sarebbe come dire che l'omessa adozione di precauzioni doverose antinfettive con conseguente inoculazione di un virus mortale possa essere giustificata dal mero stato fisico particolarmente debilitato del soggetto colpito.
Inoltre, anche seguendo la teoria più restrittiva (quella sostenuta nella sentenza sopra richiamata della Sez. IV del 17.9.2010, n. 43786, Rv. 248943, Cozzini), si può giungere a dimostrare la sussistenza del nesso causale.
Infatti, secondo tale sentenza, l'affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro e l'evento-morte (dovuta a mesotelioma pleurico) di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa, all'amianto, "è condizionata all'accertamento: (a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all'effetto acceleratore della protrazione dell'esposizione dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico; (b) in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; (e) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l'effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali; (d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all'iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all'arco di tempo compreso tra inizio dell'attività dannosa e l'iniziazione della stessa, se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all'innesco dei processo carcinogenetico".
Ma anche in base a tali più restrittivi criteri deve ritenersi comunque sufficientemente accertato il rapporto di causalità tra condotta colposa ed evento, dovendosi ricondurre l'occasione di insorgenza del carcinoma al periodo lavorativo svolto alle dipendenze della ditta rappresentata dai ricorrenti.
L'ultima censura, peraltro intrinsecamente superflua, rimane assorbita dalle critiche mosse a quelle precedenti.
Al rigetto dei ricorsi, segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.