LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Coco Giovanni Silvi - Presidente -
Dott. De Grazia Benito Romano - Consigliere -
Dott. Colombo Gherardo - Consigliere -
Dott. Amendola Adelaide - Consigliere -
Dott. Blaiotta Rocco Marco - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
1) C.C., N. IL (omissis);
2) Parti civili;
avverso sentenza del 23/09/2004 Corte Appello Sezione Minorenni di Firenze;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Amendola Adelaide;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Francesco Salzano, che ha concluso per l'annullamento con rinvio agli effetti civili;
Uditi per la parte civile gli avv.ti Betti Vittorio e Viti Giancarlo, che hanno chiesto l'annullamento della sentenza impugnata, anche in riferimento agli aspetti concernenti la responsabilità civile, con condanna dell'imputato e del responsabile civile;
Udito l'avvocato Fanfani Giuseppe per l'imputato, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Con sentenza dell'8 marzo 2003 il Tribunale di Arezzo assolveva, per non aver commesso il fatto, C.C. dal reato di cui all'art. 589 c.p., commi 1, 2 e 3, contestatogli in relazione alla morte di R.N. e R.S., avvenuta in (omissis), contestualmente disponendo la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo per la prosecuzione delle indagini nei confronti di altri soggetti eventualmente responsabili.
L'imputato era stato tratto a giudizio con l'accusa che, quale responsabile dei servizi di prevenzione e sicurezza degli impianti gestiti dall'Ente Irriguo umbro-toscano, per colpa, consistita in imprudenza, negligenza, imperizia nonchè nella violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro (D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 3, 8 e 9) e, segnatamente, nella mancata predisposizione, nel documento di valutazione dei rischi, di dotazioni di salvataggio o comunque di dispositivi di aiuto al galleggiamento, aveva cagionato il decesso dei predetti soggetti che, nell'attingere acqua da un laghetto della diga di (omissis), erano, l'uno dopo l'altro, sprofondati in acqua, annegando.
Proposto gravame da parte del P.G. e delle parti civili, la Corte d'appello di Firenze, ritenuto che l'appello del primo, "in quanto tendente alla condanna dell'imputato, istitui(va) la competenza del giudice di appello in ordine ad ogni aspetto che po(tesse) escludere la colpevolezza dell'imputato medesimo", lo assolveva con la formula "perchè il fatto non sussiste".
In motivazione il giudicante, premessa un'articolata ricostruzione dello stato dei luoghi e dello svolgimento dei fatti, nonchè delle principali argomentazioni svolte dagli impugnanti nei rispettivi ricorsi, rilevava che non era possibile esaminare i profili di responsabilità ascritti al C. se prima non si individuava il fattore di rischio, insito nella struttura, al quale lo stesso non avrebbe posto rimedio. Sul punto, evidenziato con diffuse esemplificazioni che l'ambiente è di per sè pieno di pericoli e che di colpa è dato parlare solo quando sussistono l'insidia e il trabocchetto, osservava che l'infortunio si era in sostanza verificato per imprudenza delle vittime, come era del resto dato evincere dalle stesse considerazioni del Procuratore generale in ordine all'evidenza del pericolo "nel salire e scendere con secchi d'acqua lungo la china scivolosa del laghetto".
In tale contesto, a giudizio del decidente, una responsabilità del C. sarebbe stata ipotizzabile solo ove si fosse individuato, cosa che non era, un riferimento normativo che gli addossasse l'obbligo di prevedere e prevenire anche i rischi creati dall'altrui imprudenza.
Sennonchè nella fattispecie non aveva senso il richiamo alle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, unico settore in cui tale obbligo sussiste, perchè tra i R. e l'Ente Irriguo non vi era rapporto di lavoro, posto che i primi si servivano dell'acqua del bacino in base ad un contratto di fornitura. Evidenziato quindi che la struttura era fornita di una scala in ferro della quale sarebbe stato non solo possibile ma doveroso servirsi, riteneva la Corte d'appello che l'imputato andasse assolto per insussistenza del fatto, essendo i R. rimasti vittime della propria imprudenza.
