4. Modelli organizzativi: idoneità ed efficace attuazione
Come già è stato anticipato infra, affinché il modello organizzativo assolva la sua funzione di “scudo” per l’ente in chiave di protezione da eventuali responsabilità ex D.Lgs. n. 231/2001, è necessario non solo che lo stesso sia adottato, ma anche sia idoneo ed efficacemente attuato.
a. L’idoneità del modello ...
La normativa di riferimento (D.Lgs. n. 231/2001 e D.M. n. 201/2003) non delinea esplicitamente i contenuti (elementi costitutivi, comportamenti, adempimenti e simili) del "modello di organizzazione” che appare sfuggente, concettualmente, se inteso nella sua accezione formale.
Tuttavia, sul piano oggettivo, il modello è sufficientemente identificabile in funzione degli obiettivi cui esso è destinato, e può descriversi come un sistema strutturato ed organico di procedure nonché di attività di controllo, da svolgersi anche in via preventiva (controllo ex ante), strumentale alla prevenzione dei reati responsabilizzanti ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001.
Più semplicemente, i modelli organizzativi svolgono il ruolo, all’interno dell’ente, di veri e propri sistemi operativi, che operano quali sensori dei rischi reato, al fine di svolgere contemporaneamente sia un’efficace attività di monitoraggio e di segnalazione, sia una reale attività di prevenzione.
L’“idoneità” del modello organizzativo va misurata in relazione al fine di evitare la commissione di reati di un dato tipo, e può essere definita come la sua adeguatezza alla specifica struttura ed alla concreta attività dell’ente, intesa sia nei rapporti interni sia nelle relazioni esterne, che non può non passare attraverso l’acquisita consapevolezza della possibile realizzazione di condotte illecite nello svolgimento dell’attività dell’ente, nel suo interesse ed a suo vantaggio.
Ed infatti, è all’idoneità del modello che attengono i requisiti contenutistici previsti dagli artt. 6, comma 2, e 7, comma 4, con formulazioni differenti.
Nel caso in cui si realizzi la commissione di uno dei reati presupposto da parte degli "apicali”, il modello dimostratosi sostanzialmente inadeguato ad impedire la realizzazione della condotta illecita sarà giudicato, comunque, idoneo in presenza delle condizioni previste dall’art. 6, comma 1, lettere c) e d), ossia nei casi in cui l’autore del reato abbia agito violando "fraudolentemente” il sistema dei controlli apprestato con il modello e non vi sia stata omessa
o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo a ciò preposto. Idoneità che, a differenza dell’ipotesi di reato presupposto commesso da un sottoposto in presenza di un modello organizzativo adottato dall’ente, spetterà a quest’ultimo dimostrare per effetto della prevista inversione dell’onere probatorio.
Conseguentemente, l’approccio della polizia giudiziaria dovrà atteggiarsi in maniera differente. Infatti, nell’ipotesi in cui il reato presupposto sia commesso da un soggetto apicale, discendendo la responsabilità amministrativa dell’ente quale naturale corollario, la polizia giudiziaria dovrà valutare la validità degli elementi addotti dall’ente a propria difesa secondo le previsioni del paradigma normativo di cui all’art.6, accertandone o meno l’esistenza, ovvero misurandone l’effettiva portata. Nel caso di reato presupposto commesso da un sottoposto, perché possa configurarsi una responsabilità amministrativa dell’ente, la polizia giudiziaria dovrà provare l’inefficienza dei modelli adottati ovvero il mancato rispetto degli obblighi di vigilanza da parte degli organi preposti.
Sul punto si rammenta che non è richiesto dalla normativa che il modello annulli completamente il rischio di verificazione dei reati presupposto ma che lo definisca e lo tenga sotto controllo mediante un’azione dispiegata con continuità: il modello dovrà presentare quei requisiti di efficienza, praticabilità e funzionalità, in grado ragionevolmente di disinnescare le fonti di rischio.
Ai fini dell’elaborazione dei modelli, che devono essere costruiti secondo uno schema che riprenda i processi di risk assessment e risk management normalmente attuati nelle imprese, la relazione illustrativa evidenzia come la normativa preveda una maggiore tipizzazione dei modelli validi per i vertici, come risulta dal disposto dell’art. 6, comma 2, che tratteggia un modello ben strutturato, con un contenuto minimo obbligatorio e non derogabile.
Mentre l’art. 7 si limita a disporre che il modello preveda, tenuto conto della natura e delle dimensioni dell’ente, e del tipo di attività svolta, “misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge, e a coprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio”, l’art. 6, comma 2, riporta in 5 lettere le “esigenze” cui i modelli devono rispondere, per essere considerati validi ai fini esimenti che giustificano la loro creazione.
Pur nella considerazione della diversità del materiale normativo sopra richiamato, che potrebbe indurre a ritenere che in funzione dei potenziali autori del reato-presupposto (apicali ovvero sottoposti) si possano adottare due diversi modelli organizzativi con caratteristiche strutturali differenti, si ritiene, sulla base di un’interpretazione unitaria delle due disposizioni citate ed in virtù delle indicazioni contenute nella relazione illustrativa, che il modello di organizzazione, gestione e controllo di cui deve (rectius: ha l’onere di) dotarsi l’ente debba essere unico, ma delineato in modo tale da corrispondere contemporaneamente alle esigenze richieste dalle disposizioni in riferimento.
Tenendo conto delle indicazioni normative, nonché dell’elaborazione giurisprudenziale prodotta sulla specifica materia, è possibile sintetizzare gli obiettivi, i contenuti e la struttura dei modelli organizzativi come segue, segnalando, come già infra evidenziato, che la valutazione (prognostica) circa l’idoneità e l’efficace attuazione dei citati modelli, ai fini di un eventuale esonero da responsabilità dell’ente, è rimessa comunque alla competente A.G. che, a tale scopo, si potrà avvalere di tutti gli strumenti investigativi ritenuti necessari, disponendo, se del caso, anche consulenze tecniche d’ufficio113.
(1) Gli obiettivi
Il citato art. 6, comma 2, esplicita con chiarezza che un modello è valido se permette, con l’operatività degli elementi concreti attraverso cui esso deve essere articolato, il raggiungimento/perseguimento dei seguenti obiettivi:
- individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi i reati;
- prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire114;
- individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati.
Sul punto, in fase investigativa sarà utile verificare che i contesti più delicati siano disciplinati da procedure aziendali scritte e da adeguati criteri di separazione dei compiti (come ad esempio un diagramma che disegni per ogni funzione di spesa o di gestione il funzionario responsabile), nonché accertare che le procedure ed i criteri di attribuzione delle responsabilità siano adeguati e chiari.
In sostanza, la polizia giudiziaria dovrà verificare che il modello organizzativo adottato abbia in sé la capacità di delineare correttamente sia le modalità con le quali si sia dato corso ai pagamenti dovuti sia i controlli interni svolti sulla materialità degli stessi. A tal riguardo potranno essere valutate con particolare favore, in punto di efficacia del modello, quelle procedure di verifica che impongono la conservazione di tutta la documentazione non obbligatoria emessa a corredo di ciascuna transazione.
In tale ottica, particolare rilievo assumeranno i cc.dd. controlli sulle procedure decisionali, esperibili mediante l’acquisizione di informazioni desunte da pubblicazioni interne all’ente
o dai soggetti direttamente interessati alla procedura, che permettono di esaminare la prassi seguita dall’Ente/Società per l’assunzione delle decisioni concernenti le operazioni di ordinaria e straordinaria amministrazione;
- prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli;
- introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
Dalla lettura delle citate “esigenze legali” emerge con evidenza come l’istituzione del modello determini l’introduzione, nel soggetto interessato, di un vero e proprio codice interno aggiuntivo che impone nuovi doveri e nuovi obblighi per le persone che, dell’ente, costituiscono il substrato operativo, a cominciare da dipendenti e dirigenti.
Dunque, il modello deve rispondere all’esigenza di procedimetalizzare, previa ricognizione delle aree o delle sfere di attività esposte al rischio-reato, la formazione e l’attuazione delle decisioni degli apici, la gestione delle risorse e la circolazione delle informazioni verso l’organismo interno di controllo, con l’obiettivo di prevenire il rischio di commissione dei reati assicurando l’effettività attraverso la predisposizione di un apparato sanzionatorio disciplinare.
