Tribunale di Milano, Sez. del riesame, ordinanza 28 ottobre 2004 - Modello di organizzazione e pericolo di commissione di illeciti della stessa indole


 

 

n. 2038/04 RG TRD
n. 2460/03 R.G.N.R. Trib. Milano
n. 950/03 R.G.A.G. Trib. Milano


Tribunale ordinario di Milano
sezione XI penale
in funzione di giudice del riesame

Il Tribunale riunito in camera di consiglio nella persona dei magistrati:
dott. Maria Cristina Mannocci Presidente rel.
dott. Carla Galli Giudice
dott. Alessandra Bassi Giudice



nel procedimento ex art. 310 c.p.p. instauratosi a seguito della ordinanza n. 20587/04 emessa dalla Corte di Cassazione che ha qualificato come appello ex art. 310 C.P.P. la impugnazione depositata dal difensore nell’interesse di
SIEMENS AG, in persona del legale rappresentante ..., avv. Schafer Albrecht e avv. Hartwing Niels, domiciliata presso il difensore
difesa dall’avv. Ennio Amodio del foro di Milano

avverso la ordinanza applicativa di misura interdittiva emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Milano in data 28.4.2004
letti gli atti pervenuti il 13.10.2004
sciogliendo la riserva di cui alla udienza camerale del 28.10.2004, ha emesso la seguente

ordinanza



All’esito del procedimento camerale ex art. 47 D.Lgs. n. 231 del 2001 il G.I.P. applicava nei confronti di SIEMENS AG, con ordinanza in data 28.4.2004, la misura cautelare del divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio, per il periodo di anni 1, in relazione all’illecito amministrativo previsto dall’art. 25 III comma del D.Lgs. n. 231 del 2001 relativo al delitto di cui agli artt. 110, 81 cpv., 321, 319 e 319 bis C.P., perchè, non avendo adeguatamente vigilato sull’osservanza del modello di organizzazione predisposto al fine di prevenire la commissione di reati, rendeva possibile che V., B., D. in concorso tra loro e con altri soggetti in corso di identificazione, al fine di favorire la SIEMENS AG (che operava in associazione temporanea di imprese con le società italiane Ansaldo Energia s.p.a. e Ansaldo Caldaie s.p.a.) nell’aggiudicazione di una serie di forniture di turbine a gas per il programma di riconversione delle centrali di ENEL Produzione EP,  aggiudicazione in effetti avvenuta a seguito di gare indette da ENELPOWER WPW su commissione di EP, concordassero con C.A. (amministratore delegato di EP) e con G.L. (amministratore delegato di EPW) la corresponsione di illecite erogazioni che, provenienti da conti riferibili a SIEMENS AG, pervenivano su conti riservati di C. e G., dopo essere transitate su conti di MEEISCO LLC (società riconducibile a Al Nowais Hussein) traendo dalla condotta delittuosa dei propri funzionari un profitto di rilevante entità, consistito nella aggiudicazione della gara IAA01015 del valore finale di assegnazione, relativamente alla commessa di n. 5 turbogas, pari a euro 204.875.000.
Reato commesso a Milano fino al maggio 2002

(il capo di incolpazione oggetto della contestazione preliminare formulata dal P.M. faceva riferimento altresì anche alla gara GUCE 99/6 relativa alla commessa di 7 turbogas, pari a 157.978.000 euro; questo primo contratto, e anche la prima “corruzione”, risalgono però all’anno 2000 e pertanto esulano dall’ambito di operatività del D.Lgs. n. 231 del 2001 che non era ancora in vigore nel momento in cui si verificarono detti episodi; conseguentemente, la misura interdittiva ex artt. 45 e ss D.Lgs. n. 231 del 2001 è stata applicata dal G.I.P. solo in relazione alla seconda fornitura, quella relativa appunto alle 5 turbogas; i fatti precedenti alla entrata in vigore del D.Lgs. n. 231 del 2001 restano quindi fatti attribuibili alle sole persone fisiche e, al più, possono essere valutati solo sotto il profilo della concretezza del pericolo di reiterazione di analoghi reati).

Con ordinanza “di integrazione” del 5.5.2004 il dispositivo della ordinanza del 28.4.2004 è stato modificato ed integrato limitando il divieto di contattare con la pubblica amministrazione per il periodo di un anno alla sola attività della SIEMENS AG che riguarda la fornitura di turbine a gas.

Nella ordinanza il G.I.P. ritiene sussistenti tutte le condizioni di applicabilità della misura interdittiva prevista da D.Lgs. n. 231 del 2001, ossia:
a) la appartenenza di V., D. e B. ad una delle categorie soggettive individuate dall’art. 5 D.Lgs. n. 231 del 2001
a1) il fatto che non abbiano commesso il reato per cui si procede nell’interesse esclusivo proprio o di terzi;
b) la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico di V., D. e B. per reati che debbono rientrare nel novero di quelli idonei a fondare la responsabilità dell’ente di appartenenza (artt. 24 e 26 D.Lgs. n. 231 del 2001), nel caso di specie i reati di cui agli artt. 321, 319, 319 bis C.P.;
c) la mancata adozione ed efficace attuazione di un modello organizzativo idoneo ad evitare reati quali quelli verificatisi (condizione a cui il D.Lgs. n. 231 del 2001 subordina la responsabilità dell’ente ai sensi dell’art. 7 D.Lgs. n. 231 del 2001; il modello se adottato e diligentemente attuato avrebbe garantito all’ente la esenzione di responsabilità per i reati ciò nonostante commessi dai suoi funzionari ex art. 7 commi 2, 3, e 4);
d) il pericolo di reiterazione del reato, richiesto dall’art. 45 D.Lgs. n. 231 del 2001 per l’applicazione in via cautelare delle misure interdittive di cui all’art. 9;
e) le ulteriori condizioni ritenute necessarie dalla dottrina prevalente per la applicazione delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9, ossia –pur nei limiti propri della cognizione sommaria – le condizioni previste dall’art. 13 per la comminazione delle sanzioni interdittive (il profitto di rilevante entità tratto dalla società di cui alla lettera a oppure la reiterazione degli illeciti di cui alla lettera b).

