Cassazione Civile, Sez. Lav., 09 ottobre 1997,  n. 9808 - Indumenti di lavoro e mancata adozione di misure idonee ad evitare la propagazione degli agenti infettivi e chimici


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Romano PANZARANI Presidente
Marino Donato SANTOJANNI Rel. Consigliere
Ettore MERCURIO
Mario PUTATURO
Bruno BATTIMIELLO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA

 


sul ricorso proposto da:
AMAV - AZIENDA MULTISERVIZI AMBIENTALI VENEZIANA, GIÀ AMIU, in persona del legale rappresenta pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Cosseria 5, presso lo studio dell'avvocato Enrico Romanelli, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato Marina Marinoni, giusta delega in atti;
Ricorrente
contro
Omissis;
Intimati
e sul 2 ricorso n. 09315-96 proposto da:
Omissis, elettivamente domiciliati in Roma Via Otranto 36, presso lo studio dell'avvocato Mario Massano, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato Enrico Cornelio, giusta delega in atti;
Controricorrenti e ricorrenti incidentali
nonché contro
AMIU ORA AMAV - AZIENDA MULTISERVIZI AMBIENTALI VENEZIANA, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Cosseria 5, presso lo studio dell'avvocato Enrico Romanelli, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato Marina Marinoni, giusta delega in atti;
Controricorrente al ricorso incidentale avverso la sentenza n. 39-96 del Tribunale di Venezia, depositata il 22-04-96 n.r.g. 163-95;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11-04-97 dal Relatore Consigliere Dott. Marino Donato Santojanni;
udito l'Avvocato Marinoni;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Alberto Cinque che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale e rigetto del secondo motivo.

Fatto

 


Con ricorso depositato in data 26 luglio 1990 il sindacato Fiadel - Cisal - settore igiene ambientale - e i 125 lavoratori indicati nell'epigrafe della presente sentenza, tutti dipendenti dell' Azienda Municipalizzata di Igiene Urbana - A.M.I.U. (ora A.M.A.V. ) di Venezia, adivano il Pretore della stessa città, in funzione di giudice del lavoro, sostenendo di essere esposti essi stessi e i loro familiari al pericolo di contrarre malattia per la mancata adozione da parte della datrice di lavoro di misure idonee ad evitare la propagazione degli agenti infettivi e chimici che si raccolgono negli indumenti di lavoro: in particolare, per la mancata installazione di stipetti ove sistemare detti indumenti separati da quelli destinati agli abiti "civili" e per la mancata organizzazione di un servizio lavaggio e disinfezione degli indumenti stessi, che li esoneri dal trasportarli nell'ambiente domestico e dal provvedere ivi al loro lavaggio.
Contestualmente i ricorrenti chiedevano l'adozione di tali misure protettive in via d'urgenza ex art. 700 cod. proc. civ..
In sede cautelare si costituiva l' A.M.I.U. sollevando diverse eccezioni.
Il Pretore rigettava la domanda di provvedimento d'urgenza. Egli stesso, con sentenza depositata il 14 febbraio 1992, dichiarava cessata la materia del contendere con riguardo alla questione degli stipetti installati dall' A.M.I.U. in corso di causa e condannava la convenuta a "provvedere ad idoneo lavaggio degli indumenti di lavoro forniti ai propri dipendenti adibiti a mansioni di netturbini, piloti motoristi, marinai aiutomotoristi, autisti, nonché, nei limiti in cui verranno individuati concordemente con le rappresentanze sindacali aziendali, presenti in azienda, ex art. 9 statuto lavoratori, e salva in caso di disaccordo l'azione giudiziaria per la loro individuazione, manovali e altre mansioni a contatto con i rifiuti o i veicoli addetti al trasporto rifiuti".
Proposto appello da parte dell' A.M.I.U., al quale avevano resistito i lavoratori, il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 205 del 7 dicembre 1992, accoglieva parzialmente l'impugnazione e, per l'effetto, rigettava la domanda di n. 17 lavoratori, non svolgenti le mansioni di netturbino, pilota motorista, marinaio-aiutomotorista o autista, per i quali mancava l'attualità del diritto al lavaggio degli indumenti, dovendo essere previamente raggiunto a livello sindacale un accordo sull'individuazione in concreto delle posizioni di lavoro esposte al pericolo di contaminazione, e confermava la sentenza di primo grado in ogni altra sua parte a favore di tutti gli altri lavoratori.
A seguito di ricorso principale dell' A.M.I.U. e di ricorso incidentale dei dipendenti, la Corte di Cassazione, con sentenza depositata il 26 gennaio 1995, cassava la sentenza del Tribunale di Venezia per nullità assoluta e insanabile, e rinviava per il riesame del merito allo stesso Tribunale.
L' A.M.I.U., con ricorso depositato il 13 settembre 1995, riassumeva il giudizio chiedendo la riforma della sentenza di primo grado per gli stessi motivi già dedotti nel ricorso in appello.
Si costituivano in questa fase tutti i lavoratori, eccetto la Fiadel-Cisal, resistendo all'impugnazione e proponendo appello incidentale.
Il Giudice di rinvio, con sentenza depositata il 22 aprile 1996, definitivamente pronunciando, accoglieva parzialmente l'appello e, per l'effetto: 1) rigettava le domande di Omissis, e confermava la sentenza di primo grado in ogni altra sua parte a favore di tutti gli altri appellati;
2) dichiarava inammissibile l'appello incidentale;
3) condannava l' A.M.A.V. alla rifusione delle spese processuali del presente grado di giudizio a favore degli appellati diversi da quelli indicati al punto n. 1 (in complessive L. 5.500.000); disponeva la compensazione delle spese del grado d'appello tra l' A.M.A.V. e gli appellati indicati al punto n. 1;
4) condannava l' A.M.A.V. alla rifusione delle spese del primo grado del giudizio in favore degli appellati diversi da quelli indicati al punto 1 (complessive L. 6.740.000); compensava le spese di primo grado tra l' A.M.A.V. e gli appellati di cui al punto 1; ferme restando le spese di c.t.u. a carico dell' A.M.A.V..
Il Tribunale di Venezia, in sede di rinvio, osserva quanto segue.
Preliminarmente va dichiarato inammissibile l'appello incidentale per mancata rituale notifica alla controparte.
L'appello principale è parzialmente fondato.
Non merita alcuna censura la sentenza impugnata con riguardo alla questione afferente il lamentato difetto di legittimazione dei ricorrenti.
Nel caso di specie i lavoratori hanno agito per far valere il proprio diritto alla salute nell'ambiente di lavoro e non nell'interesse di tutti i lavoratori. E non pare conforme al precetto dell'art. 32 Cost. limitare, come sembra voler fare la parte appellante, il contenuto di tale diritto al mero risarcimento del danno. In realtà, la norma generale di cui all'art. 2087 cod. civ. consente di configurare un diritto soggettivo del lavoratore, sia alla predisposizione, da parte del datore di lavoro, delle misure di sicurezza, sia al risarcimento dei danni, causatigli dalla mancata adozione di tali misure (cfr. S.U. 16 gennaio 1987, n. 310).