(2) La struttura
Le disposizioni del D.Lgs. n. 231/2001 non prevedono modelli di organizzazione e di gestione schematizzabili a priori. Del resto, è preliminarmente evidenziata l’esigenza (art. 7, comma 3) che il modello deve risultare coerente con la natura e le dimensioni della struttura organizzativa, nonché con le peculiarità dell'attività svolta.
Con riguardo alla dimensione, essendo la stessa direttamente proporzionale al grado di complessità aziendale, va da sé che in una grande azienda sarà richiesto un programma maggiormente articolato ed una maggiore formalizzazione in modo da garantire la conoscibilità del programma a tutti i livelli dell’organizzazione; mentre l’attività svolta rileva nei termini della caratterizzazione (tipologia) del reato-presupposto che può scaturirne.
Per quanto precede, è facilmente intuibile che non può esistere un modello standardizzato, idoneo per ogni tipologia di realtà aziendale. Pertanto, in piena libertà formale, data l’assenza di moduli legali prefissati, si può quindi affermare che con il suddetto concetto si intende il compendio, diverso e personalizzato in ogni persona giuridica, del sistema di prevenzione che, rispondendo al decreto, è necessario precostituire onde non subire gli effetti automatici negativi della normativa in oggetto.
L’ente può, quindi, predisporre i modelli organizzativi in piena autonomia, oppure utilizzare i modelli redatti dalle associazioni di categoria alle quali è riconosciuto il potere di redigere codici di comportamento di portata generale115.
Pertanto, ferma restando la valenza delle linee guida di portata generale, non può non evidenziarsi che la predisposizione di protocolli originali, aderenti alla singola realtà organizzativa, consente l’adozione di modelli più efficienti ed idonei a tutelare la società. Infatti, affinché il modello di organizzazione e gestione possa svolgere efficacemente i propri effetti, così come emerso in sede giurisprudenziale, è necessario che venga specificatamente pensato e progettato, secondo un approccio “sartoriale”, per quel determinato ente nel quale dovrà trovare applicazione.
(3) I contenuti
Alla luce delle prime analisi condotte, è possibile sintetizzare una valida indicazione delle componenti essenziali del modello nella seguente combinazione di elementi:
- descrizione introduttiva della struttura organizzativa della società e delle sue principali attività svolte;
- “mappatura oggettiva” preventiva, detta di “identificazione dei rischi”, ossia l’analisi descrittiva delle aree funzionali interne esposte, per ciò che in esse avviene in concreto, al rischio di commissione, da parte degli appartenenti alla persona giuridica, di uno o più dei reati responsabilizzanti, con annessa la specificazione preventiva delle potenziali modalità di commissione dei reati stessi116;
- “mappatura normativa”, attraverso la definizione del sistema implicito di prevenzione/contenimento dei rischi e delle conseguenti modalità operative interne (i protocolli di contromisure esplicite) istituite, più o meno appositamente in rapporto al D.Lgs. n. 231/2001, per l’efficace prevenzione della suddetta commissione potenziale di reati, comprensive delle misure in tema di informazione permanente nei confronti dell’ODV interno e di gestione delle risorse finanziarie.
Sul piano investigativo andrà, in particolare, verificato che i processi a rischio siano presidiati da una adeguata separazione dei compiti impedendo che un’unica funzione possieda capacità decisionale autonoma in ordine ai processi a rischio;
- approntamento, ai sensi dell’art. 6, comma 2, lettera d), di un adeguato sistema disciplinare - sanzionatorio interno per le violazioni dei precetti contenuti nel modello, volto a punire la mancata osservanza dei protocolli ivi previsti nonché delle norme del codice (etico) interno, che esprime i principi di “deontologia aziendale” che l’ente riconosce come suoi propri ed ai quali deve essere informato il comportamento di tutti i suoi appartenenti.
La predisposizione di un adeguato sistema sanzionatorio per la violazione delle regole di condotta imposte ai fini della prevenzione dei reati presupposto di cui al decreto in commento, e, in generale, delle procedure interne previste dal modello organizzativo stesso costituisce elemento essenziale per la sua effettività.
In tale contesto, l’attività della polizia giudiziaria dovrà essere rivolta ad accertare che l’adozione delle regole del modello e di quelle di condotta non si risolva in una mera clausola di stile, ma rifletta un’attenzione costante dell’ente verso la verifica dei comportamenti dei suoi componenti117. Se l’organizzazione scopre una violazione è necessario che sia condotta, nei modi dovuti, una vera e propria indagine interna, possibilmente documentata in tutti i suoi passaggi e che sia in grado, attraverso un’approfondita analisi delle cause, di suggerire ai vertici dell’ente le azioni correttive da assumere allo scopo di evitare il ripetersi di casi della specie.
b. Segue... e la sua efficace attuazione
Il sistema di controlli preventivi, cui si deve pervenire esaurita la realizzazione delle fasi descritte nel precedente paragrafo 4.a., deve prevedere una serie di protocolli (cioè, di regole interne) diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in senso, ovviamente, ostativo ai reati da prevenire, in modo da garantire che i rischi di commissione dei reati siano ridotti ad un livello accettabile.
Più in concreto, riprendendo a titolo esemplificativo, per quanto di più stretto interesse in questa sede, le indicazioni operative contenute nel documento elaborato da Confindustria, le componenti (i protocolli) di un sistema di controllo preventivo, che dovranno essere attuate a livello aziendale per garantire l’efficacia del modello possono generalmente essere individuate come segue:
- con riguardo ai reati presupposto dolosi:
• sistema organizzativo sufficientemente formalizzato e chiaro, con particolare riguardo all’attribuzione di responsabilità, alle linee di dipendenza gerarchica ed alla descrizione dei compiti, con specifica previsione di principi di controllo quali, ad esempio, la contrapposizione di funzioni;
• procedure manuali ed informatiche (sistemi informativi) tali da regolamentare lo svolgimento delle attività, prevedendo gli opportuni punti di controllo, come, ad esempio, la “separazione di compiti” tra coloro che svolgono fasi (attività) cruciali di un processo a rischio;
• sistema di controllo di gestione in grado di fornire tempestiva segnalazione dell’esistenza e dell’insorgere di situazioni di criticità generale e/o particolare;
- con riguardo ai reati presupposto colposi, oltre alle indicazioni di cui sopra:
• struttura organizzativa con compiti e responsabilità in materia di salute e sicurezza sul lavoro definiti formalmente in coerenza con lo schema organizzativo e funzionale dell’azienda118;
• formazione e addestramento, da assicurare secondo fabbisogni rilevati periodicamente, finalizzati ad assicurare che tutto il personale, ad ogni livello, sia consapevole dell’importanza della conformità delle proprie azioni rispetto al modello organizzativo e delle possibili conseguenze dovute a comportamenti che si discostino dalle regole dettate dal modello;
• coinvolgimento degli interessati, da realizzare attraverso consultazioni preventive ovvero riunioni periodiche in merito all’individuazione e valutazione dei rischi ed alla definizione delle misure preventive;
• sistema di monitoraggio della sicurezza, attraverso cui verificare il mantenimento delle misure di prevenzione e protezione dei rischi adottate e valutate idonee ed efficaci.
È nell’interesse dell’ente prevedere che il sistema di controllo documenti (anche attraverso la redazione di verbali) l’effettuazione dei controlli, anche di supervisione.
E perché possa dirsi “efficacemente attuato” il modello dovrà essere, altresì, integrato con i protocolli che seguono i quali, pur non costituendo sempre parti obbligatorie del modello, consentono di caratterizzarlo in termini di “idoneità” ed “efficacia”:
- costituzione effettiva (nomina, investitura e assegnazione effettiva di poteri adeguati) di un apposito organismo di vigilanza sul fenomeno complessivo in oggetto e redazione del regolamento operativo del suo funzionamento, che costituiscono certamente uno dei passi più visibili dell’intero processo attuativo dello “scudo” protettivo di cui l’ente può beneficiare;
- la previsione di un sistema di aggiornamento continuo del modello: tra i compiti dell’ODV vi è quello di valutare se il modello sia strutturato in maniera tale da poter mantenere nel tempo i requisiti propri di solidità e funzionalità in nome dei quali è stato costituito.