Dopo avere trattato questi punti il G.I.P. argomenta anche – a seguito del tenore delle osservazioni svolte nella camera di consiglio - sui limiti spaziali della giuridisizione italiana (ritenendo che chi opera in Italia ha l’obbligo di osservare la lex loci), sulla eseguibilità della misura interdittiva all’estero (rilevando che il divieto riguarda solo la contrattazione con la P.A. italiana), sulla attribuibilità delle somme di denaro erogate alle trattative che hanno dato luogo al contratto descritto nel capo di incolpazione (vista la situazione di generale mercimonio esistente in EPW e il tenore delle dichiarazioni sul punto di G. e C.), sulla sussistenza del reato di cui all’art. 319 invece che del reato di cui all’art. 318 (ossia la regalia per un atto di ufficio), nonchè sulla esclusione delle attuazione da parte di SIEMENS delle condotte riparatorie di cui all’art. 17 D.Lgs. n. 231 del 2001.
Infine il G.I.P. motiva in ordine al fatto che, vista la situazione di monopolio assunta da SIEMENS AG conseguentemente ai reati commessi, l’unica misura idonea a prevenire la commissione di ulteriori illeciti sia quella del divieto di contrattazione con la P.A.

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Avverso la ordinanza applicativa di misura interdittiva emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Milano in data 28.4.2004 (ed integrata, o meglio limitata nei suoi effetti inibitori, dalla ordinanza del 5.5.2004) la difesa ha proposto ricorso in Cassazione, poi convertito dalla Corte di Cassazione in appello ex art. 310 C.P.P., con un atto contenente 8 motivi di impugnazione e, a seguito della conversione del ricorso in appello ex art. 310 C.P.P. di cui si è detto, ha presentato note di udienza in cui illustra più compiutamente il motivo n. 4, relativo alla erronea qualificazione del fatto indicato quale reato-presupposto dell’illecito amministrativo ascritto a SIEMENS AG.

Detti motivi di impugnazione possono essere così sostanzialmente riassunti.

1a) nullità della ordinanza per mancanza documentale di motivazione (in quanto il giudice si è limitato a riportare le argomentazioni contenute nella richiesta avanzata dal P.M. senza estrinsecare il suo pensiero neppure nei limitati termini della illustrazione delle ragioni per cui ritenere di condividere in toto detta richiesta);
1b) mancanza di motivazione sulla attualità del periculum: ciò sia perché la ordinanza è stata depositata a 5 mesi di distanza dalla conclusione della camera di consiglio ex art. 47 del D. Lgs. n. 231 del 2001, sia perché quando argomenta sulla situazione contrattuale ancora aperta tra SIEMENS AG e Enel in riferimento al contratto di manutenzione, trascura di considerare che nel frattempo è intervenuto accordo risarcitorio che tra l’altro contiene delle modifiche al contratto di “service”;
1c) mancata pronuncia sulla istanza di sospensione ex artt. 17 e 49 del D. Lgs. n. 231 del 2001;
2) nullità della ordinanza per violazione del divieto di applicazione di misure cautelari per acquisire dichiarazioni degli indagati: lamenta la difesa che il G.I.P. abbia fondato il giudizio sulla sussistenza del requisito di cui all’art. 13 lett. b del D. Lgs. n. 231 del 2001, ossia sulla reiterazione degli illeciti, dalla condotta di non collaborazione degli indagati e dell’ente;
3) difetto di giurisdizione della autorità giudiziaria italiana: la difesa lamenta la insussistenza del potere giurdisdizionale del giudice italiano, che si riflette nell’assenza di potere in funzione cautelare, dato che la responsabilità amministrativa di SIEMENS AG viene contestata per non avere osservato gli obblighi di direzione o vigilanza e in particolare per non avere attuato il modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, con la “conseguenza inevitabile” che se è vero che l’illecito amministrativo si integra nella mancata adozione dei codici comportamentali, detto illecito si è radicato fuori dal territorio dello Stato italiano e come tale si sottrae alla giurisdizione del giudice italiano;
4) erronea qualificazione del fatto indicato quale reato-presupposto dell’illecito amministrativo ascritto a SIEMENS AG.; la difesa lamenta che il G.I.P, abbia erroneamente qualificato ai sensi dell’art. 319 C.P. il comportamento tenuto dai dirigenti di SIEMENS AG, dato che non si trattò di una gara, ma di una trattativa privata secondo il modello di procedura europea negoziata (definita dall’art. 12 lett. c del D.Lgs. 158/95); la difesa evidenzia inoltre che dagli stessi interrogatori di G. e C., si evince che l’assegnazione delle 5 turbine a gas era già stata decisa dai vertici Enel prima della ricezione delle somme che secondo la impostazione accusatoria sarebbero stata versate a fini corruttive e che pertanto il fatto deve essere qualificato ai sensi dell’art. 318 C.P., reato per il quale non è prevista la applicazione della misura interdittiva ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001; questo motivo di doglianza è stato ribadito dalla difesa anche nelle note di udienza presentate davanti a questo Tribunale, con particolare riferimento al tenore degli interrogatori resi dai vari indagati davanti alla A.G. tedesca o assunti in Italia su richiesta rogatoriale della A.G. tedesca;
5) nullità della ordinanza per omessa motivazione sugli indizi di responsabilità per l’illecito amministrativo ed in particolare sul presupposto imprescindibile per fondare, anche ai soli fini cautelari, la responsabilità della società in relazione ai reati commessi da soggetti dipendenti secondo quanto stabilito dall’art. 7 D. Lgs. n. 231 del 2001, ossia la mancanza o inefficacia del modello di organizzazione, gestione e controllo della attività societaria idoneo a prevenire la commissione di reati;
6) nullità per omessa motivazione sul pericolo di reiterazione dell’illecito amministrativo di cui all’art. 45 I comma D. Lgs. n. 231 del 2001; la difesa lamenta anzitutto che il G.I.P. abbia confuso il periculum in mora concernente la ripetizione dell’illecito amministrativo da parte dell’ente previsto dall’art. 45 del D. Lgs. n. 231 del 2001 con la reiterazione del reato o meglio degli illeciti, che è prevista invece dall’art. 13 I comma lett. b del decreto citato, ed in secondo luogo lamenta che la valutazione del G.I.P. si fondi su argomenti apodittici, quali la esistenza di fondi extracontabili e il fatto che non venne neppure definito il contratto di service (fatto da cui il G.I.P. ricava il convincimento della volontà di lasciarsi aperte altre strade di corruzione);
7) nullità per omessa motivazione sul profitto del reato quale presupposto per la applicazione di misure cautelari ai sensi dell’art. 13 I comma lett. a D. Lgs. n. 231 del 2001;
8) erronea applicazione delle norme attinenti i rapporti tra profitto e danno (artt. 13 I comma lett. a, 19 I comma e 49 I comma D. Lgs. n. 231 del 2001); la difesa lamenta che il G.I.P. non abbia affrontato il tema della sospensione ex art. 49 del decreto pur dopo la richiesta di termine per effettuare le condotte riparatorie di cui all’art. 17 del D. Lgs. n. 231 del 2001, ritenendo non realizzato se non in parte il risarcimento del danno e non intervenuta la restituzione del profitto.