Ricorrono avverso detta pronuncia, con un due atti distinti, ma di identico contenuto, il difensore di C.L. e S. B., in proprio e nella qualità di esercente la potestà sul figlio minore R.M., e il difensore di P. e R. R., chiedendo che essa venga annullata con rinvio, limitatamente agli interessi civili o che comunque venga affermata la responsabilità dell'imputato, con conseguente condanna dello stesso, insieme e in solido al responsabile civile, al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio oltre che al pagamento delle spese di costituzione e difesa delle parti civili.
All'udienza del 18 gennaio 2007 il Procuratore Generale ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'impugnata sentenza, agli effetti civili.
A sostegno dell'impugnazione i ricorrenti deducono i seguenti motivi:
1) violazione degli artt. 589, 40 e 41 c.p., D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 3, 8 e 9, in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e); carenza ed illogicità della motivazione nonchè violazione di legge, per avere la Corte omesso di valutare, con riferimento al profilo di colpa specifica, la responsabilità dell'imputato in ordine alla contestata violazione della disciplina antinfortunistica.
Lamentano in particolare gli impugnanti che il giudice d'appello abbia escluso la responsabilità del prevenuto, affermando che solo "nel settore della prevenzione degli infortuni sul lavoro" è obbligatorio prevedere e prevenire l'altrui imprudenza, senza avvedersi che al C. era stata contestata proprio la violazione delle norme che tale obbligo sanciscono.
La motivazione sarebbe dunque contraddittoria, illogica e carente, nella parte in cui ometterebbe di valutare la condotta dell'imputato, in rapporto a tale specifico profilo di colpa, senza neppure argomentare sulla pretesa inapplicabilità, in parte qua, delle disposizioni in tema di sicurezza sul lavoro.
Sul punto ricordano che, per consolidata giurisprudenza, l'operatività delle predette disposizioni si estende alle persone estranee al lavoro, che possano comunque "venire a contatto o trovarsi ad operare nel campo di operatività dello strumento, sempre che, ovviamente, sussista nesso causale tra violazione e infortunio".
E ciò tanto più che nella fattispecie il comportamento delle vittime non si connoterebbe affatto come eccezionale, abnorme o esorbitante, rispetto a quello tipico;
2) violazione degli artt. 589, 40 e 41 c.p., art. 2043 c.c., in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e); violazione di legge, carenza ed illogicità della motivazione in relazione al profilo di colpa generica, per non avere la Corte d'appello considerato che l'imputato era chiamato a rispondere non già della costruzione del lago, ma di avervi consentito l'attingimento dell'acqua, omettendo di apprestare i necessari dispositivi di sicurezza.
Evidenziano segnatamente gli impugnanti che, altro, rispetto ai pericoli generalmente presenti nell'ambiente, sono quelli intrinsecamente connessi all'uso di un bacino circondato da una guaina di plastica, ove il rischio di scivolamento in acqua diventa concreto. Non a caso, rilevano, la predetta guaina sarebbe stata contraddittoriamente definita "china scivolosa" dallo stesso giudice di merito che, nel mandare assolto l'imputato con la formula "perchè il fatto non sussiste", avrebbe anche dimenticato la presenza, nel nostro ordinamento, del principio generale del neminem laedere, di cui all'art. 2043 c.c.: ciò tanto più che, considerato il rapporto contrattuale intercorrente tra l'Ente proprietario del lago e le vittime, era evidentemente obbligo del primo - e conseguentemente dell'imputato, quale responsabile del settore sicurezza e prevenzione - adottare o imporre tutti i dispositivi atti a scongiurare il verificarsi di infortuni del tipo di quello occorso;
Avrebbe invece dovuto il decidente considerare che, una volta autorizzato l'accesso al lago per l'attingimento dell'acqua, le inevitabili manovre di innesto della pompa facevano diventare effettiva la eventualità che gli utenti entrassero in contatto con la guaina di gomma che lo rivestiva, così scivolando in acqua.