Conseguentemente, nell’ipotesi in cui dall’analisi condotta emerga la necessità di un adeguamento o correzione del modello, il citato ODV dovrà:
• curarne l’aggiornamento, mediante la predisposizione e la presentazione di apposite note di adeguamento agli organi aziendali che si adoperano per la sua concreta attuazione nell’ambito dell’organizzazione aziendale;
• assicurare il cosiddetto follow-up, che si concretizza nella verifica costante dell’effettiva attuazione ed efficacia delle soluzioni proposte;
- organizzazione di un piano di:
• formazione del personale aziendale (in particolare quello delle aree a rischio), allo scopo di illustrare le ragioni di opportunità, a fianco a quelle giuridiche, che ispirano le regole e la loro portata concreta;
• comunicazione interna sui contenuti del D.Lgs. n. 231/2001 e del modello, ritenuto necessario ai fini di un buon funzionamento dei compliance programs, in modo tale da non consentire ad alcuno di giustificare il reato-presupposto adducendo l’ignoranza delle direttive aziendali o l’errore nelle loro valutazioni. La comunicazione dovrà essere capillare, efficace ed autorevole, ossia promanante da un livello adeguato, nonché chiara, dettagliata, e periodicamente ripetuta.
Una effettiva e concreta formazione ed informazione sono assolutamente centrali rispetto all’efficace attuazione del modello organizzativo: infatti, il modello potrà esplicare concretamente la propria funzione preventiva solo nel caso in cui ogni suo destinatario sappia esattamente quale condotta tenere in presenza di una determinata situazione119. Conseguentemente, assumeranno specifica rilevanza sul punto le previsioni circa il contenuto dei corsi, la loro frequenza, l’obbligatorietà della partecipazione degli interessati ai programmi di formazione, nonché l’attività di controllo sulla frequenza sulla qualità dei contenuti;
- predisposizione di un formale codice etico di condotta (corpo normativo interno) per tutti gli appartenenti alla persona giuridica, che pur non costituendo un adempimento con conseguenze prestabilite, nel quadro del D.Lgs. n. 231/2001 può ben riflettere una dimostrazione tangibile e molto evidente (testimonianza positiva) della determinazione dell’ente in favore del rispetto dei valori di legalità applicata, cui è ispirata la normativa in oggetto120.
Sul punto, in sede investigativa, occorrerà verificare che il codice etico sia supportato da misure organizzative tali da facilitarne l’adozione ed il rispetto (adeguata divulgazione a soggetti interni ed esterni; attribuzione ad un organo ad hoc del potere decisionale in caso di violazioni, ecc.).
Da quanto argomentato nei paragrafi precedenti, emerge che i modelli organizzativi devono, di fatto, essere “costruiti” in modo tale da rivestire la funzione di improntare a trasparenza, correttezza, lealtà, integrità e credibilità i rapporti tra la società ed i suoi "portatori di interessi”, intesi internamente quali amministratori, soci, dipendenti e collaboratori ed esternamente come Pubblica Amministrazione, clienti, cittadini e, in generale, verso l’intero contesto civile ed economico nel quale l’ente opera.
Sul piano più strettamente operativo, le attività investigative, condotte sfruttando i poteri della polizia giudiziaria, dovranno, pertanto, essere tra l’altro orientate ad appurare l’effettiva rispondenza dei modelli di prevenzione ai parametri sopra indicati, tenendo presente che un modello di prevenzione potrà ritenersi sostanzialmente adeguato se lo stesso non può essere eluso, se non intenzionalmente (con raggiri).
Ciò comporta che:
- non è possibile addurre la mera ignoranza delle direttive e delle procedure aziendali;
- il semplice errore umano non può essere considerato una valida giustificazione;
- la possibilità di frodi deve, comunque, trovare un serio argine nel modello di prevenzione.
Va sottolineato, come avviene in ogni giudizio penale sull’idoneità di un atto, che la valutazione del giudice dovrà fondarsi su un giudizio ex ante (la cosiddetta prognosi postuma) che prescinde dal risultato concreto della mancata prevenzione del reato, ma che dovrà tener conto delle risultanze dell’attività investigativa in punto di verifica dei requisiti di idoneità ed efficace attuazione del modello organizzativo, come più sopra delineati.
c. Le specificità dei modelli organizzativi di cui all’art. 30 del D.Lgs. n. 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro
Ferme restando le considerazioni generali riportate nei precedenti paragrafi 4.a. e 4.b., il legislatore del D.Lgs. n. 81/2001, tenuto conto della particolarità del contesto di riferimento, all’art. 30 ha inteso individuare più specificamente gli obiettivi ed i contenuti, anche ulteriori rispetto a quelli indicati negli art. 6 e 7 del D.Lgs. n. 231/2001, che devono caratterizzare i modelli organizzativi perché questi possano essere giudicati idonei ed efficacemente adottati, con conseguente possibilità per l’ente, in tali ipotesi, di beneficiare dell’efficacia esimente ad essi riconosciuta.
In particolare, il modello organizzativo dovrà essere delineato in modo tale da assicurare un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi:
- al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi ad attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici;
- alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti;
- alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
- alle attività di sorveglianza sanitaria;
- alle attività di informazione e formazione dei lavoratori;
- alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori;
- all’acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge;
- alle periodiche verifiche dell'applicazione e dell'efficacia delle procedure adottate. Proseguendo, l’art. 30 richiede espressamente che il modello organizzativo preveda:
- idonei sistemi di registrazione dello svolgimento delle attività di prevenzione. Tale previsione, da un lato, facilita l’attività investigativa documentale della polizia giudiziaria finalizzata all’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente, anche se, come già evidenziato, occorrerà superare il dato formale per analizzare l’effettività delle attività di prevenzione richieste all’ente; dall’altro, offre all’ente la possibilità di “opporre” una preliminare difesa a dimostrazione della sua irresponsabilità;
- per quanto richiesto dalla natura e dimensioni dell'organizzazione e dal tipo di attività svolta, un'articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio, nonché un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello;
- un idoneo sistema di controllo sull'attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate121.
L’adozione e l’efficace attuazione del modello di verifica e controllo assume, inoltre, particolare rilievo in termini di riconoscimento dell’avvenuto adempimento dell’obbligo di vigilanza nei confronti del delegato da parte del datore di lavoro delegante, secondo quanto previsto dall’art. 16, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2008122.
In punto di idoneità del modello il comma 5 dell’articolo in esame introduce una presunzione di legge secondo cui si considera conforme alle prescrizioni sopra riportate il modello organizzativo adottato dall’ente definito conformemente alle Linee guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 per le parti corrispondenti.
In merito, inoltre, è previsto, ai sensi del combinato disposto dell’art. 6 e dell’art. 30, comma 5- bis del D.Lgs. n. 81/2008, che la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro può indicare modelli di organizzazione e gestione aziendale, nonché elaborare procedure semplificate per l’adozione e l’efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione della sicurezza nelle piccole e medie imprese. Tali procedure sono recepite con decreto del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali.
Rilevante ai fini che qui interessano è anche la disposizione contenuta all’art. 51, comma 3- bis secondo cui gli organismi paritetici di cui all’art. 1, comma 2, lettera ee), su richiesta delle imprese, possono rilasciare l’asseverazione dell’adozione e dell’efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione della sicurezza di cui all’articolo 30, “della quale gli organi di vigilanza possono tener conto ai fini della programmazione delle proprie attività”.
Per quanto precede la polizia giudiziaria, laddove l’ente si sia dotato di un modello di organizzazione, gestione e controllo, dovrà preliminarmente, in sede di valutazione della sua idoneità ed efficace attuazione, verificarne la conformità alle Linee guida UNI-INAIL, nonché richiedere all’ente il possesso dell’asseverazione rilasciata dagli organismi paritetici. Si tratta di una preliminare indagine che, lungi dall’assicurare per tabulas efficacia esimente al modello adottato, che invece dovrà essere accertata fattualmente, l’organo investigativo deve porre in essere per meglio lumeggiare l’elemento “soggettivo” qualificante la condotta dell’ente.