Alla udienza davanti a questo Tribunale (alla valutazione del quale sono sottoposti sia gli atti già trasmessi alla Corte di Cassazione a seguito del ricorso avanzata dalla difesa di SIEMENS AG, sia gli atti che erano stati successivamente trasmessi alla Corte di Cassazione dal P.M., inerenti gli interrogatori assunti in Germania a seguito di rogatoria italiana e quelli assunti in Italia a seguito di rogatoria tedesca), la difesa ha prodotto alcuni atti relativi alla cessazione o sospensione dalle cariche di alcuni dirigenti della SIEMENS AG (A.K., W. B., Michael D.); la difesa si è poi riportata ai motivi della impugnazione già in atti, illustrando in particolare quelli di cui punti 4, 5 e 6 ed ha chiesto l’annullamento della impugnata in ordinanza:
per difetto di giurisdizione
per mancanza di indizi di responsabilità dell’ente, di colpa ex art. 7 del D. Lgs. n. 231 del 2001 e del periculum di cui all’art. 45 dello stesso decreto;
in subordine la difesa ha chiesto che venisse disposta la sospensione della misura interdittiva in relazione alla richiesta già avanzata al G.I.P. per completare le integrazioni richieste dall’art. 17 D. Lgs. n. 231 del 2001;
in ulteriore subordine ha chiesto che, in ragione della tardività nella emissione della ordinanza rispetto alla celebrazione della udienza in camera di consiglio ex art. 47 D. Lgs. n. 231 del 2001 (e in particolare in relazione alle notizie apparse sulla stampa in occasione già della presentazione al giudice della richiesta del P.M.) venisse disposta una riduzione di 5 mesi del periodo in cui è stata interdetta la attività della società.



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Occorre anzitutto rilevare che la questione relativa ai punti 1a, 1b e 1c dei motivi di impugnazione e più in generale tutte le doglianze relative alla nullità della ordinanza per omessa motivazione da parte del G.I.P. – per quanto ribadite dal difensore di SIEMENS AG nel corso della udienza davanti a questo Tribunale, quando ha coniato la definizione di “motivazione per incorporationem” - devono valutarsi come poste, essenzialmente e nei termini di cui ai motivi di impugnazione, in vista del giudizio davanti alla Corte di Cassazione inizialmente instaurato dalla difesa, atteso che una eventuale nullità della ordinanza applicativa della misura interdittiva per difetto strutturale del provvedimento conseguente al difetto di motivazione potrebbe comunque essere sanata dal provvedimento emesso dal Tribunale competente ex art. 310 C.P.P., stante la complementarità tra i due provvedimenti, (con l’unica eccezione della carenza assoluta di motivazione, insanabile nei casi in cui essa manchi anche in senso grafico ovvero si risolva in clausole di stile; v. Cass. sez. II, 26.2.2000 n. 669).
Nel caso di specie poi, il giudizio della difesa SIEMENS AG in ordine alla totale ed assoluta carenza di motivazione non può certo essere condiviso, dato che dalla stessa lettura della ordinanza emerge che il giudice, dopo avere riportato nella prima parte la richiesta del P.M quanto alla illustrazione dei presupposti di fatto e di diritto per la applicazione della misura interdittiva, ha poi dato spazio anche alle tesi difensive, illustrando compiutamente le ragioni per cui riteneva inaccoglibili o privi di pregio alcuni dei rilievi difensivi.