Ne consegue che i lavoratori, avendo richiesto non il mero risarcimento del danno, bensì la realizzazione, da parte del datore di lavoro, delle misure idonee a tutelare la loro salute, con riguardo agli indumenti da lavoro, sono titolari, singolarmente, della legittimazione ad causam e ad processum.
Non sussiste il dedotto vizio di nullità del ricorso introduttivo per genericità ed indeterminatezza della domanda. Invero i lavoratori, pur svolgendo diverse mansioni, hanno prospettato a loro carico un pericolo alla salute costituito, sostanzialmente, dal rischio d'infezione derivante dall'uso degli indumenti da lavoro e dal loro lavaggio domestico, invocando la tutela prevista dall'art. 2087 cod. civ. Trattasi di una domanda sufficientemente specifica, sia sotto il profilo della causa petendi, sia sotto il profilo del petitum.
Ciò premesso, merita accoglimento la censura mossa alla sentenza impugnata relativa all'indeterminatezza dei soggetti titolari del diritto al lavaggio delle tute da lavoro da parte dell' A.M.A.V..
Considerato che la pronuncia giurisdizionale può esplicare effetto soltanto fra le parti in causa, laddove il Pretore, "condanna l' A.M.I.U. a provvedere ad idoneo lavaggio degli indumenti da lavoro forniti ai propri dipendenti adibiti a mansioni di netturbini, piloti, motoristi... etc.", non può che riferirsi ai ricorrenti svolgenti le predette mansioni, che lo stesso Tribunale individua elencando i relativi nominativi.
La prova che questi lavoratori fossero utilizzati in mansioni che il consulente tecnico d'ufficio ha riscontrato essere a diretto contatto con i rifiuti solidi urbani, deriva dalla produzione in giudizio, da parte degli stessi lavoratori, di un "elenco-mansionario", datato 10 luglio 1991.
Il Pretore non ha errato nella decisione relativa all'onere della prova. Invero, di fronte all'indicazione specifica delle mansioni prodotta dai dipendenti, l' Azienda si è limitata a depositare una dichiarazione in data 10 luglio 1991, contenente la contestazione in toto del mansionario ex adverso prodotto ed il rifiuto di depositare un proprio mansionario, atteso l'onere probatorio a carico di controparte.
Anche in ossequio ai principi che regolano il processo del lavoro, l' Azienda non avrebbe dovuto limitarsi ad una contestazione del tutto generica, ma avrebbe dovuto specificare se vi fosse stata un'erronea indicazione delle mansioni per tutti i ricorrenti in prime cure o per alcuni di essi e avrebbe dovuto nel caso precisare le mansioni realmente svolte dai medesimi. Il mancato rispetto di tale onere di contestazione acquista nel caso di specie un peso rilevante sol che si pensi che l' Azienda stessa, in qualità di datrice di lavoro, era perfettamente in grado di contraddire in modo specifico sul punto delle diverse mansioni.
Il Pretore ha poi condannato l' A.M.I.U. a provvedere al lavaggio di indumenti forniti ai dipendenti adibiti a mansioni di manovale o ad altre mansioni a contatto con rifiuti solidi urbani, da individuarsi sulla base di accordi con le rappresentanze sindacali aziendali presenti in azienda ex art. 9 stat. lav. (o in difetto attraverso il ricorso all'autorità giudiziaria).
Il Tribunale poi individua, elencando i relativi nominativi (indicati altresì nel dispositivo della sentenza già riportato), i lavoratori adibiti a mansioni di manovale od altre, a cui si riferisce questa statuizione pretorile.
Tuttavia, con riferimento ad essa, va accolto parzialmente l'appello e, per l'effetto, dev'essere rigettata la domanda dei suddetti lavoratori, atteso che manca l'attualità del loro diritto ad ottenere il lavaggio degli indumenti da lavoro, dovendo essere raggiunto in sede sindacale un accordo diretto a verificare l'utilizzazione in concreto degli stessi in compiti che li espongano a pericolo di contagio. Inoltre, il Pretore, erroneamente, ha coinvolto le rappresentanze sindacali aziendali, che non sono parte in causa.
Peraltro, non ha pregio il motivo di appello concernente la pretesa incompetenza funzionale del giudice del lavoro, atteso che, come già osservato, il singolo lavoratore può agire per ottenere dal datore di lavoro l'attuazione delle misure di protezione nell'ambiente di lavoro. Di conseguenza, lo stesso ha facoltà di chiedere giudizialmente la condanna del datore di lavoro ad un facere, come nel caso di specie. Trattandosi di un obbligo di fare che attiene direttamente al rapporto di lavoro, non può che trovare ingresso la competenza del giudice del lavoro.
Sono infondate tutte le censure mosse alla sentenza di primo grado con riguardo alla consulenza tecnica d'ufficio. Va ricordato che il consulente d'ufficio è tenuto a dare comunicazione dell'inizio delle operazioni peritali, mentre nessuna comunicazione è dovuta per la prosecuzione della consulenza, costituendo onere delle parti seguire lo svolgimento delle operazioni (cfr. Cass. n. 4821 del 1993) e che l'attività del consulente comprende anche la facoltà di accertare, di sua iniziativa, ogni circostanza o notizia necessaria per rispondere al quesito (cfr. Cass. n. 4644 del 1989), anche attraverso l'assunzione di informazioni presso terzi (cfr. Cass. n. 2543 del 1988) o l'esame di documentazione non prodotta in causa (cfr. Cass. n. 8256 del 1987).
Anche il quesito è stato correttamente posto nei limiti della domanda (la condanna presuppone infatti l'accertamento) e senza alcun superamento dell'onere probatorio a carico dei lavoratori.
Nel merito dell'indagine peritale, il Collegio condivide, al pari del Pretore, le conclusioni dell'ausiliare, in quanto approfondite, sorrette da adeguate tecniche di accertamento e immuni da errori o vizi logici.
Le osservazioni critiche della parte appellante in tema di esposizione al rischio (v. in particolare parere del consulente di parte, dott. Franco) non convincono. È lo stesso consulente d'ufficio che ha posto l'accento sugli aspetti contraddittori delle tesi della consulenza di parte (v. pag. 12 consulenza tecnica d'ufficio).
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione l' A.M.A.V., deducendo sette motivi.
I lavoratori resistono con controricorso e propongono altresì ricorso incidentale, articolato in tre motivi.
La ricorrente principale ha depositato anche memoria.

Diritto


Preliminarmente vanno riuniti i due ricorsi, trattandosi di impugnazioni proposte contro la stessa sentenza (art. 335 cod. proc. civ.).
1 - In via pregiudiziale si osserva che la ricorrente principale ha sollevato, con la memoria ex art. 378 cod. proc. civ., l'eccezione di nullità della procura del ricorso di primo grado (procura cosiddetta "spillata"), e conseguente nullità dell'intero giudizio di merito (art. 159 cod. proc. civ.). Dalla sentenza impugnata (sul punto non contestata in questa sede) si evince de plano che l' Azienda non aveva rilevato alcunché in proposito, con l'appello principale.