Inoltre, la polizia giudiziaria nell’ambito della propria attività investigativa, conformemente a quanto statuito in sede giurisprudenziale (cfr. Tribunale di Trani, sentenza in data 26 ottobre 2009) , dovrà tener presente che i documenti di valutazione dei rischi redatti ai sensi degli artt. 26 e 28 del D.Lgs. n. 81/2008:
- non sono equiparabili al modello organizzativo e gestionale di cui al D.Lgs. n. 231/2001;
- non assumono valenza nella direzione di assicurare l’efficacia esimente di cui agli artt. 6 e 7.
In merito, occorre rilevare che il sistema introdotto dal D.Lgs. n. 231/2001 impone alle imprese di adottare un modello organizzativo diverso e ulteriore rispetto a quello previsto dalla normativa antinfortunistica, onde evitare in tal modo la responsabilità amministrativa.
Non a caso, mentre i documenti di valutazione dei rischi nel contesto normativo di cui al D.Lgs. n. 81/2008 sono disciplinati dagli artt. 26 e 28, il modello di organizzazione e gestione di cui al D.Lgs. n. 231/2001 è contemplato dall'art. 30 del citato D.Lgs. n. 81/2008, segnando così una distinzione non solo nominale ma anche funzionale.
d. I modelli organizzativi nei gruppi d’imprese
Le indicazioni sopra prospettate possono conservare la loro validità di massima anche con riferimento al modello organizzativo di riferimento da adottare all’interno di un “gruppo di imprese”, adattandolo ovviamente alle esigenze delle singole realtà123.
Con specifico riguardo ai modelli organizzativi da adottare all’interno di un gruppo di imprese occorrerà tener conto che:
- in ogni società controllata dovrà, comunque, essere istituito l’organismo di vigilanza ex articolo 6, primo comma, lett. b), con tutte le relative competenze e responsabilità, fatta salva la possibilità di attribuire questa funzione direttamente all’organo dirigente della controllata, se di piccole dimensioni, così come espressamente previsto dall’articolo 6, comma 4;
- l’organismo della controllata potrà avvalersi, nell’espletamento del compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello, delle risorse allocate presso l’analogo organismo della capogruppo, sulla base di un predefinito rapporto contrattuale con la stessa;
- i dipendenti dell’organismo della capogruppo, nell’effettuazione di controlli presso le società del gruppo, assumono, nella sostanza, la veste di professionisti esterni che svolgono la loro attività nell’interesse della controllata stessa, riportando all’organismo di vigilanza di quest’ultima, con i vincoli di riservatezza propri del consulente esterno.
In queste ipotesi sarà sicuramente opportuno prevedere adeguati meccanismi di coordinamento e raccordo tra l’attività di vigilanza della holding e gli organismi di vigilanza delle società controllate, al fine di evitare divergenze e discrasie negli indirizzi e nei criteri adottati per lo svolgimento dell’attività di audit tra le società del gruppo124.
Sempre in tema di gruppi di imprese, una annotazione separata meritano le problematiche relative ai gruppi di imprese in cui la capogruppo sia una società di diritto straniero e che, a loro volta, si qualifichino ai fini del diritto italiano come soggetti alla normativa del D.Lgs. n. 231/2001.
Tali gruppi di imprese multinazionali presenti ed operanti sul territorio italiano possono essere, in virtù di specifiche disposizioni normative interne degli ordinamenti di appartenenza, tenuti al rispetto di codici di condotta e di procedure interne di controllo dell’attività e della gestione da parte della controllante estera. In questo caso, occorre precisare che, laddove il modello di organizzazione, gestione e controllo già attuato dalla controllante ai sensi di pratiche e norme straniere risponda altresì ai requisiti previsti dal D.Lgs. n. 231/2001, esso potrà ritenersi valido.
e. L’adozione dei modelli organizzativi successiva alla contestazione dell’illecito
Le misure cautelari previste dagli articoli 45 e ss. del D.Lgs. n. 231/2001 possono essere sospese (art. 49) ovvero revocate (art. 50) quando ricorrono congiuntamente le condizioni di cui all’art. 17, tra cui rientra [cfr. lettera b)] anche l’eliminazione, successivamente alla contestazione dell’illecito ma comunque entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, delle carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Tuttavia, in tale situazione, affinché tale modello ex post possa dirsi idoneo a scongiurare la commissione di reati della stessa specie di quello verificatosi, occorre formulare una valutazione, non in termini esclusivamente prognostici ed ipotetici, ma che tenga conto del dato fattuale desumibile dalla prospettazione accusatoria.
In particolare, prendendo spunto da quanto emerso in sede giurisprudenziale (cfr. G.I.P. presso Tribunale di Roma, ordinanza in data 04.04.2003), la polizia giudiziaria, laddove sia attivata nel merito dall’A.G. procedente, dovrà indirizzare la propria attività in modo tale da verificare che “i protocolli rivolti a procedimentalizzare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente ove vengano adottati non in funzione di prevenzione del rischio [e quindi in via preventiva, a norma dell’art. 6] ma successivamente al verificarsi dell’illecito ... (tengano, ndr) conto nel concreto della situazione che ha favorito la commissione dell’illecito così da eliminare le carenze organizzative che hanno determinato il reato. ... Conseguentemente, in siffatta ipotesi, il contenuto programmatico dell’attività dell’ente, specificato nei modelli . dovrà essere mirato e calibrato espressamente sulle carenze organizzative che hanno favorito la commissione del reato”.
Da quanto precede, emerge che le indicazioni fornite dal legislatore nell’art. 6 hanno indubbia valenza anche in relazione ai modelli organizzativi previsti dall’art. 17, ma con una fondamentale differenza: la valutazione circa l’idoneità del modello organizzativo adottato ex post, andrà fatta non sulla base di semplici prognostiche valutazioni potenziali, ma alla luce di una ben più dettagliata analisi anche “storica”, che tenga conto delle specifiche caratteristiche di fatto che hanno accompagnato la maturazione e il compimento concreto dell’illecito, perché implicante specifici interventi calibrati e mirati sulle carenze organizzative evidenziatesi.
Il modello confezionato post factum ai fini della sospensione della misura non necessariamente dovrà essere strutturalmente diverso da quello eventualmente già predisposto dall’ente ante factum, essendo richiesto, invece, che sia idoneo a ridurre l’area di rischio. Sul punto è stato fatto notare che, se senza dubbio la commissione dell’illecito può aver evidenziato l’inadeguatezza del modello precedentemente adottato, non necessariamente la sua efficacia è stata compromessa, potendo lo stesso illecito essere stato agevolato da una cattiva attuazione del modello medesimo e non già da suoi limiti strutturali (cfr. G.I.P. presso il Tribunale di Milano, ordinanza in data 20.9.2004).
Pertanto, se i modelli organizzativi predisposti ex ante possono legittimamente fondarsi sul criterio di minimizzazione del rischio, quelli adottati successivamente “dovranno risultare maggiormente incisivi in termini di efficacia dissuasiva e dovranno valutare (ed eliminare, ndr) in concreto le carenze dell’apparato organizzativo e operativo dell’ente, che hanno favorito la perpetrazione dell’illecito" (cfr. G.I.P., Sez. XXXIII, presso il Tribunale di Napoli, ordinanza in data 26.06.2007).
Infine, si segnala che l’adozione di un modello organizzativo successiva alla contestazione dell’illecito è rilevante, come già evidenziato infra, anche ai fini della riduzione delle sanzioni pecuniarie (cfr. art. 12, comma 2).

5. Il funzionamento dell’organismo di vigilanza
Il corretto ed efficace svolgimento dei compiti affidati all’ODV sono presupposti indispensabili per l’esonero dalla responsabilità, sia che il reato sia stato commesso dai soggetti “apicali” sia che sia stato commesso dai soggetti sottoposti all’altrui direzione (in tal senso andrebbe letto l’art. 7, comma 4, laddove prevede che l’efficace attuazione del modello richiede, oltre all’istituzione di un sistema disciplinare, una sua verifica periodica, evidentemente da parte dell’organismo a ciò deputato).
A tale organo all’uopo istituito, perché operi costantemente in coordinamento con l’ente, pur risultando soggetto autonomo ed indipendente da esso, sono rimessi, come già anticipato nella Parte I, Capitolo 5, paragrafo 3., la verificazione, applicazione ed aggiornamento dei modelli di organizzazione e gestione.
a. I requisiti
I principali requisiti che l’organismo in esame deve possedere, come individuati anche in sede giurisprudenziale, sinteticamente, si possono riassumere come segue125:
- autonomia ed indipendenza: qualità che si ottengono con l’inserimento dell’ODV come unità di staff in una posizione gerarchica la più elevata possibile.