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La motivazione e l’iter logico argomentativo seguiti dalla ordinanza impugnata appaiono invece a questo Tribunale del tutto condivisibili, emergendo dagli atti la sussistenza di tutti i presupposti e requisiti richiesti dal D. Lgs. n. 231 del 2001 per la applicazione della misura interdittiva.

E’ anzitutto condivisibile la motivazione del provvedimento impugnato, che va intesa qui integralmente richiamata, in ordine alla sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura interdittiva prevista da D.Lgs. n. 231 del 2001, condizioni che di seguito possono così riassumersi.

La appartenenza di V. (consulente di SIEMENS AG), D. (direttore commerciale di SIEMENS AG) e B. (dirigente prima e poi direttore esecutivo di SIEMENS AG) ad una delle categorie soggettive individuate dall’art. 5 D.Lgs. n. 231 del 2001 ed in particolare alla categoria di cui alla lett. b dell’art. 5 D.Lgs. n. 231 del 2001; le funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione dell’ente rivestite da V., D. e B. emergono dall’organigramma di SIEMENS, dalle dichiarazioni rese da C., G. e Zampini, ma anche dal tenore degli atti assunti a seguito di rogatoria in Germania, e di quelli assunti in Italia a seguito di rogatoria tedesca, nonchè dalle stesse produzioni difensive alla camera di consiglio davanti a questo Tribunale.

Il fatto che V., D. e B. non abbiano commesso il reato per cui si procede nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.
Per quanto non possa escludersi che V., D. e B. abbiano ricevuto anche un vantaggio in termini di carriera e di apprezzamento delle loro capacità dalla aggiudicazione di un affare della portata di quello in contestazione, certamente deve ritenersi che dall’affare conclusosi grazie al pagamento di tangenti sia derivato un enorme guadagno della società (la portata dell’affare non deve essere valutata solo in riferimento al prezzo contrattuale, ma anche in riferimento al fatto che con il contratto SIEMENS AG entrava in posizione di sostanziale monopolio nel mercato del turbogas in Italia); la valutazione della rispondenza della commissione del reato agli interessi non esclusivamente propri di V., D. e B. (per restare ai responsabili già identificati) o di terzi, bensì agli interessi della SIEMENS AG non può poi effettivamente prescindere (a rischio altrimenti di un insulto alla logica prima ancora che al buon senso) dalla considerazione del fatto che le ingenti somme versate a titolo di tangenti provenivano da conti “riservati”, o meglio extra-contabili, sicuramente riferibili a SIEMENS AG; la riconducibilità di tali conti a SIEMENS AG – elemento che viene messo in dubbio nei motivi di impugnazione, anche se solo “tra le righe” - appare pacifica non solo in base agli atti di indagine già elencati nella ordinanza impugnata, alla quale si rimanda, ma anche:
a) dal tenore delle dichiarazioni rese a Darmstadt da H.V. del 23.6.2004 e del 24.6.2004 circa la esistenza di questi fondi di proprietà di SIEMENS AG e la conoscenza di essi da parte di B., ma anche delle persone a lui sovraordinate, ossia K. e A.K.;
b) dal tenore delle dichiarazioni rese da A.K. a Francoforte sul Meno il 21.6.2004 e poi come imputato a Darmstadt il 9.7.2004 circa la esistenza di fondi neri riferibili alla SIEMENS AG.

La sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico di V., D. e B. per reati che debbono rientrare nel novero di quelli idonei a fondare la responsabilità dell’ente di appartenenza (artt. 24 e 26 D.Lgs. n. 231 del 2001), nel caso di specie i reati di cui agli artt. 321, 319, 319 bis C.P..
Sul punto si rimanda alle argomentazioni già sviluppate nella ordinanza impugnata nella quale riassume tutta la attività investigativa inizialmente relativa a Enel Pover EPW, la scoperta delle varie somme transitate sui conti esteri, tra cui quelle intermediate con il conto MEEISCO di Al Nowais e di cui era beneficiario il conto Zaghy 12 a Montecarlo, riconducibile a C., il quale il 10.7.2003 spiegava che la erogazione di quelle somme proveniva da SIEMENS AG, disvelando la situazione corruttiva descritta nel capo di incolpazione della ordinanza oggi in esame.
Alle dichiarazioni di C. si aggiungevano poi quelle di G. rese il 15.7.2003, nonchè gli ulteriori interrogatori (di C. del 22.7.2003 e del 1.8.2003, di G. del 24.7.2003 e di Al Nowais del 29.7.2003, oltre che di Giuseppe Zampini amministratore delegato di Ansaldo), dichiarazioni tutte che illustrano la vicenda nei termini poi ricostruiti nel capo di incolpazione.
La difesa SIEMENS AG lamenta che il fatto indicato quale reato-presupposto dell’illecito amministrativo ascritto a SIEMENS AG. sia stato erroneamente qualificato ai sensi degli artt. 319 e 321 C.P., ritenendo che esso dovesse semmai essere qualificato ai sensi dell’art.318 C.P.
Nei motivi scritti di impugnazione si evidenzia che quella per la assegnazione del contratto di fornitura delle turbine a gas non fu una gara, ma una trattativa privata secondo il modello di procedura europea negoziata (definita dall’art. 12 lett. c del D.Lgs. 158/95); si evidenzia inoltre che dagli stessi interrogatori di G. e C. si evince che l’assegnazione delle 5 turbine a gas (relative quindi alla seconda gara, l’unica che ricade nell’arco temporale in cui può essere applicato il disposto del D. Lgs. n. 231 del 2001, e pertanto l’unica presa in considerazione nella applicazione della misura interdittiva prevista dal decreto suddetto) era già stata decisa dai vertici Enel prima della ricezione delle somme che secondo la impostazione accusatoria sarebbero stata versate a fini corruttivi; questo rilievo inteso alla valutazione del fatto ai sensi dell’art. 318 C.P., reato per il quale non è prevista la applicazione della misura interdittiva ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001, viene dalla difesa ribadito anche nelle note di udienza presentate davanti a questo Tribunale, con particolare riferimento al tenore delle dichiarazioni rese dai vari indagati nel corso degli interrogatori avvenuti davanti alla A.G. tedesca o assunti in Italia su richiesta rogatoriale della A.G. tedesca.
In realtà - anche a volere prescindere dalla questione della corruzione susseguente e dalla questione evidenziata dal G.I.P. nella ordinanza impugnata relativa al fatto che l’accordo corruttivo non si poggia su un singolo atto bensì su una intera procedura viziata a causa del condizionamento del p.u. agli interessi del gruppo di cui è debitore - pare al Collegio che la ricostruzione difensiva si fondi su una lettura solo parziale degli atti, trascurando le precise dichiarazioni sul punto di C. e quelle di G. nel corso dell’interrogatorio del 24.7.2003 (quando spiega “in altri termini. fornivo al D. tutte le informazioni utili perchè aggiustasse l’offerta e nel contempo mi facevo dare da lui le indicazioni che servivano alla Siemens per allineare l’offerta della gara”), ma trascurando anche il tenore degli interrogatori che sono stati assunti in Germania, con descrizione degli incontri avvenuti nel corso delle trattative “riservate” proprio per chiarire e mettere a punto i termini dell’aiuto che sarebbe stato dato a SIEMENS AG nella assegnazione del contratto, offrendo i suggerimenti necessari, beninteso in cambio di congrua “bustarella”, per superare le “aggressive” offerte fatte da GE, ugualmente molto interessata all’ingresso nel mercato italiano.
Ad esempio A.K. nell’interrogatorio del 9.7.2004 chiarisce che B. ad un certo punto gli disse che la situazione (con i contraenti italiani) si era aggravata e che c’era bisogno di un pagamento “ormai si trattava solo di perdere l’ordine o di pagare”, e poi precisa ancora che lui fin dall’inizio aveva compreso il discorso di B. così: <>; più oltre precisa ancora, e più volte, il collegamento tra il pagamento e la aggiudicazione dell’affare.
Stessa situazione emerge dalla lettura delle dichiarazioni rese da H.V. il 27.5.2004 a Darmstadt, quando spiega più o meno negli stessi termini i contatti avuti fin dall’inizio della vicenda con C. , termini che si possono riassumere nella frase <>.
Appare quindi corretta la contestazione a V., D. e B. del reato di cui agli artt. 321, 319 e 319 bis C.P., reati che rientrano nel novero di quelli idonei a fondare la responsabilità dell’ente di appartenenza ai sensi degli artt. 24 e 26 del D.Lgs. n. 231 del 2001.

La mancata adozione e la efficace attuazione di un modello organizzativo idoneo ad evitare reati quali quelli verificatisi.
La adozione del modello organizzativo idoneo ad evitare la commissione di reati quali quelli per cui si procede è condizione a cui il D.Lgs. n. 231 del 2001 subordina la responsabilità dell’ente nel caso di cui all’art. art. 7 I comma D.Lgs. n. 231 del 2001, dato che la adozione del modello e la sua diligente attuazione, disciplinati dai commi III e IV della norma, garantiscono all’ente la esenzione di responsabilità per i reati ciò nonostante commessi dai suoi funzionari.
Il tema della mancanza di detto modello, anche sotto il profilo della inidoneità del modello rispetto alle prescrizioni di cui all’art. 7 del decreto citato, (tema che interessa peraltro anche in relazione alla questione della sospensione della misura interdittiva sollevata dalla difesa nella richiesta subordinata, di cui si tratterà in seguito), è trattato sia dal G.I.P. che dalla difesa sotto diversi profili: su questo punto la difesa fonda espressamente i motivi di impugnazione di cui ai punti 3 e 5 del ricorso, ma è da osservare che la questione della esistenza e della idoneità del modello organizzativo di cui all’art. 7 del D. Lgs. n. 231 del 2001 si riverbera – assorbendoli addirittura, ai fini che interessano in questa sede - anche sugli altri punti trattati nella ordinanza impugnata, ad esempio:
• quando tratta della attualità e concretezza del pericolo di reiterazione di analoghi reati;
• quando tratta della esistenza della condizione di cui all’art. 13 lett. A del D.Lgs. n. 231 del 2001 (seguendo la dottrina prevalente che ritiene necessaria la sussistenza, sia pur nei limiti propri della cognizione sommaria, delle condizioni richieste dall’art. 13 del decreto per la comminazione delle pene accessorie interdittive, condizioni che sono appunto il profitto di rilevante entità tratto dalla società e le gravi carenze organizzative che hanno determinato o agevolato la commissione dei reati da parte di soggetti sottoposti alla altrui direzione di cui alla lettera A dell’art. 13, oppure la reiterazione degli illeciti di cui alla lettera B dell’art. 13);
• quando tratta della mancanza delle condotte riparatorie di cui all’art. 17 del D. Lgs. n. 231 del 2001, tra cui appunto la adozione del modello organizzativo previsto dalla norma quale strumento preventivo ed impeditivo della commissione di nuovi reati, evidenziando come non possa certo essere ritenuta sufficiente la produzione di quel generico codice etico (le Business Conduct Guidelines) allegati alla memoria difensiva SIEMENS presentata per la udienza in camera di consiglio.
Questi ultimi punti della ordinanza sono poi stati criticati dalla difesa nei motivi di impugnazione 7 ed 8.