Tale nullità non può essere presa in esame, atteso che, a norma dell'art. 161, comma primo, cod. proc. civ., "la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi d'impugnazione" (principio dell'assorbimento dell'invalidazione nell'impugnazione) (cfr., ex multis, Cass. 15 novembre 1995, n. 11827; 15 gennaio 1993, n. 429; 26 novembre 1992, n. 12638).
D'altra parte, la nullità della procura in questione non può assurgere al rango di "inesistenza giuridica" dell'atto, cioè, di totale irrilevanza giuridica per gravità del vizio che lo inficia, tale quindi da impedire che lo stesso atto possa essere assunto nel modello legale della figura (dovrebbe dirsi: neppure l'apparenza di una procura). Tanto non afferma neppure l'excipiens, cosicché sfuma la prospettiva eventuale (sempreché il vizio denunciato fosse in concreto ravvisabile) di una rilevazione d'ufficio in questa sede dell'inesistenza giuridica dell'intero giudizio di merito, anche argomentando ex art. 161 citato, comma secondo, già citato.
2 - Parimenti infondata risulta essere l'altra eccezione processuale sollevata dall' Azienda nella stessa memoria, laddove assume, in subordine, che venti degli originari ricorrenti, la cui domanda era stata rigettata, hanno proposto ricorso incidentale, inserendolo nel controricorso; ricorso incidentale che è inammissibile perché proposto da lavoratori contro i quali la datrice di lavoro non aveva formulato deduzione alcuna con il ricorso principale.
Si osserva, in primo luogo, che tale eccezione può essere riferita alla statuizione della sentenza impugnata, relativa ai venti lavoratori rimasti soccombenti, ma non anche ai controricorrenti "vincitori", i quali, in tale veste, hanno proposto altresì ricorso incidentale, a seguito della proposizione del ricorso principale (come meglio si dirà dopo l'esame di quest'ultimo) contro essi medesimi, dolendosi della declaratoria d'inammissibilità dell'appello incidentale e della disposta parziale compensazione nei loro confronti delle spese di primo grado (pag. 26 e seguenti del controricorso).
L'eccezione in esame può essere, invece, riferita, atteso il suo tenore, esclusivamente e precisamente, ai lavoratori indicati come soccombenti sub n. 1 del dispositivo della sentenza impugnata (da ...a..). Essa, così circoscritta, è, tuttavia, infondata.
Invero, si è più volte deciso che il ricorso incidentale per cassazione, ove riguardi capi della sentenza impugnata diversi da quelli, investiti dal ricorso principale, ha caratteri di impugnazione incidentale autonoma e può proporsi nel termine breve ordinario di sessanta giorni dalla sentenza impugnata e non in quello di quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale. Tale principio, che può considerarsi "jus receptum", venne enunciato da sentenze di questa Corte ormai lontane nel tempo (cfr. Cass. 6 maggio 1987, n. 4184; con riferimento all'impugnazione incidentale tardiva che, ex art. 334 cod. proc. civ., può essere proposta soltanto dal soggetto contro il quale si rivolge un'impugnazione principale (vedasi, ex multis, Cass. 14 febbraio 1994, n. 1444; 24 maggio 1993, n. 5817).
Nella fattispecie in esame, il ricorso incidentale dei suddetti lavoratori soccombenti, che ha carattere d'impugnazione incidentale autonoma, perché riguarda una statuizione della sentenza non investita dal ricorso principale, è stato ritualmente proposto entro il termine di un anno dalla pubblicazione di tale sentenza, non notificata (art. 327, comma primo, cod. proc. civ.). Il deposito della pronuncia è del 22 aprile 1996, mentre il ricorso incidentale risulta notificato il 20 luglio 1996 ed è, pertanto, ammissibile.
Vanno dunque, respinte le due eccezioni processuali fin qui esaminate.
3 - Con il primo motivo la ricorrente principale, denunziando violazione degli artt. 9 e 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, dell'art. 75 cod. proc. civ. e dell'art. 2087 cod. civ. (art. 360, n. 3 e 5 cod. proc. civ.), deduce che:
l'affermazione del diritto alla salute, consacrato dall'art. 2087 cod. civ., contenuta nella sentenza impugnata, non comporta l'automatica "legitimatio ad causam" e tanto meno l'automatica "legitimatio ad processum" dell'individuo, cioè, nel caso in esame, del singolo ricorrente; infatti, in primo luogo, la tutela della salute costituisce un interesse o sia pure un diritto, ma è un diritto della collettività aziendale, non del singolo lavoratore; inoltre, la legittimazione processuale spetta, comunque, non al singolo lavoratore, ma alla rappresentanza sindacale aziendale (artt. 9 e 19 della legge n. 300 del 1970, sopra citati).
Il motivo è manifestamente infondato.
Invero, il bene della salute costituisce, in primo luogo, oggetto di un autonomo diritto primario assoluto, e non esclusivamente, un interesse o un diritto della collettività, come la ricorrente continua, erroneamente, a sostenere. Non occorre qui citare l'univoca giurisprudenza formatasi a proposito della risarcibilità del danno biologico, essendo sufficiente ricordare che, a norma dell'art. 32, comma primo, cost., "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività".
Ciò significa soltanto che il diritto alla salute è garantito dalla citata norma sia come posizione di vantaggio tutelava in modo assoluto, incondizionato, sia come interesse spettante al singolo in quanto partecipe della collettività (interesse collettivo), e ciò anche secondo la dottrina che maggiormente si è interessata al fenomeno di tale interesse.
In particolare, il diritto soggettivo alla salute è stato poi ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza con specifico riferimento all'art. 2087 cod. civ., secondo cui "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
E si è puntualizzato che gli obblighi dell'imprenditore al riguardo si riferiscono sia alle attrezzature, sia ai macchinari ed ai servizi, che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, sia all'ambiente di lavoro (cfr. Cass. 29 maggio 1990, n. 5002). Grava sul datore di lavoro l'obbligo di adottare ogni misura preventiva sia generica, sia specifica (cfr. Cass. 20 febbraio 1990, n. 1246).
Non occorre aggiungere altro per trarne l'illazione che la legitimatio ad causam (art. 99 cod. proc. civ.), intesa come legittimazione ad agire, ossia come titolarità del potere di promuovere il giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, secondo la prospettazione offerta dai lavoratori originari ricorrenti, spettava senz'altro ad essi medesimi, "uti singuli".
Conseguentemente, gli stessi erano e sono capaci di stare in giudizio, avendo il libero esercizio dei diritti fatti valere, (art. 75 cod. proc. civ.).
Il riferimento agli artt. 9 e 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300 è del tutto fuori luogo.
Il citato art. 9 attribuisce, infatti, alle rappresentanze sindacali aziendali (art. 19) il diritto di controllare, nell'interesse dei lavoratori, l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, nonché di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica (art. 2087 cod. civ.). Va da sè che da tali diritti deriva il potere di azione in giudizio delle suddette rappresentanze, quali organi preposti al controllo e alla promozione precisati dalla norma in esame, a tutela dell'interesse della collettività dei lavoratori occupati nell'azienda. Ma - si badi - tale potere di azione, previsto peraltro dallo statuto dei lavoratori, che detta norme a maggior tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro, è certamente compatibile, sotto ogni profilo logico-giuridico, con qualsiasi forma di tutela dei diritti soggettivi dei singoli lavoratori, e segnatamente, con il diritto alla salute ex art. 32 cost. e 2087 cod. civ., che, ovviamente, la tutela collettiva non può affievolire, ma rafforzare.