L’autonomia va intesa in senso non meramente formale, nel senso che è necessario che l’ODV:
• sia dotato di effettivi poteri di ispezione e controllo;
• abbia possibilità di accesso alle informazioni aziendali rilevanti;
• sia dotato di risorse (anche finanziarie) adeguate;
• possa avvalersi di strumentazioni, supporti ed esperti nell’espletamento della sua attività di monitoraggio.
Quanto al requisito dell’indipendenza, i componenti del citato organo di controllo interno non devono trovarsi in una posizione, neppure potenziale, di conflitto di interessi con l’ente né essere titolari all’interno della stessa di funzioni di tipo esecutivo che, rendendolo partecipe di decisioni ed attività operative, ne minerebbero l’obiettività di giudizio nel momento delle verifiche sui comportamenti e sul modello;
- professionalità: connotato riferito al bagaglio di strumenti e tecniche che l’organismo deve possedere per poter svolgere efficacemente l’attività assegnata126;
- continuità di azione: per soddisfare la previsione di cui all’art. 6, comma 1, lettera d), e quindi per poter dare la garanzia di efficace e costante attuazione di un modello così articolato e complesso quale é quello delineato, soprattutto nelle aziende di grandi e medie dimensioni, si rende necessaria la presenza di una struttura interna dedicata esclusivamente ed a tempo pieno all’attività di vigilanza sul modello organizzativo priva, come detto, di mansioni operative che possano portarla ad assumere decisioni con effetti economico-finanziari.
b. I compiti
L’ODV non costituisce una sovrapposizione rispetto agli organi di controllo previsti dai diversi sistemi di gestione, anzi imposta un “comportamento” dell’ente all’interno e all’esterno che si integra con gli scopi di una corretta gestione e di un efficiente apparato di controllo, attraverso la giusta previsione di un sistema di scambio incrociato di informazioni tra l’organo amministrativo, quello di controllo (collegio sindacale) e l’organismo di vigilanza.
Nel dettaglio, le attività che l’organismo è chiamato ad assolvere (“vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli e curarne l’aggiornamento”), anche sulla base delle indicazioni contenute negli artt. 6 e 7 del D.Lgs. n. 231/2001, seguendo uno schema tratto dalle Linee Guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. n. 231/2001 redatte dal Gruppo di lavoro sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche a cura di Confindustria, possono essere riassunte come segue:
- vigilanza sull’effettività del modello, che si sostanzia nella verifica della coerenza tra i comportamenti concreti ed il modello istituito;
- disamina in merito all’adeguatezza del modello, ossia della sua reale (e non meramente formale) capacità di prevenire, in linea di massima, i comportamenti non voluti;
- analisi circa il mantenimento nel tempo dei requisiti di solidità e funzionalità del modello;
- cura del necessario aggiornamento in senso dinamico del modello, nell’ipotesi in cui le analisi operate rendano necessario effettuare correzioni per garantire che il modello si mantenga “adeguato” nel tempo. Tale cura, di norma, si realizza in due momenti distinti ed integrati:
• presentazione di proposte di adeguamento del modello verso gli organi/funzioni aziendali in grado di dare loro concreta attuazione nel tessuto aziendale. Casi in cui si rende necessaria la formulazione di proposte possono essere individuati in:
.. significative violazioni del modello organizzativo;
.. significative modificazioni dell’assetto interno della società e/o delle modalità di svolgimento dell’attività d’impresa;
.. modifiche normative;
follow-up, ossia verifica dell’attuazione e dell’effettiva funzionalità delle soluzioni proposte;
- segnalazione, segnatamente documentale, all’organo dirigente, per gli opportuni provvedimenti, di quelle violazioni accertate del modello organizzativo che possano comportare l’insorgere di una responsabilità in capo all’ente.
E’ necessario che l’ODV provveda a documentare lo svolgimento dei suoi compiti. Infatti, l’attività di documentazione, da svolgersi in modo sintetico, chiaro, approfondito ed obiettivo, non deve essere sottovalutata né considerata come un aggravio burocratico-amministrativo da parte dei suoi componenti posto che:
- dai documenti si può evincere la "sufficiente vigilanza”;
- può essere necessario, come nel caso di successiva attività investigativa della polizia giudiziaria finalizzata all’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente, ricostruire, anche ad anni di distanza, l’attività di vigilanza posta in essere dal citato organismo di controllo interno.
Per quanto attiene alle aziende di piccole dimensioni, al fine di non gravare eccessivamente in termini economici sulle medesime, il legislatore consente di affidare i compiti demandati all’organismo di vigilanza direttamente all’amministratore della società o al socio responsabile della stessa, preoccupandosi in tal modo di non gravare sulla piccola impresa obbligandola a sopportare costi sicuramente eccessivi e non commisurati all’obiettivo della legge.
c. I poteri
Per poter assolvere in modo esaustivo i propri delicati ed onerosi compiti l’ODV deve essere dotato, come specificano la legge in commento [articolo 6, 1° comma, lett. b) D.Lgs. n. 231/2001] ed i primi interventi giurisprudenziali, di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, ovvero di strumenti adeguati per poter verificare l’idoneità delle procedure codificate per la prevenzione degli illeciti e la puntuale e completa attuazione delle stesse in ciascuna delle aree di rischio individuate in seno alla società.
Decisiva, in tal senso, è l’autonomia nei confronti degli organi di direzione ed amministrazione dell’ente che deve caratterizzare le fasi dell’ "iniziativa” e del "controllo”.
In estrema sintesi, l’organismo dovrà essere munito della capacità di decidere cosa, quando, e come esplicare la propria fondamentale funzione di controllo, agendo in modo indipendente dalle altre funzioni ed organi di vertice dell’ente, in quanto, come si ribadisce, sono essi stessi destinatari dell’attività ispettiva.
Inoltre, molto significativa, evidentemente, è la facoltà di attivarsi (con criteri di autonomia) nella richiesta di informazioni, dati e documenti verso tutte le componenti interne dell’ente.
Ulteriori, fondamentali, prerogative dell’ODV sono da individuare nella facoltà di eseguire interviste e raccogliere segnalazioni; in caso di aziende di grosse dimensioni e dotate di adeguate risorse finanziarie, l’organismo, inoltre, potrà addirittura esser dotato di risorse proprie ovvero, ove necessario, ricorrere a consulenti esterni.
d. I flussi informativi destinati all’Organismo di Vigilanza
A tal riguardo assume fondamentale rilevanza il generale obbligo di assoluta ed incondizionata collaborazione incombente su tutti i livelli e le funzioni della società o dell’ente, siano essi operativi ovvero di direzione o di amministrazione.
In tal senso, la legge esplicitamente prevede precisi obblighi di informazione di cui l’organismo di controllo deve risultare destinatario, anche se la relazione illustrativa sul punto non fornisce ulteriori chiarimenti.
Ai sensi del disposto dell’art. 6, comma 2, lett. d) i modelli devono "prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli”127.
L’organo di controllo interno deve essere tenuto costantemente informato sull’evoluzione delle attività nelle aree a rischio ed ha libero accesso a tutta la documentazione aziendale rilevante, compresi i relativi dati di aggiornamento.
Sarà, inoltre, destinatario di segnalazioni da parte del management circa eventuali situazioni dell’attività aziendale che possano esporre l’azienda al rischio di reato nonché di ogni altra informazione, di qualsiasi tipo, proveniente anche da terzi ed attinente all’attuazione del modello nelle aree a rischio.
A titolo meramente esemplificativo all’ODV dovranno essere segnalati:
- eventuali notizie relative alla commissione, o alla ragionevole convinzione di commissione, di reati-presupposto;
- ogni violazione o presunta violazione delle regole previste dal modello, o comunque comportamenti non in linea con le regole di condotta adottate dall’ente.