I “modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi” interagiscono con il sistema della responsabilità degli enti sotto due profili:
1) sotto un primo profilo – che è quello che più rileva per la fattispecie che ci occupa, per il richiamo dell’art. 45 del D. Lgs. n. 231 del 2001 alla sussistenza dei gravi indizi per ritenere sussistente la responsabilità dell’ente - il compliance program funge da criterio di esclusione della cosiddetta colpa da organizzazione (nel caso di reati commessi da titolari di posizioni apicali la colpa da organizzazione dell’ente è esclusa se vi è stata la adozione e la efficace attuazione dei modelli organizzativi adeguatamente controllati ed aggiornati e se gli autori del reato hanno fraudolentemente eluso detti modelli; nel caso di reati commessi da soggetti sottoposti alla altrui direzione o vigilanza, la colpa da organizzazione dell’ente è esclusa appunto dalla adozione ed efficace attuazione del compliance program);
2) la esistenza di un compliance program, o meglio la sua adozione ed efficace attuazione, è inoltre criterio di attenuazione delle conseguenze giuridiche ed economiche conseguenti alla responsabilità dell’ente:
in caso di sanzioni pecuniarie la adozione post factum di un compliance program determina la riduzione delle sanzioni (in misura diversa a seconda che vi si accompagni o meno il risarcimento del danno)
in caso di sanzioni interdittive la adozione del compliance program, insieme all’integrale risarcimento del danno o alla esecuzione di condotte intese ad efficacemente conseguirlo e alla messa a disposizione del profitto conseguito, esclude la applicazione delle sanzioni;
in caso di adozione di misure interdittive è disposta la sospensione delle medesime se l’ente chiede di realizzare gli adempimenti intesi a risarcire il danno, di mettere a disposizione il profitto e di adottare adeguati compliance program.