Tale argomentazione trova conferma nella sentenza delle Sezioni Unite n. 310 del 16 gennaio 1987, esattamente citata dal Tribunale, secondo cui la controversia promossa dal lavoratore subordinato, per denunciare la violazione da parte del datore di lavoro di norme inerenti alla igiene ed alla sicurezza, spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, "in quanto è rivolta a tutelare il diritto soggettivo all'integrità fisica", mentre è in proposito irrilevante che alla pubblica amministrazione sia demandato il compito di controllare l'osservanza di quelle norme ed impartire le opportune prescrizioni, poiché "tali poteri autoritativi non incidono sulla consistenza di detta posizione di diritto soggettivo nel rapporto con il datore di lavoro, ma sono rivolti ad accentuare la tutela".
4 - Con il secondo motivo l' Azienda, denunziando la violazione degli artt. 414, 416, 156 cod. proc. civ. (art. 360 stesso codice, n. 3 e 5), ripropone l'eccezione di nullità del ricorso introduttivo del primo grado del giudizio (si segue per comodità di esposizione l'ordine di trattazione seguito dalla ricorrente principale), già disattesa dal Tribunale, argomentando che:
il Giudice di rinvio, senza occuparsi dei vari motivi di nullità del ricorso dedotti dall' Azienda, incorrendo in tal modo nel vizio di omessa motivazione, ha individuato i beneficiari e gli esclusi dalla tutela invocata sulla scorta di un elenco di nomi forniti dai ricorrenti, senza accorgersi che non erano i nomi a interessare e nemmeno le "teoriche" qualifiche (netturbino, autista, pilota etc.), perché ciò che interessava era l'esposizione al rischio dei singoli lavoratori, il luogo di prestazione lavorativa, le modalità ed il tempo di prestazione lavorativa (erronea motivazione); i lavoratori, peraltro, non hanno ottemperato al disposto dell'art. 414 cod. proc. civ., che impone all'attore di determinare l'oggetto della domanda (n. 3) e di esporre i fatti e gli elementi di diritto sui quali la stessa domanda si fonda (n. 4).
Il motivo è infondato.
Invero, i lavoratori, premesso nel ricorso di primo grado, che essi stessi e i loro familiari erano esposti al pericolo di contrarre malattia per la mancata adozione da parte della datrice di lavoro di misure idonee ad evitare la propagazione degli agenti infettivi e chimici che si raccolgono negli indumenti di lavoro: in particolare, per la mancata installazione di stipetti ove sistemare detti indumenti separati da quelli destinati agli abiti "civili", oltre che per la mancata organizzazione di un servizio di lavaggio, che li esonerasse dal trasportarli nell'ambiente domestico e dal provvedere ivi al loro lavaggio (vedasi narrativa della sentenza impugnata, sul punto non contestata in questa sede): tanto premesso, formularono coerenti richieste conclusive, per ottenere: che fossero messi a disposizione di ciascuno dei lavoratori ricorrenti due stipetti differenziati (al riguardo intervenne declaratoria del Pretore di cessazione della materia del contendere) per riporre gli abiti civili e le tute da lavoro; nonché la condanna dell' Azienda a organizzare un adeguato servizio di lavaggio dei suddetti indumenti da lavoro.
Alla stregua di tali elementi di fatto, la cui interpretazione è riservata al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per difetto di motivazione (cfr. Cass. 19 febbraio 1991, n. 1740), il Tribunale ha osservato: che i ricorrenti, pur svolgendo diverse mansioni, avevano prospettato a loro carico un pericolo alla salute costituito, sostanzialmente, dal rischio di infezione derivante dall'uso degli indumenti da lavoro e dal lavaggio domestico degli stessi e avevano invocato la tutela prevista dall'art. 2087 cod. civ.; che trattavasi di una domanda sufficientemente specifica, sia sotto il profilo della causa petendi, sia sotto quello del petitum; che la mancata specifica indicazione dei vari indumenti interessati non assumeva decisivo rilievo, in quanto la domanda aveva per oggetto indumenti da lavoro, a possibile contatto con i rifiuti e con agenti patogeni.
Tale motivazione, correlata agli elementi di fatto sopra riportati, risulta essere corretta ed adeguata, mentre non sono affatto decisive le circostanze non esaminate dal Tribunale secondo la ricorrente, e cioè l'esposizione al rischio dei "singoli" lavoratori, in relazione alle diverse mansioni espletate, il luogo di prestazione lavorativa, le modalità ed il tempo di prestazione lavorativa, atteso che non si dimostra che il giudice a quo, ove avesse esaminato tali circostanze, avrebbe potuto giustificare una decisione diversa da quella adottata. Ciò che rilevava al fine dell'indagine imposta dal "thema decidendum" era, esclusivamente, l'esposizione a "pericolo" dei singoli lavoratori, anche in relazione a quanto già osservato sub n. 3 della presente motivazione, mentre nessun rilievo avrebbe potuto assumere una discriminazione, quantitativa e qualitativa, del rischio, con riferimento alle diverse mansioni da essi espletate.
5 - Con il terzo motivo l' A.M.A.V., denunziando violazione degli artt. 414 n. 5 e 163 cod. proc. civ., nonché degli artt. 2697, 2702 e seguenti cod. civ. (art. 360 n. 3 e 5 cod. proc. civ.), assume che:
Per identificare i beneficiari della sentenza del Pretore e del Tribunale dovrebbesi fare un'operazione di "collage" (nome del lavoratore, qualifica, etc.);
il Tribunale, confermando la sentenza del Pretore, ha violato il principio dell'onere della prova. non avendo i ricorrenti fornito non solo ma nemmeno offerto la prova di quanto avrebbero dovuto provare; ha violato, prima ancora, gli artt. 163 e 414 cod. proc. civ., omettendo di rilevare la nullità della domanda per sua indeterminatezza, atteso che, in ipotesi che fosse stata esercitata un'azione individuale, non si era chiesto di provare nè il collegamento tra il nome dei ricorrenti e le attività da essi individualmente svolte, nè il tipo di indumenti oggetto del richiesto lavaggio aziendale.
Il motivo, sotto il profilo del difetto di motivazione, è infondato per quanto già interamente osservato nel paragrafo che precede, e in particolare perchè è evidenziato che, secondo la corretta ed adeguata motivazione del Tribunale, la mancata specifica indicazione dei vari indumenti non avrebbe potuto assumere decisivo rilievo, in quanto la domanda aveva per oggetto "indumenti da lavoro, a possibile contatto con agenti infettanti".
Peraltro, sotto il profilo della denunciata violazione delle indicate norme processuali, è sufficiente osservare che, come si evince anche dal chiaro disposto dell'art. 414, n. 5, nel rito del lavoro, l'indicazione specifica, nel ricorso introduttivo, di mezzi di prova (di cui il ricorrente intende avvalersi), prescritta da tale norma, costituisce un requisito che non attiene all'individuazione della pretesa, essendo stabilito ai fini della concentrazione dell'istruttoria nel rispetto del contraddittorio; pertanto, la sua mancanza non determina nullità dell'atto, ma comporta solo la decadenza dell'attore dalla facoltà di articolare i mezzi di prova non indicati in ricorso; con l'ulteriore conseguenza del rigetto della domanda nel merito, ove questa non riceva supporto probatorio dalle ammissioni del convenuto o da mezzi istruttori disposti d'ufficio (cfr. Cass. 3 novembre 1992, n. 11908; 9 novembre 1988, n. 6042).