Per quanto precede, sarà necessario che il modello di organizzazione disciplini efficaci procedure di reportistica interna indirizzate all’ODV, da attivare per iscritto (anche tramite casella postale o a mezzo linea fax dedicata) ovvero tramite e-mail dedicata con accesso esclusivo ai suoi componenti, via gerarchico ovvero direttamente. L’ODV dovrà agire approfondendo la segnalazione al fine di trarre un proprio imparziale e documentato convincimento circa la veridicità dell’informativa e, comunque, in modo tale da garantire i segnalanti contro qualsiasi forma di ritorsione, discriminazione o penalizzazione, assicurando, altresì, la riservatezza dell’identità del segnalante, fatti salvi gli obblighi di legge e la tutela dei diritti delle persone accusate erroneamente e/o con mala fede.
In tale ambito, il compito della polizia giudiziaria sarà quello di stimare la completezza, soprattutto in termini di qualità, e la tempestività delle informazioni destinate all’organismo di controllo, allo scopo di constatare l’effettivo funzionamento dei meccanismi di prevenzione predisposti e la concreta capacità di reazione del citato organismo di vigilanza nello specifico contesto.


CAPITOLO 4
L’ATTIVITÀ FUNZIONALE ALL’APPLICAZIONE DELLE MISURE CAUTELARI


1. L’attività della polizia giudiziaria

L’attività della polizia giudiziaria potrà assumere rilevanza anche in prospettiva di una successiva fase cautelare, in cui il giudice potrà essere chiamato ad adottare le specifiche misure cautelari interdittive ovvero reali previste dalla normativa in commento, di cui si è già diffusamente argomentato nella Parte I, Capitolo 6, del presente Volume, cui si rinvia per ogni dettaglio.
Con riguardo all’applicazione in sede cautelare di eventuali misure interdittive, tenuto conto del combinato disposto degli artt. 13, comma 1, e 45 del D.Lgs. n. 231/2001, si segnala la necessità che l’attività investigativa sia orientata fin dalla fase preliminare, altresì, ad acquisire elementi probatori rilevanti in punto di:
- reiterazione degli illeciti da parte dell’ente;
- rilevante entità del profitto conseguito dall’ente;
- gravità delle carenze organizzative che hanno determinato o agevolato la commissione del reato presupposto da parte dei soggetti sottoposti all’altrui direzione,
ciò nella considerazione della richiesta sussistenza di una serie di presupposti, in parte mutuati dalla corrispondente disciplina codicistica, che richiede la presenza del fumus commissi delicti e del periculum in mora.
In via generale, quanto al fumus commissi delicti, riprendendo le considerazioni evidenziate nella relazione illustrativa al provvedimento in rassegna, è richiesta la sussistenza di “gravi indizi” sulla responsabilità dell’ente per l’illecito amministrativo. Per valutare la valenza probatoria dei gravi indizi occorrerà considerare che essa potrà essere inferiore a quella necessaria per giustificare il giudizio dibattimentale o l’affermazione della responsabilità, nel senso che deve trattarsi comunque di indizi che devono essere valutati nell’ottica di un giudizio prognostico per verificare - allo stato degli atti - il fumus commissi delicti, cioè una probabilità di colpevolezza alta, qualificata, ragionevole e capace di resistere ad interpretazioni alternative.
In sede investigativa la verifica dei gravi indizi riferiti all’applicabilità delle misure cautelari interdittive dovrà tener conto della particolare natura e struttura dell’illecito amministrativo contestato all’ente, la cui responsabilità è “derivata” da quella dell’autore del reato.
Pertanto, occorrerà acquisire un patrimonio di evidenze indiziarie connotate da gravità che investano il complesso meccanismo di imputazione della responsabilità all’ente di cui all’art. 5. In sostanza, la valutazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi andrà riferita:
- al reato posto in essere;
- alla verifica dell’interesse o del vantaggio derivante all’ente;
- al ruolo dei soggetti indicati nelle lett. a) e b) del citato art. 5.
La verifica del periculum, e quindi delle esigenze cautelari che giustificano l’adozione di una misura, deve fondarsi su elementi concreti e specifici, che attestino una probabilità effettiva ed attuale circa il verificarsi della commissione di illeciti della stessa indole di quello per cui si procede.
Deve trattarsi, dunque, di un pericolo concreto, inteso non come realizzazione delittuosa in itinere, ma come dato da desumere da fatti e condotte già accaduti o posti in essere: il riferimento, in sostanza, è alla “pericolosità” dell’ente, intesa come “politica imprenditoriale”.
In merito alle premesse generali più sopra richiamate, seguendo anche l’insegnamento della Cassazione (cfr. sentenza n. 32626/2006), occorrerà acquisire elementi che consentano al giudice la valutazione di due tipologie di elementi, il primo di carattere oggettivo (relativo alle modalità e circostanze del fatto) ed il secondo di carattere soggettivo, attinente alla personalità dell’ente.
Quanto al primo elemento, quello oggettivo, si tratterà di valutare la gravità dell’illecito, ad esempio considerando il numero degli illeciti commessi, l’entità del profitto e lo stato di organizzazione dell’ente, cioè la sua capacità di agevolare o evitare la commissione dei reati.
La personalità dell’ente deve, invece, essere considerata secondo la politica d’impresa attuata negli anni e gli eventuali illeciti commessi in precedenza.
In particolare, la prognosi di pericolosità deve essere legata ad una effettiva valutazione della personalità dell’ente, desumibile dai comportamenti dallo stesso tenuti e indirizzati a sanare le proprie lacune organizzative, a privarsi degli eventuali profitti ricavati dalla consumazione del reato e a sanare le conseguenze dannose provocate, non potendo la stessa essere dedotta esclusivamente dalla commissione dell’illecito per cui si procede, posto che altrimenti tale pericolosità sussisterebbe in ogni caso fino a risultare tautologica (cfr. Tribunale di Milano, sentenza in data 14 dicembre 2004)128.
Inoltre, si renderà necessario verificare se l’ente, nel caso di reati-presupposto commessi da soggetti in posizione apicale, abbia provveduto alla loro sostituzione o estromissione, posto che tale “reazione”, come confermato in sede giurisprudenziale (cfr. Cass. sentenza n. 32626/2006), testimonierebbe favorevolmente l’esclusione della sussistenza del periculum richiesto in sede cautelare, purché ciò “rappresenti il sintomo che l’ente inizi a muoversi verso un diverso tipo di organizzazione”, orientata nel senso della prevenzione dei reati.
In tale ambito, la polizia giudiziaria dovrà verificare, però, che la sostituzione del gruppo dirigente sia reale e non apparente, indirizzando l’attività investigativa in modo tale da accertare se i nuovi vertici designati dall’ente siano o meno strettamente collegati con gli apicali rimossi e se da questi ultimi continuino a ricevere direttive.
Con riguardo alla reiterazione degli illeciti, se è vero che l’adozione di un efficace, idoneo modello organizzativo certamente limita il pericolo di reiterazione dell’illecito, non è necessariamente vero l’inverso. Infatti, in tale ultimo caso, alla luce del dettato dell’art.45 (che tra l’altro omette qualsiasi riferimento ai modelli), non sarà possibile, sulla base di una sorta di presunzione iuris et de iure, desumere la pericolosità dell’ente, dovendosi comunque valutare l’idoneità della lacuna organizzativa a rendere effettivo il rischio di commissione futura di nuovi illeciti.
Infine, con riguardo alla rilevanza del profitto, tenendo conto di quanto statuito sul punto dalla giurisprudenza (cfr. Cass., sentenza n. 44992/2005, e G.I.P., Sez. XXXIII, presso Tribunale di Napoli, ordinanza in data 26.06.2007), la polizia giudiziaria non dovrà necessariamente procedere in ogni caso alla sua esatta quantificazione, potendo essere la stessa “legittimamente dedotta dalla natura e dal volume dell’attività d’impresa, non occorrendo che i singoli introiti che l’ente ha conseguito dall’attività illecita posta in essere siano specificamente individuati né che se ne conoscano gli importi liquidati. Pertanto viene correttamente ritenuto di rilevante entità il profitto dell’ente per il fatto della sua partecipazione a numerose gare con assegnazione di appalti pubblici, avuto riguardo alle caratteristiche e alle dimensioni dell’azienda".