Il D. Lgs. n. 231 del 2001 (che trova la sua genesi in convenzioni internazionali e comunitarie che impongono di prevedere la responsabilità delle persone giuridiche, e in particolare nella convenzione di Bruxelles 26.7.1995 e relativi protocolli, e nella convenzione dell’OCSE siglata a Parigi il 17.12.1997, convenzioni siglate sia dalla Italia che dalla Germania) ha adottato il sistema dei compliance program sulla base di una scelta precisa del legislatore: come si legge nella Relazione al decreto suddetto “...piuttosto che sancire un generico dovere di vigilanza e di controllo dell’ente sulla falsariga di quanto disposto nella delega...si è preferito allora riempire tale dovere di specifici contenuti: a tale scopo un modello assai utile è stato fornito dai compliance program da tempo funzionanti negli Stati Uniti...”; la Relazione al D. Lgs. n. 231 del 2001 precisa infatti che nelle realtà collettive a struttura semplice è sufficiente affermare un generale obbligo di vigilanza, mentre il richiamo a generici standard di diligenza appare insufficiente nelle realtà organizzative complesse, caratterizzate da un’articolazione di competenze che fanno capo ad una pluralità di centri decisionali, (come è nel caso di SIEMENS AG) .
E’ da dire fin d’ora – anche a proposito del rilievo difensivo circa la inversione dell’onere della prova, e circa il fatto che nè il P.M. nè il G.I.P. abbiano minimamente indicato le ragioni per cui ritenevano carenti ed inefficaci i meccanismi organizzativi e di controllo adottati da SIEMENS AG già dal 1998 fino alla emanazione del testo base del 2001 – che i modelli da tempo funzionanti negli Stati Uniti d’America di cui parla la Relazione hanno costituito un punto di riferimento per tutti gli Stati che hanno inteso aderire alle convenzioni internazionali e comunitarie di cui si è detto, e sono stati valutati e presi in considerazione da tutti gli organismi preposti a vario titolo alla redazione dei compliance program, a partire dalle associazioni di categoria italiane che hanno dettato le linee guida per la costruzione di detti modelli per arrivare alla stessa SIEMENS AG (come emerge dalla stessa memoria prodotta dalla difesa SIEMENS AG per la udienza in camera di consiglio del 3.12.2003, quando precisa che le disposizioni contenute nella normativa adottata negli anni 1998-2000 erano state enucleate sulla scorta delle U.S. Sentencing Guidelines).
Quanto al contenuto dei “modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi” è evidente la necessità della esistenza di taluni caratteri, quali la efficacia, la specificità e la dinamicità, che appaiono strutturali dei compliance program cui si voglia attribuire una concreta idoneità ad assolvere le funzioni a cui sono destinati: nella individuazione di questi caratteri soccorre del resto il tenore dello stesso art. 7 del D.Lgs. n. 231 del 2001, che nel prevedere la adozione ed efficace attuazione di misure idonee a prevenire reati della specie di quello verificatosi, parla al III comma della adozione di misure idonee a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio e al IV comma subordina la efficace attuazione del modello alla previsione di verifiche periodiche e alla adozione di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
La efficacia di un modello organizzativo dipende quindi dalla sua idoneità in concreto ad elaborare meccanismi di decisione e di controllo tali da eliminare o ridurre significativamente l’area del rischio di responsabilità, ed ovviamente la efficacia è da collegarsi alla efficienza degli strumenti idonei non solo a sanzionare eventuali illeciti, ma anche ad identificare le “aree di rischio” nella attività della società (come può essere nel caso di specie la contrattazione con enti pubblici, situazione che ben avevano presenti i dirigenti SIEMENS AG, come emerge dal contenuto degli interrogatori assunti in Germania di cui si è già detto) nonchè le “sintomatologie da illecito”, quali indubbiamente sono la esistenza di condotte riconducibili alla frode fiscale, o alle false comunicazioni sociali e, soprattutto, la presenza di “fondi neri”, ritenuti a tutta evidenza dei “red flag” (ossia situazioni a cui normalmente si connette la commissione di reati).
Non è certo un caso che sia le U.S. Sentencing Guidelines, sia le linee guida emanate dalle associazioni di categoria italiane prevedano come essenziale e imprescindibile la assoluta trasparenza della contabilità quale presupposto indispensabile per la efficace attuazione di un modello idoneo a prevenire la commissione di reati (così ad esempio nel modello organizzativo di Enel del 2002 si prevede che qualunque omaggio a pubblici funzionari pur appartenenti a Paesi in cui la elargizione di doni rappresenti una prassi diffusa debba essere documentato in modo adeguato per consentire le prescritte verifiche): è infatti evidente che in mancanza di trasparenza contabile qualunque modello di controllo verrebbe ad essere assolutamente svuotato di reale significato e di efficacia ed avrebbe esclusivamente il valore di una “raccomandazione” solo formale all’osservanza di un codice etico di comportamento, con la conseguenza di privare di ogni efficacia e significato la adesione dei singoli paesi alle convenzioni internazionali suddette.

Sulla base di queste considerazioni e sulla base della valutazione di alcuni elementi, taluni preesistenti e taluni successivi alla commissione dei reati di corruzione che qui occupano, può ritenersi del tutto mancante in SIEMENS AG un modello di organizzazione e di controllo idoneo a prevenire reati.
Gli elementi preesistenti possono individuarsi nella esistenza di conti “riservati” di SIEMENS AG, nell’uso di un intermediario estero per rendere più difficoltosa la individuazione della provenienza dei pagamenti (uso che, come emerge dal complesso delle dichiarazioni già riportate nella ordinanza impugnata ma anche di quelle assunte in Germania, avvenne su suggerimento e richiesta dei dirigenti SIEMENS AG), nella periodicità dei pagamenti delle somme versate a titolo di corruzione, pagamenti che erano scadenzati in funzione del procedere della gara e della effettuazione della fornitura.
Il Collegio condivide quindi anche il giudizio del G.I.P. in ordine al fatto che proprio la preesistenza di questi conti “riservati” all’estero e l’utilizzo di ulteriori schermi come Al Nowais, mostra che la erogazione di tangenti era addirittura intesa da SIEMENS AG (o meglio da membri del board della società, o quantomeno della divisione power generation) come una delle possibili strategie imprenditoriali e ciò nonostante la adozione di un complesso di regole che appare un realtà nulla più di un generico codice etico della società.
Solo per completezza è da valutare il rilievo mosso dalla difesa (per la verità più nei motivi di impugnazione scritti, redatti nell’aprile 2004 che alla udienza davanti a questo Tribunale) circa la mancanza di ogni prova in ordine alla esistenza di fondi riservati esteri e alla riconducibilità a SIEMENS AG degli stessi; sebbene le richieste di assistenza giudiziaria avanzate dalla A.G. italiana sul punto non abbiano ancora avuto risposta documentale, la riconducibilità a SIEMENS AG dei fondi esteri da cui provenivano le somme transitate sul conto MEEISCO di Al Nowais e confluite sul conto Zaghy 12 aperto a Montecarlo da C. appare oggi del tutto provata alla luce delle dichiarazioni assunte in Germania.
In particolare, H.V. nel corso delle dichiarazioni rese a Darmstadt il 23.6.2004 e il 24.6.2004 ha confermato la esistenza di questi fondi di proprietà di SIEMENS AG e la conoscenza di essi da parte di B., ma anche delle persone a lui sovraordinate, ossia K. e A.K., e lo stesso A.K. nel corso delle dichiarazioni rese a Francoforte sul Meno il 21.6.2004 e poi a Darmstadt il 9.7.2004, ha parlato della esistenza di questi fondi neri riferibili alla SIEMENS AG.