6 - Con il quarto motivo la ricorrente principale denunzia violazione, sotto diverso profilo, dell'art. 414, n. 5 cod. proc. civ., nonché degli artt. 2697 e 2702 e seguenti cod. civ. (art. 360, n. 3 e 5 cod. proc. civ.).
Sostiene al riguardo che: il 10 luglio 1991 (il ricorso introduttivo era stato depositato il 26 luglio 1990), i lavoratori avevano prodotto "un elenco-mansionario" datato 10 luglio 1991, nel quale erano accostati nomi e mansioni;
l' Azienda aveva immediatamente reagito contestando il contenuto di tale documento;
nonostante ciò, quest'ultimo venne poi assunto dal Tribunale a fondamento dell'impugnata decisione, la quale si rivela, pertanto, erronea per avere violato il basilare principio secondo cui l'onere della prova incombe all'attore.
Anche questo motivo è infondato.
Invero, è del tutto fuori luogo il richiamo al disposto dell'art. 414, n. 5, ancorché letto, com'è doveroso, in coordinazione con l'art. 416, ult. comma cod. proc. civ., per quanto già osservato sub n. 5 anche a proposito delle conseguenze derivanti dalla sua pretesa violazione, ove si sia inteso insistere nell'eccezione di nullità del ricorso introduttivo.
Non si comprende neppure perché, con il quarto motivo e con il quinto in esame, sia stata denunciata altresì la violazione degli artt. 2702 e seguenti cod. civ., atteso che non è stato risolto dal Tribunale alcun problema concernente la validità di una "scrittura privata". Per giunta l'elenco in questione era stato prodotto dagli stessi lavoratori, a seguito di ordinanza del Pretore che aveva invitato gli attori a precisare le mansioni espletate (affermazione contenuta a pag. 11 del ricorso incidentale e non ex adverso contestata). Pertanto, la censura, sotto questo profilo, ammesso che esista, è manifestamente infondata.
Quanto alla dedotta violazione dell'art. 2697, comma primo, cod. civ. si rileva che il Tribunale, pur senza citare l'art. 116, comma secondo, cod. proc. civ. ("il giudice può desumere argomenti di prova, in generale, dal contegno delle parti nel processo"), lo ha indubbiamente applicato osservando, con corretta ed adeguata motivazione: che di fronte all'indicazione specifica delle mansioni prodotta dai ricorrenti, la convenuta si è limitata a depositare una dichiarazione del 10 luglio 1991, contenente la contestazione in toto del mansionario ex adverso prodotto ed il rifiuto di depositare un proprio mansionario, atteso l'onere probatorio a carico dei ricorrenti; che una tale contestazione non può essere considerata decisiva; anche in ossequio ai principi che regolano il processo del lavoro, la convenuta non avrebbe dovuto limitarsi ad una contestazione del tutto generica, ma avrebbe dovuto precisare se vi fosse stata un'erronea indicazione delle mansioni per tutti i ricorrenti o per alcuni di essi e avrebbe dovuto nel caso precisare le mansioni realmente svolte dai ricorrenti; che il mancato rispetto di tale onere di contestazione (e non di prova) acquista nel caso di specie un peso rilevante sol che si pensi al fatto che la convenuta, in qualità di datrice di lavoro, era perfettamente in grado di contraddire in modo specifico sul punto delle diverse mansioni.
Peraltro, la violazione del citato art. 116, non è stata dedotta dalla ricorrente principale.
Essa sostiene, inoltre, che il Tribunale errò anche sotto un altro profilo, e cioè, per avere consentito l'introduzione di una prova nel corso del processo, quando, secondo un principio elementare del processo del lavoro, le prove devono essere fornite dai ricorrenti contestualmente al ricorso.
Sembra che con siffatta deduzione l' A.M.A.V. eccepisca la decadenza di controparte dal diritto di produrre nel corso del primo grado del giudizio l'elenco-mansionario di cui si è detto, per cui, al riguardo, potrebbe risultare pertinente il richiamo all'art. 414, n. 5 cod. proc. civ., indicato nel titolo della censura.
È agevole, tuttavia, rispondere che l'acquisizione di un documento da parte del giudice del lavoro, sia nel primo (art. 421 cod. proc. civ.) sia nel secondo grado del giudizio (art. 437), attiene, ai sensi degli articoli citati, ai poteri discrezionali del suddetto giudice di merito, che tale produzione ritiene indispensabile o comunque necessaria ai fini del decidere. Pertanto, l'esercizio di quei poteri si sottrae, per la natura discrezionale dei medesimi, al sindacato di legittimità, anche quando manchi un'espressa motivazione al riguardo, dovendo ritenersi implicita, nell'ammissione della produzione del documento, la valutazione della sua opportunità ai fini del processo (Cass. Sez. Un. 11 ottobre 1993, n. 10045).
In particolare, essendo una peculiarità del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità reale, il potere discrezionale in argomento può essere legittimamente esercitato anche nell'ipotesi in cui la parte onerata sia incorsa in preclusioni e decadenze, ed anche su sollecitazione di quest'ultima, dovendo essere escluso solo in presenza di una precisa volontà della parte di non esperire una determinata prova (cfr. Cass. 9 giugno 1994, n. 5590; 14 luglio 1992, n. 8503; 20 giugno 1990, n. 6175).
Ciò anche a prescindere dal principio enunciato da consolidata giurisprudenza, secondo cui le preclusioni in questione non si applicano ai documenti, quali prove precostituite, che possono essere prodotti fino all'udienza di discussione ed anche in appello.
7 - Con il quinto motivo l' Azienda denunzia violazione dell'art. 2087 cod. civ. e dell'art. 75 cod. proc. civ., nonché degli artt. 18, 4, 40, 80 e 78 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, in relazione all'art. 360, n. 3 e 5 cod. proc. civ.
Deduce al riguardo che, alla stregua delle norme citate, contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice di rinvio, non esiste il diritto dei singoli lavoratori di ottenere la sentenza di condanna dell' Azienda ad eseguire il lavaggio degli indumenti pericolosi.
L'assunto è destituito di giuridico fondamento.
La ricorrente crede di trovare supporto alla sua tesi nell'art. 18 del decreto legislativo sopra citato (attuazione delle direttive C.E.E. riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro), il quale prevede (comma primo) che "in tutte le aziende, o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante per la sicurezza", legittimato, ai sensi del successivo art. 19 lett. o), a fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dei rischi adottate dal datore di lavoro e i mezzi impiegati per attuarle non sono idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro.
L' Azienda ritiene, cioè, di poter trarre valido argomento da tali disposti per sostenere ancora la tesi che nega la legittimazione ad agire (ad causam) e processuale (rispettivamente, artt. 99 e 75 cod. proc. civ.) ai singoli lavoratori, per attribuirla, esclusivamente, al rappresentante per la sicurezza.