In punto di profitto di rilevante entità, in sede giurisprudenziale (cfr. Cass., sentenze n. 44992/2005 e n. 32627/2006) è stato chiarito che il giudizio circa la sussistenza di un profitto "di rilevante entità" non discende automaticamente dalla considerazione del valore del contratto o del fatturato ottenuto a seguito del reato, seppure tali importi ne costituiscano, ove rilevanti, importante indizio, almeno con riferimento ad alcuni dei reati indicati negli artt. 24 e 25.
Tuttavia, corre l’obbligo segnalare che, ferme restando le indicazioni giurisprudenziali sopra riportate, occorrerà, laddove possibile, che la polizia giudiziaria proceda sempre alla quantificazione del profitto conseguito dall’ente sia nell’ottica del sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca, anche per equivalente, ex combinato disposto degli artt. 19 e 53, sia nell’ottica di consentire all’A.G. competente la valutazione circa la non applicazione delle misure interdittive ai sensi dell’art. 17, posto che, tra le altre, una delle condizioni richieste (cfr. lettera c) ) è che l’ente, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, quale concreta riparazione delle conseguenze del reato, abbia messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.
Infine, con riguardo alle misure cautelari reali, con specifico riferimento al sequestro preventivo di cui all’art. 53, tenendo conto del dato letterale della norma nonché delle indicazioni rilevabili in sede giurisprudenziale (cfr. Cass., Sez. II, Penale, sentenze n. 316/2007 e n. 9829/2006), non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il periculum richiesto per il sequestro preventivo di cui all'art. 321 c.p.p., comma 1, essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato-presupposto.
a. La nozione di profitto nel contesto del D.Lgs. n. 231/2001
La problematica relativa alla individuazione della nozione di profitto rilevante ai fini del D.Lgs. n. 231/2001, dopo essere stata oggetto di diverse pronunce di merito e di legittimità, non sempre chiare ed univoche, è stata affrontata e risolta dalla Cassazione, SS.UU. Penali, con la sentenza n. 26654/2008129.
Dopo aver premesso che in nessuna disposizione legislativa è possibile rinvenire una definizione della relativa nozione né tanto meno una specificazione del tipo di “profitto lordo" o “profitto netto", il supremo Organo di legittimità, analizzando il D.Lgs. n. 231/2001, evidenzia che il termine “profitto" è menzionato in diverse disposizioni del decreto, che disciplinano situazioni eterogenee, assumendo significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in cui è inserito.
In particolare, le Sezioni Unite sottolineano che il “profitto" costituisce:
- oggetto del riequilibrio economico-sociale in assenza di responsabilità dell’ente (art. 6, comma 5);
- oggetto della confisca-sanzione (artt. 9, 19 e 23);
- oggetto della confisca di quanto deriva dalla gestione commissariale disposta in sostituzione delle sanzioni o delle misure cautelari interdittive (art. 15, comma 4)130;
- se di “rilevante entità", la condizione, alternativa alla recidiva, per l’applicazione nei confronti dell’ente delle sanzioni interdittive (art. 13, comma 1, lett. a) e 16, comma 1), ovvero circostanza aggravante dell’illecito connesso al reato-presupposto (art. 24, comma 2, art. 25, comma 3, art. 25-ter, comma 2, e art. 25-sexies, comma 2)131;
- se restituito al danneggiato, oggetto di una delle condotte “riparatorie" che l’ente deve porre in essere, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, per evitare l’applicazione delle sanzioni interdittive (art. 17, lett. c).
Ai fini che qui più interessano, con riguardo al profitto menzionato all’art. 19, viene sottolineato (richiamando anche le proprie sentenze n. 29952/2004, a SS.UU., e n. 26747/2003, Sez. VI) che esso va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico che conducano ad una sua identificazione con una grandezza di tipo residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito132.
Tuttavia, le Sezioni Unite chiariscono che, se le nozioni di profitto sopra delineate ben si adattano alle ipotesi di attività totalmente illecita, vi sono ipotesi, come quella dell’attività lecita d’impresa nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato, in cui l’applicazione del principio relativo all’individuazione del profitto del reato, così come sopra illustrato, può subire una deroga o un ridimensionamento, nel senso che deve essere rapportata e adeguata alla concreta situazione che viene in considerazione.
In particolare, viene evidenziato che nell’ambito di rapporti di natura sinallagmatica, a prestazioni corrispettive, può essere difficile individuare e distinguere gli investimenti leciti da quelli illeciti, sottolineando come la genesi illecita di un rapporto giuridico, che comporta obblighi sinallagmatici destinati anche a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota di illiceità l’intera fase evolutiva del rapporto, dalla quale, invece, possono emergere spazi assolutamente leciti ed estranei all’attività criminosa nella quale sono rimasti coinvolti determinati soggetti e, per essi, l’ente collettivo di riferimento133.
Muovendo da tali considerazioni, la Cassazione, concludendo che il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure, ha affermato il principio secondo cui “il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca, disposto - ai sensi degli art. 19 e 53 del D.Lgs. n. 231/01 - nei confronti dell’ente collettivo, è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente"134.
Per le Sezioni Unite, dunque, deve essere in definitiva sottratto alla confisca il corrispettivo ricevuto per il compimento delle prestazioni contrattualmente pattuite, ancorché nei limiti dell’utilità conseguita dal danneggiato a causa del loro svolgimento135.
Per quanto sinora evidenziato, la polizia giudiziaria, nella sua attività di individuazione e quantificazione del profitto del reato, ricorrendo agli strumenti ed alle competenze tipiche della polizia economico-finanziaria, dovrà tener conto delle indicazioni emerse in sede giurisprudenziale, avendo cura di distinguere, non genericamente tra ricavo ed utile, ma se si versi o meno in ipotesi di attività totalmente illecita, nella considerazione di dover rispondere all’esigenza di differenziare, sulla base di specifici e puntuali accertamenti, il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) e il corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la sua genesi nell’illecito (profitto non confiscabile).
Nell’ipotesi di attività totalmente illecita, quale a titolo meramente esemplificativo l’ipotesi di truffa aggravata finalizzata all’indebito ottenimento di finanziamenti pubblici, potrà farsi ricorso, come è stato confermato ex multis dalla Cassazione con sentenza n. 14973/2009, ad una nozione di profitto del reato strettamente giuridica e quindi “totalizzante”, cioè comprensiva di ogni beneficio derivante dalla commissione del reato-presupposto che a quest’ultimo sia legato da un vincolo di pertinenzialità136.
Seguendo l’orientamento del Supremo Collegio, dunque, nell’ambito dell’attività investigativa, non si dovrà procedere ad operare una differenziazione tra profitto lordo e profitto netto, con la conseguente impossibilità per l’ente di scomputare i costi sostenuti per la consumazione del reato137, ma occorrerà distinguere tra corrispettivo corrispondente al valore intrinseco delle opere e dei servizi resi a vantaggio del soggetto passivo del reato, ed eventuale guadagno remunerativo del rischio d’impresa lucrato dall’ente, il cui conseguimento è la stessa “causa” del reato presupposto, posto che solo tale ultimo potrà essere oggetto di confisca, e quindi di sequestro preventivo in fase cautelare.
Pertanto, l’organo investigativo dovrà considerare che l’area del profitto confiscabile può mutare a seconda del tipo di reato-presupposto ed anche delle modalità con cui quest’ultimo interferisce con l’esercizio dell’attività lecita, senza mai dimenticare di accertare in concreto il vincolo di pertinenzialità, che costituisce l’unico criterio selettivo, distinguendo tra quanto effettivamente pervenuto all’ente collettivo come immediata conseguenza dell’illecito, nella considerazione che, comunque, la nozione di profitto rimane saldamente ancorata al rapporto di dipendenza tra provento e reato, essendo il profitto definito come “una conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato”138.
b. Il sequestro preventivo per equivalente finalizzato alla confisca: generalità ed indicazioni emerse in sede giurisprudenziale
Come già anticipato nella Parte I, Capitolo 6, paragrafo 6., tra le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, accanto alla sanzione pecuniaria, alla sanzione interdittiva e alla pubblicazione della sentenza di condanna, è prevista la confisca del prezzo o del profitto del reato, ad eccezione della parte che può essere restituita al danneggiato e «salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede» (art. 19, comma 1).
Qualora non sia possibile eseguire la confisca del prezzo o del profitto del reato, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto anzidetti (art. 19, comma 2).