Segnatamente, ravvisando nel comportamento delle vittime la causa esclusiva dell'accaduto - senza neanche accedere alla tesi della loro responsabilità concorrente nella causazione del sinistro, in considerazione dell'inidoneità di quella condotta a interrompere il nesso causale, rispetto alla violazione, collocata a monte, e ascrivibile all'imputato - la Corte avrebbe fatto malgoverno delle risultanze istruttorie, in punto di quantità di acqua necessaria ad attivare il sifone e di problematicità dell'utilizzazione della scaletta, circostanze tutte confermate dai testi escussi e dalla documentazione fotografica in atti.
Il difensore delle parti civili ha poi presentato i seguenti motivi aggiunti:
Il nucleo argomentavo intorno al quale ruota la decisione impugnata è l'inapplicabilità, in parte qua, delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e dunque del principio ispiratore dell'intera disciplina, icasticamente espresso dall'art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del prestatore di lavoro.
Così argomentando la Corte d'appello ha tuttavia omesso di considerare che l'invaso era struttura gestita a fini imprenditoriali e che pertanto, rispetto ad essa, vigeva quell'obbligo di salvaguardia - più pregnante rispetto al generale principio del neminem laedere - che ispira tutta la normativa antinfortunistica.
Ciè è tanto vero che l'osservanza delle relative disposizioni non sarebbe stata probabilmente affatto posta in discussione ove dell'infortunio fosse rimasto vittima un operaio addetto alla manutenzione.
Sul punto mette anche conto rilevare che, essendo i R. abilitati ad accedere alla struttura in forza di un contratto di fornitura, non entra in gioco, nello scrutinio della fattispecie, la distinzione, evidenziata soprattutto dalla dottrina, tra infortunio occorso in un contesto lavorativo e infortunio occorso in un contesto extra lavorativo, e la conseguente sindacabilità, in quest'ultimo caso, della responsabilità del datore di lavoro esclusivamente sotto il profilo delle cautele che devono essere approntate dal responsabile del sito per inibire la penetrazione di estranei in aree lavorative potenzialmente pericolose, e non più sotto quello dell'osservanza delle misure di prevenzione.
L'errore di prospettiva in cui è caduto il giudice a quo ha poi determinato la completa pretermissione dei principi giurisprudenziali, assolutamente pacifici e da questo collegio condivisi, in punto di area di operatività della normativa antinfortunistica: principi in base ai quali, da un lato, la posizione di garante della sicurezza degli impianti, che l'ordinamento addossa all'imprenditore, non è operativa nei soli confronti dei lavoratori subordinati o dei soggetti a questi equiparati (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 3, comma 2), ma si estende alle persone estranee all'ambito imprenditoriale che possano, comunque, venire a contatto o trovarsi ad operare nel campo di loro funzionalità (confr. Cass. pen., sez. 4^, 4 febbraio 2004, n. 31303), dall'altro, l'obbligo di prevenzione si estende agli incidenti che possono derivare da negligenza, imprudenza e imperizia dell'infortunato, essendo esclusa, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario del presidio, solo in presenza di comportamenti che presentino i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo, alle direttive organizzative ricevute e alla comune prudenza.
Peraltro, così ricostruito il contesto normativo di riferimento, le problematiche relative all'estensione degli obblighi di salvaguardia dell'Ente irriguo e alla valutazione del comportamento dei R. nell'eziologia del sinistro vanno completamente rivisitate, non potendosi non segnalare in questa sede, malgrado il carattere dirimente del rilevato vizio di erronea applicazione della legge, la faticosa compatibilità tra un giudizio di esclusiva responsabilità delle vittime nella causazione dell'incidente, e la descrizione in termini di "china scivolosa" della guaina che circondava il laghetto.
Per le ragioni esposte la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio degli atti, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., al giudice civile competente in grado di appello, anche per la liquidazione tra le parti delle spese di questo grado.
La Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche per le spese tra le parti del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2007