Valgono al riguardo le considerazioni già svolte nel paragrafo n. 3 della presente motivazione a proposito del richiamo della ricorrente agli artt. 9 e 19 dello statuto dei lavoratori, per disattendere il primo motivo del ricorso, con il quale si censurava la sentenza impugnata per avere ritenuto che la suddetta legittimazione spettasse ai lavoratori "uti singuli", e che questa non fosse incompatibile con la legittimazione riconosciuta alle rappresentanze sindacali aziendali ex art. 9 citato.
Sotto altro profilo è superfluo stabilire se gli indumenti di lavoro in questione fossero o meno specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Il Tribunale, con argomentazione di non trascurabile rilievo, ha dato risposta positiva al quesito, osservando: che non si può certo negare, sulla scorta degli esiti peritali, che gli indumenti ordinari di lavoro dei dipendenti A.M.A.V. posti a contatto con i rifiuti solidi urbani, siano specificamente destinati alla protezione della salute dei lavoratori; che l'omessa previsione, nell'allegato IX della citata normativa, dell'attività in esame tra le attività che possono comportare la presenza di agenti biologici, non assume decisivo rilievo, atteso che l'elenco contenuto nel suddetto allegato ha natura meramente esemplificativa.
Quand'anche poi si ritenesse inapplicabile alla fattispecie in esame la citata normativa, non potrebbe fondatamente negarsi l'applicabilità dell'art. 379 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), il quale impone al datore di lavoro, quando si è in presenza di lavorazioni, o di operazioni o di condizioni ambientali che presentano pericoli particolari non previsti dalle disposizioni del capo secondo del presente titolo, di mettere a disposizione dei lavoratori "idonei indumenti di protezione".
In ogni caso, in via sussidiaria, non può sfuggire che l'art. 2087 cod. civ., statuendo che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, esige, tra l'altro, come si è già avuto occasione di rilevare sub n. 3), che il datore di lavoro adotti, si opus, ogni misura preventiva, sia "generica", sia "specifica", cosicché non può seriamente dubitarsi che, di fronte al pericolo d'infezione, derivante dall'uso degli indumenti da lavoro e dal lavaggio domestico degli stessi (questa era la prospettazione originaria degli attori in prime cure: pag. 11 della sentenza e paragr. n. 4 della presente motivazione) sia obbligato "auctoritate judicis", non avendo "sua sponte" provveduto, ad eseguire tale lavaggio, con la condanna ad un "facere".
La censura va, dunque, disattesa.
8 - L' Azienda, denunciando con il sesto motivo (subordinato) la violazione degli artt. 275, 112 e 61 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 stesso codice, lamenta che il Tribunale abbia assunto a fondamento della decisione il responso del consulente tecnico nominato dal Pretore, il quale avrebbe risposto a quesiti estranei al "thema decidendum", atteso che:
a) si era disposto l'accertamento dell'entità del rischio, in tal modo sostituendo il giudice una propria pronuncia a una domanda non formulata dai ricorrenti e affidando all'ausiliare il compito di accertare ciò che i lavoratori avrebbero dovuto provare (sostituzione di un'azione di condanna con una di accertamento);
b) si era disposta la consulenza con generico riferimento alle "malattie infettive", mentre gli attori avevano lamentato solo alcune ben delimitate malattie, cosicché il giudice aveva pronunciato "extra petita";
c) peraltro, si era disposto l'accertamento delle "modalità più idonee per evitare il rischio", confondendosi e cumulandosi due fasi processuali distinte: cognizione ed esecuzione.
Il motivo, così articolato, è manifestamente infondato.
Il Tribunale ha ritenuto corretta la formulazione dei quesiti in argomento, rigettando l'eccezione di "sconfinamento" dei quesiti, riproposta in questa sede.
È noto, invero, che, secondo costante giurisprudenza, sussiste violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., cioè del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, sia quando il giudice attribuisca un bene della vita diverso da quello richiesto dall'attore, sia allorquando il giudice pronunci oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni delle parti, sia anche quando, esorbitando dai limiti della mera qualificazione della domanda, il medesimo proceda ad un mutamento della stessa, sostituendo la causa petendi dedotta in giudizio con una differente, basata su fatti diversi da quelli allegati dalle parti.
All'evidenza, la dedotta violazione del principio in questione va accertata ponendo in correlazione logico-giuridica proprio il "chiesto" e il "pronunciato", e non certo eventuali "sconfinamenti" dei quesiti sottoposti dal giudice all'esame del consulente tecnico d'ufficio o di risposte eccedenti i limiti del mandato conferito a quest'ultimo, da una parte, e il bene della vita in concreto attribuito alla parte attrice, dall'altra, tanto più che il giudice del merito può trarre elementi di convincimento anche dalla parte della consulenza d'ufficio eccedente i limiti di tale mandato, ma non sostanzialmente estranea all'oggetto dell'indagine in funzione della quale essa venne disposta (cfr. Cass. 7 gennaio 1995, n. 202; 4 febbraio 1993, n. 1374; 18 dicembre 1973, n. 3422).
Se ne deduce che, alla stregua del principio così enunciato, a parte le pretese "esorbitanze", la sentenza del Pretore e quella del Tribunale, confermativa della prima sul punto, attribuirono esattamente agli attori il bene della vita da essi richiesto con l'originaria domanda, ossia la condanna della convenuta Azienda a provvedere a idoneo lavaggio degli indumenti da lavoro forniti ai propri dipendenti adibiti a mansioni di netturbini, piloti, motoristi etc., senza pronunciare su eccezioni non sollevate dalle parti e non rilevabili d'ufficio.
Quanto basta per escludere la denunciata violazione degli artt. 112 e 175 cod. proc. civ.
Quanto al profilo del denunciato difetto di motivazione, si osserva che questo, secondo univoca giurisprudenza, deducibile ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., è esclusivamente quello concernente l'accertamento e la valutazione di punti di fatto rilevanti per la decisione e non anche quelli riguardanti affermazioni o applicazioni di principi giuridici, denunciabili a norma dei n. 1, 2, 3 e 4 dell'art. 360. Relativamente alle questioni di puro diritto non è ammissibile il ricorso alla Corte di Cassazione per omessa motivazione, poiché in ordine alla soluzione di dette questioni il sindacato giurisdizionale del giudice di legittimità è limitato al controllo dell'esattezza giuridica della statuizione.
Pertanto, poiché nella specie era stata denunciata la violazione di norme processuali, non assume alcun giuridico rilievo l'indagine circa il denunciato difetto di motivazione.
9 - Con il settimo ed ultimo motivo (subordinato) la ricorrente principale denunzia testualmente: "eccezioni in merito alla consulenza da cui scaturisce clamoroso vizio di omessa motivazione della sentenza del Tribunale di Venezia. Artt. 360, n. 3 e 5 cod. proc. civ., in relazione all'art. 61 e agli artt. 112 e 275 cod. proc. civ.".
Il motivo si articola in diversi profili di censura.
a) Con il primo l' Azienda insiste ancora nel denunciare l'esorbitanza dei tre quesiti rispetto all'oggetto del giudizio (pag. 68 e ss. del ricorso).