In merito, va rilevato che l’art. 53, in funzione della successiva confisca di cui all’art. 19, prevede il sequestro preventivo delle medesime res e, quindi, non solo del profitto o del prezzo del reato di per sé, ma anche, per equivalente, espressamente applicandosi, inoltre, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli artt. 321, commi 3, 3-bis e 3-ter139, 322140, 322- bis141 e 323142 c.p.p..
Da ciò consegue, sul piano operativo, l’importanza determinante degli accertamenti compiuti dai Reparti del Corpo in quanto organi di polizia economica e finanziaria, relativamente alle disponibilità direttamente o indirettamente riconducibili agli enti responsabili ex D.Lgs. n. 231/2001, al fine di attivare già nella fase delle indagini preliminari il sequestro preventivo dei beni di cui è consentita la confisca, ai sensi del combinato disposto degli artt. 19 e 53 della normativa in rassegna.
Sul punto la polizia giudiziaria, nel proporre ovvero nell’eseguire la citata misura cautelare delegata dalla competente A.G., dovrà tener conto di alcune indicazioni emerse in sede giurisprudenziale che di seguito si riportano:
- la stima accurata del valore dei beni da sequestrare non può evidentemente precedere il sequestro degli stessi dal momento che altrimenti si renderebbe possibile la sottrazione dei beni alla successiva esecuzione del provvedimento cautelare. Tuttavia, è necessario, in occasione dell’esecuzione del sequestro per equivalente, procedere ad una comparazione, seppur di massima, tra il valore dei beni confiscabili e di quelli sequestrati (cfr. Cass., Sez., II Penale, sentenza n. 316/2007);
- in ipotesi di associazione temporanea di imprese (A.T.I.) fondata sul rapporto contrattuale del mandato con rappresentanza gratuito e irrevocabile conferito da più imprese alla capogruppo mandataria, la Suprema Corte ha affermato che ognuna conserva la propria autonomia in termini di responsabilità per reati commessi da soggetti apicali o sottoposti che funzionalmente hanno operato nell’interesse dell’ente di appartenenza, ravvisando una “convergenza di responsabilità da inquadrarsi nell’ottica del concorso”.
Da ciò consegue, in presenza di illecito plurisoggettivo, l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente: pertanto, la polizia giudiziaria potrà operare il sequestro preventivo, anche nella forma per equivalente, indifferentemente nei confronti di ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato non essendo lo stesso ricollegato all’arricchimento di un soggetto piuttosto che di un terzo coinvolto, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito senza che rilevi il riparto del relativo onere tra i concorrenti che costituisce fatto interno tra questi ultimi (cfr. Cass., SS.UU., sentenza n. 26654/2008; Cass., Sez. II, sentenze nn. 38599/2007, 9786/2007, 31989/2006, 30729/2006 e 10838/2006);
- confermando la non configurabilità del concorso tra il delitto di frode fiscale (art. 2 D.Lgs. n. 74/2000) e quello di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, n. 1, c.p.), dovendosi ritenere il secondo consumato nel (ovvero in rapporto di specialità con il) primo, ed estendendo tali conclusioni alla sede della responsabilità amministrativa degli enti, la Cassazione, Sez. II penale, con sentenza n. 41488/2009, ha statuito l’impossibilità di applicare la confisca per equivalente ex art. 19, e conseguentemente di operare in via cautelare il relativo sequestro preventivo di cui all’art. 53, non essendo tali strumenti previsti dal D.Lgs. n. 231/2001 anche per i reati tributari, che non rientrano tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti.
Conseguentemente, in sede investigativa occorrerà evitare, in applicazione del principio di legalità, di scomporre un reato "complesso” concentrandosi solo su una parte della condotta per far derivare da questa determinate conseguenze, quali appunto la possibilità di attivare la misura cautelare del sequestro preventivo per equivalente.
Infatti, è stato ritenuto possibile “ai fini elusivi della legge” valorizzare “esclusivamente gli elementi della truffa aggravata contenuti nel delitto tributario, del quale, è bene precisarlo, il legislatore ha escluso finora la natura di reato presupposto della responsabilità degli enti” né tantomeno “scomporre” il delitto di frode fiscale “al fine di apprezzarne penalmente una sua parte, solo con riguardo alla responsabilità della persona giuridica";
- con riferimento al momento di realizzazione del profitto, la Suprema Corte con sentenza del 12 aprile 2011 ha statuito che tale momento temporale è del tutto irrilevante ai fini dell’esecuzione del sequestro “in quanto esso costituisce solo l’oggetto della sanzione- confisca, che ha il suo presupposto nell’esistenza del reato accertato con sentenza, condizione che il reato risulti commesso nella vigenza del decreto legislativo n. 231 del 2001”. Pertanto, ciò che rileva ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 9 del D.lgs. n. 231/2001 è il momento consumativo del reato e non quello della realizzazione del profitto, per cui l’intera disciplina sanzionatoria non trova applicazione in relazione a “fatti” commessi prima della sua entrata in vigore;
- con riguardo all’oggetto del sequestro preventivo per equivalente, oltre a richiamare quanto più sopra evidenziato relativamente alla nozione di “profitto”, corre l’obbligo sottolineare che la Cassazione ha avuto modo di chiarire con le sentenze:
• n. 42894/2009, che la misura cautelare può riguardare anche gli importi ottenuti dall’ente responsabile in via amministrativa a titolo di finanziamento da un istituto di credito, non assumendo rilevanza il credito da quest’ultimo vantato nei confronti del primo;
• n. 7718/2009, Sez. V, penale, che il sequestro preventivo può essere operato anche in presenza di un reato presupposto che è rimasto al solo stadio di “tentativo”, tenendo sempre presente però che lo stesso può riguardare il vantaggio economico direttamente ed effettivamente conseguito con l’illecito. Pertanto, la Suprema Corte conclude che “l’imputazione a profitto di semplici crediti, anche se liquidi ed esigibili, non può essere condivisa poiché, in effetti, trattasi di utilità non ancora percepite ma solo attese ...”143.
n. 316/2007, Sez. II, penale, che le quote sociali non sono un bene della società ma dei soci, sicché possono essere sequestrate, ove ne ricorrano i presupposti, nei confronti di costoro ma non nei confronti della società ai sensi dell’art. 53 del D.Lgs. n. 231/2001;
n. 31989/2006, giudicando un’ipotesi di truffa aggravata ai danni dello Stato, che il sequestro preventivo operato nei confronti dell’ente amministrativamente responsabile, preordinato alla confisca di beni per un valore equivalente al profitto del reato, può essere disposto anche nei confronti della persona fisica che ha concorso nel reato pur se il profitto sia stato interamente acquisito dalla società concorrente nel reato dato che vige, posta la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, il principio solidaristico secondo cui l’intera azione delittuosa e l’effetto conseguente sono imputati a ciascun concorrente;
n. 35748/2010, Sez. VI, penale, che il sequestro preventivo non può avere ad oggetto la somma presentata dall’ente incriminato a garanzia della prestazione poi oggetto di indagine giudiziaria, né, in analogia a quanto stabilito espressamente per la confisca che rappresenta però una misura patrimoniale definitiva, quella parte del profitto (somme o vantaggi) che può essere restituita al danneggiato. Con la citata sentenza, la Cassazione ha affermato la possibilità di sottoporre a sequestro preventivo diretto anche
i crediti, quale profitto del reato, a condizione che gli stessi presentino i caratteri della certezza, liquidità ed immediata esigibilità, di modo che gli stessi siano equiparabili, a tutti gli effetti, ad un bene/incremento patrimoniale attuale, e non futuro ed incerto, sostanzialmente già nella disponibilità dell’avente diritto e tale da giustificare la sua apprensione ex artt. 19 e 53 del D.Lgs. n. 231/2001, escludendo invece che possano formare oggetto di sequestro preventivo (e quindi di confisca) per equivalente posto che in tale ipotesi "il destinatario si vedrebbe privato di un bene già a sua disposizione in ragione di una utilità non ancora concretamente utilizzata”;
n. 14564/2011, che lo stesso, anche se conseguito prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 231/2001 può formare oggetto di sequestro preventivo per equivalente, posto che ciò che rileva ai fini della responsabilità in commento è la data di consumazione del reato- presupposto e non quella di realizzazione del profitto che costituisce solo l’oggetto della sanzione-confisca.

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