Si richiamano in proposito le osservazioni già svolte nel paragrafo precedente, aggiungendosi che l'eccezione, formulata con tale profilo, di nullità della consulenza tecnica d'ufficio per i pretesi "sconfinamenti", ammesso per ipotesi che gli stessi siano i concreto ravvisabili (la sentenza lo nega a pag. 21), è certamente infondata, perché, comunque, essa ha raggiunto lo scopo (art. 156, commi secondo e terzo, cod. proc. civ.), vale a dire, l'acquisizione dell'accertamento istruttorio, in relazione all'editio actionis, assunto a base della decisione del giudice del merito, quanto all'esposizione al rischio dei lavoratori (indagine essenzialmente tecnica).
b) Con il secondo profilo la ricorrente principale eccepisce altra nullità, deducendo che: il consulente d'ufficio utilizzò ai fini della sua relazione documenti non prodotti in causa, dei quali, comunque, non era stata data copia all' Azienda; assunse private informazioni; utilizzò analisi non eseguite dal consulente stesso.
Il Tribunale osservò al riguardo (pag. 21), citando anche giurisprudenza di questa Corte, che l'attività del consulente comprende altresì la facoltà di accertare, di sua iniziativa, ogni circostanza o notizia necessaria per rispondere al quesito, anche attraverso l'assunzione di informazioni presso terzi, o l'esame di documentazione non prodotta in causa.
Con riferimento al profilo in esame, occorre tener presente, inoltre, che la parte che, in sede di ricorso per cassazione, faccia valere la nullità della consulenza tecnica, causata dall'utilizzazione di materiale fotografico e documentario acquisito al di fuori del contraddittorio tra le parti, ha l'onere di specificare quale sia il contenuto della documentazione di cui lamenta l'irregolare acquisizione e quali accertamenti e valutazioni del consulente tecnico - poi utilizzati dal giudice - siano fondati su tale documentazione.
In difetto di tale specificazione - senza la quale neanche è possibile verificare se la dedotta irritualità abbia influito sulla decisione del giudice, determinandone la nullità - si configura l'inammissibilità del mezzo d'impugnazione, per la sua genericità (cfr. Cass. 7 dicembre 1994, n. 10500).
In punto di fatto, rilevasi che la ricorrente, accennando a documenti non prodotti in causa e ad analisi non effettuate dal consulente ma da questi esaminati, senza precisazione alcuna al riguardo, non ha neppure indicato quali accertamenti e valutazioni - poi utilizzati dal giudice del merito - il consulente stesso abbia fondato sul contenuto di tali documenti e sulla certificazione relativa a dette analisi (ciò che risultava dalla relazione; diversamente l'excipiens, ignara a suo dire delle indagini compiute in merito, non ne avrebbe avuto neppure conoscenza); cosicché non è consentito trarre illazione alcuna in ordine al lamentato pregiudizio del diritto di difesa, con l'ulteriore conseguenza che la censura introdotta con il profilo in esame risulta essere inammissibile, attesa la sua genericità.
c) Con il terzo profilo dello stesso motivo l' Azienda sembra riproporre eccezioni di nullità già disattese dal Tribunale, per non avere il consulente d'ufficio: redatto verbale dell'incontro; fissato altra data per la discussione; dato termine per lo scambio di memorie, documentazioni e rilievi.
È evidente, invece, che la ricorrente confonde le operazioni peritali con la sequenza degli atti tipica dei procedimenti giudiziari, atteso che il Tribunale, citando puntualmente la pacifica giurisprudenza di questa Corte, ha osservato che il consulente d'ufficio è tenuto a dare comunicazione dell'inizio delle operazioni peritali, mentre nessuna comunicazione è dovuta per la prosecuzione della consulenza, costituendo onere delle parti seguire lo svolgimento delle operazioni (arg. dagli artt. 90 e 91 disp. att. cod. proc. civ.).
d) Con un quarto profilo, che in realtà costituisce autonoma censura, l' Azienda sostiene che: occorreva accertare:
1) il significato di "categoria a rischio", che nella fattispecie non ricorre; 2) i luoghi di esecuzione della prestazione di lavoro; 3) se l'epatite B si possa trasmettere attraverso gli indumenti; 4) all'ipotesi che nel ricorso si annidi la denuncia di possibilità di infezioni di altri tipi risponde con la sua specifica ben nota competenza il consulente dell' Azienda nella relazione, che viene inserita tra le pagine 78 e 82 del ricorso principale (nella quale si nega la possibilità di contagio attraverso gli indumenti, sia dell'epatite B e C, sia di altre modalità batteriche e virali); 5) l'ausiliare consulente d'ufficio nega la possibilità di lavaggio domestico non per il contagio che tanto possa provocare ma perché le tute fornite dall' A.M.A.V. non sopporterebbero una temperatura superiore ai 40 - 50 gradi, che sarebbero insufficienti a eliminare il pericolo di contaminazione per i familiari dei lavoratori.
Si osserva che, oltre alle considerazioni svolte nel paragrafo n. 4 della presente motivazione, e cioè, che non erano affatto decisive le circostanze non esaminate dal Tribunale, relative all'esposizione a rischio dei "singoli" lavoratori, per una eventuale discriminazione, quantitativa e qualitativa dello stesso rischio, con riferimento alle diverse mansioni da essi espletate, alle modalità ed al tempo della prestazione di lavoro, occorre evidenziare che la ricorrente discute in questa sede il contenuto della consulenza tecnica d'ufficio come nei precedenti gradi di merito. Essa oblitera, cioè, che il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5 cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame dei punti decisivi della controversia, ovvero un insanabile contrasto tra le ragioni poste a fondamento della decisione, e non può, invece, consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perché la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito (cfr. ex multis Cass. 21 ottobre 1994, n. 8653; 28 ottobre 1993, n. 10503; 14 aprile 1987, n. 3715; 20 dicembre 1985, n. 6550).
La sentenza impugnata ha evidenziato l'esposizione a pericolo dei lavoratori ricorrenti, eccetto il gruppo di cui sub n. 1 del dispositivo, e ciò sulla base dell'elenco-mansionario di cui si è detto e delle risultanze della consulenza d'ufficio, la quale, come pure sottolinea il Tribunale, ha posto l'accento sugli aspetti contraddittori delle tesi della consulenza di parte datoriale.
Tali essendo le statuizioni conclusive del Tribunale, è da escludere che quest'ultimo avrebbe potuto adottare una decisione diversa da quella impugnata, ove avesse preso in esame le circostanze segnalate dall' Azienda, tra cui, in particolare, quella relativa all'impossibilità di effettuare il lavaggio degli indumenti da lavoro in ambienti domestici, perché essi non sopporterebbero, indipendentemente dal contagio, una temperatura superiore ai 40 - 50 gradi. Invero, è agevole osservare, sotto il profilo logico, che l'uso di tali indumenti, per il contatto dei lavoratori con i rifiuti solidi urbani (contatto che non vuol dire, ovviamente, apprensione "manuale" degli stessi) e il loro lavaggio domestico, costituivano un pericolo di contrarre malattie per i lavoratori medesimi e per i loro familiari, attese le emergenze processuali vagliate dal giudice a quo, cosicché, in applicazione dell'art. 2087 cod. civ., se non di altre norme speciali già prese in esame, l' Azienda datrice di lavoro, che, peraltro, è proprietaria di tali indumenti, è obbligata a organizzare un adeguato servizio di lavaggio (rimanendo, ovviamente, a suo carico ogni ulteriore obbligo conseguente, relativo all'eventuale sostituzione degli indumenti per usura o altro inconveniente, prodotti dallo stesso lavaggio a temperatura molto elevata).
Concludendo, l'articolata censura si rivela infondata.
Per le ragioni esposte il ricorso principale va rigettato.
10 - Passando all'esame del ricorso incidentale, va qui richiamato quanto già osservato in via pregiudiziale nel paragrafo n. 2 della presente motivazione.
Con il primo motivo di tale impugnazione tutti i dipendenti in causa dell' A.M.A.V. lamentano che il Tribunale abbia dichiarato inammissibile l'appello incidentale per mancata rituale notifica alla controparte nel giudizio di rinvio. Con tale appello essi chiedevano la riforma della sentenza di primo grado laddove non aveva indicato nominativamente: i soggetti la cui domanda era stata integralmente accolta, nonché i soggetti la cui domanda era stata accolta "sub condicione" (v. sentenza impugnata, pag. 9).
Nell'enunciazione del motivo è implicita la denuncia della violazione dell'art. 394 cod. proc. civ.
Esso è fondato per le ragioni che seguono.
Invero, come più volte è stato deciso, nel procedimento di rinvio davanti al giudice di secondo grado, che non costituisce un nuovo giudizio di appello, ma si configura come prosecuzione di quello precedente, non opera - nel caso di controversia di lavoro - la disposizione del comma tre dell'art. 436 cod. proc. civ..
Pertanto, la parte che in tale giudizio aveva veste di appellato non è tenuta, in sede di rinvio, a notificare alla controparte i motivi di gravame incidentale già avanzati nel giudizio conclusosi con la sentenza cassata, restando escluso che la mancata ripetizione degli adempimenti previsti da detta norma vide il principio del contraddittorio o pregiudichi i diritti di difesa della controparte stessa (cfr. Cass. 3 febbraio 1988, n. 1038; 29 maggio 1985 n. 3257).
Nè la Corte può rilevare che il Tribunale ha nominativamente indicato, sia i soggetti la cui domanda era stata integralmente accolta (da pag. 13 a pag. 17 della sentenza), sia i soggetti la cui domanda era stata accolta "sub condicione", (vedasi dispositivo della sentenza medesima) di cui si dirà a proposito di altri motivi del ricorso incidentale (per cassazione), perché tale giudizio spetta al giudice del merito, salva ogni altra eventuale ragione degli stessi appellanti incidentali.
11 - I controricorrenti "vincitori" hanno dedotto un secondo motivo (erroneamente indicato come primo) di ricorso incidentale, con il quale censurano la sentenza impugnata per avere disposto, al di fuori di ogni domanda e al di fuori di ogni giustificazione logica in relazione alla motivazione, la parziale compensazione nei loro confronti delle spese di primo grado.
Tale motivo è manifestamente infondato.
Invero, dal dispositivo della sentenza (punto 4) risulta chiaramente che il Tribunale dispose la compensazione parziale delle spese di primo grado, esclusivamente, tra "l' A.M.A.V. e gli appellati di cui al punto 1 (cioè, i lavoratori la cui domanda era stata rigettata e quindi soccombenti), mentre, sempre sub n. 4 detto, condannò l' A.M.A.V. alla rifusione delle spese di primo grado in favore degli appellati diversi da quelli indicati al punto 1 (cioè, i lavoratori vincitori).
Pertanto, il motivo è frutto di evidente equivoco.
12 - Con il terzo motivo i lavoratori soccombenti nella fase di rinvio si dolgono del fatto che il Tribunale, respingendo la loro domanda, abbia ritenuto inesistente l'attualità del diritto ad ottenere il lavaggio delle tute, dovendo essere previamente raggiunto in sede sindacale un accordo diretto a verificare in concreto l'utilizzazione degli stessi in compiti che dispongano al pericolo di contagio; considerato altresì che il Pretore, nel condannare sub condicione l' Azienda, coinvolse le rappresentanze sindacali aziendali, che non sono parti in causa.
Anche questo motivo è manifestamente infondato.
Infatti, secondo univoca giurisprudenza di questa Suprema Corte, nel nostro ordinamento sono ammesse, in aderenza al principio dell'economia dei giudizi, sentenze condizionali, nelle quali l'efficacia della condanna è subordinata al verificarsi di un determinato evento futuro e incerto, o di un termine prestabilito, o di una controprestazione specifica, sempreché il verificarsi della circostanza tenuta presente non richieda ulteriori accertamenti di merito da compiersi in un nuovo giudizio di cognizione". Con dette pronunce non viene emessa una condanna da valere per il futuro, ma si accerta l'obbligo (attuale) di eseguire una certa prestazione ed il condizionamento (parimenti attuale) di tale obbligo al verificarsi di una circostanza il cui avveramento, pur presentandosi differito ed incerto, non richiede, per il suo accertamento, altre indagini che quella se la circostanza si sia o meno verificata" (cfr. ex multis, Cass. 1 febbraio 1991, n. 978; 25 gennaio 1984, n. 604; Sez. Un. 23 novembre 1974, n. 3796).
Alla stregua del principio così enunciato, rettamente il Tribunale ha escluso la configurabilità nella fattispecie in esame della sentenza condizionale, in riforma della sentenza pretorile, atteso che non si era potuto accertare l'obbligo (attuale) di eseguire una certa prestazione da parte della datrice a favore di lavoratori, i quali non erano stati ancora individuati.
Inoltre, tale individuazione, secondo la statuizione del primo giudice, avrebbe dovuto formare oggetto di un accordo con un terzo (non parte in causa), ovvero, in difetto, di un ricorso all'autorità giudiziaria; cosicché il verificarsi della "condizione" non avrebbe richiesto il semplice accertamento se l'evento dedotto in essa fosse riscontrabile o meno, dato che si prospettava persino, a tal fine, l'eventualità di un altro procedimento giudiziario.
Per le ragioni esposte, va accolto nei sensi di cui in motivazione il primo motivo del ricorso incidentale, mentre vanno rigettati gli altri due; per l'effetto va cassata la sentenza impugnata con rinvio della causa per nuovo esame ad altro giudice d'appello che si designa nel Tribunale di Treviso.
La parziale, reciproca, soccombenza e la complessità della fattispecie decisa costituiscono giusti motivi per compensare interamente tra le parti costituite le spese del presente giudizio di cassazione (art. 92 cod. proc. civ.).

P.Q.M.


La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale; accoglie il primo motivo del ricorso incidentale; rigetta gli altri motivi dello stesso ricorso; cassa per l'effetto la sentenza impugnata e rinvia la causa per nuovo esame al Tribunale di Treviso, Sez. Lavoro; compensa interamente fra tutte le parti costituite le spese del presente giudizio di cassazione (relative ad entrambi i ricorsi).
Così deciso in Roma l'11 aprile 1997.