Quanto alla valutazione degli elementi successivi alla commissione dei reati di corruzione, non può non essere valutata anche la mancanza di collaborazione di SIEMENS AG sotto il profilo della inadempienza degli obblighi successivi alla scoperta del reato ex art. 7 n. 3 del D. Lgs. n. 231 del 2001, obblighi che per lo stesso letterale tenore della norma tutta la dottrina intende pacificamente come obblighi di collaborazione.
Detta mancanza di collaborazione è stata appunto valutata dal G.I.P. nell’ambito della previsione di cui all’art. 7 n. 3 del D. Lgs. n. 231 del 2001 e di quella di cui all’art. 17 lettera b del decreto, nonchè per fondare il giudizio sulla pericolosità dell’ente. La doglianza difensiva di cui al punto 2 dei motivi scritti di impugnazione (quando lamenta la nullità della ordinanza per violazione del divieto di applicazione di misure cautelari per acquisire dichiarazioni degli indagati) appare quindi non accoglibile e frutto di una errata lettura della motivazione del G.I.P.
Il Tribunale rileva infine come ancora oggi possa dirsi insussistente la adozione di un efficace sistema di controllo da parte di SIEMENS AG, dato che anche il “pre-pensionamento” dei dirigenti coinvolti in questi illeciti appare frutto del procedimento intanto instauratosi anche in Germania, più che frutto della adozione di un efficace programma da parte dell’ente sotto il profilo della previsione di meccanismi disciplinari e di controllo dei propri agenti e di sanzione dei loro comportamenti.

Il Collegio ritiene dunque sussistente il presupposto imprescindibile per fondare, ai fini cautelari, la responsabilità della società in relazione ai reati commessi da soggetti dipendenti secondo quanto stabilito dall’art. 7 D. Lgs. n. 231 del 2001, ossia la mancata adozione del compliance program, con conseguente inaccoglibilità delle tesi esposte sul punto dalla difesa SIEMENS AG nei motivi scritti di impugnazione

Quanto al punto 3 dei motivi di impugnazione, ossia il difetto di giurisdizione della autorità giudiziaria italiana, la difesa lamenta la insussistenza del potere giurisdizionale del giudice italiano, che si riflette nell’assenza di potere in funzione cautelare: se la responsabilità amministrativa di SIEMENS AG viene contestata in riferimento alla mancata adozione di un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi ne risulterebbe, a parere della difesa, come “conseguenza inevitabile” che questo illecito si è radicato fuori dal territorio dello Stato italiano e come tale si sottrae alla giurisdizione del giudice italiano.
Appare singolare la osservazione fatta dalla difesa a pag. 16 dei motivi di impugnazione, quando afferma che anche laddove la società straniera si dotasse di modelli organizzativi analoghi o addirittura coincidenti con quelli previsti dall’ordinamento italiano, essi non potrebbero essere sottoposti al sindacato della autorità italiana, perchè formatisi in un contesto territoriale esterno, fuori dall’area di controllo consentita al giudice italiano dal D. Lgs. n. 231 del 2001.
Occorre infatti osservare che la mancata adozione del modello organizzativo definito compliance program non costituisce di per sè un illecito, essendo la adozione del programma una causa di esclusione della responsabilità per colpa della società in caso di reati commessi dai soggetti di cui nella posizione di cui all’ art. 5 I comma del decreto, e che il fatto “illecito” cui si rivolge la giurisdizione italiana si è invece verificato in Italia.
E’ perfino superfluo evidenziare, in ordine ai limiti spaziali della giurisdizione italiana, che chiunque, persona fisica o giuridica, operi in Italia ha l’obbligo di osservare la legge italiana (e la stessa difesa SIEMENS AG sostiene del resto che la società si è adeguata alle prescrizioni statunitensi quando si è reso necessario operare nel territorio USA).
Sul punto appare sufficiente rimandare all’esempio fatto dal G.I.P. nella ordinanza circa il fatto che il conducente di un’automobile straniera fabbricata in una paese in cui non sia in vigore l’obbligo delle cinture di sicurezza, dovrà munirsi di tale dispositivo per circolare in Italia altrimenti commettendo una infrazione al codice stradale italiano; d’altro canto appare illogica e non pertinente la critica mossa dalla difesa SIEMENS AG quando, sempre per restare ad esempi in campo automobilistico, evidenzia che in Italia non è in alcun modo sanzionata la circolazione delle autovetture inglesi, che sono costruite con la guida a destra, visto che in Italia dette autovetture hanno comunque l’obbligo di guidare tenendo la destra ed è invece sanzionata la guida sulla corsia di sinistra.
E’ pacifico che anche una società straniera ha l’obbligo di osservare la legge italiana quando opera in Italia, come nel caso di specie dato che il contratto venne stipulato in Italia e l’illecito amministrativo è contestato a SIEMENS AG in relazione al reato commesso a Milano, con la conseguenza della piena giurisdizione italiana sia in ordine alla valutazione dei presupposti applicativi della legge vigente in Italia, sia in ordine alla applicazione delle sanzioni o delle misure interdittive (il divieto di contrattazione riguarda infatti la pubblica amministrazione italiana e del resto questo punto era stato evidenziato dalla difesa solo nella memoria presentata al G.I.P. prima della camera di consiglio e non è stato ulteriormente sviluppato in sede di impugnazione della ordinanza).

Il Collegio ritiene sussistente anche l’altra condizione richiesta dall’art. 45 D.Lgs. n. 231 del 2001 per l’applicazione in via cautelare delle misure interdittive di cui all’art. 9 del decreto, ossia la esistenza di fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il pericolo di reiterazione di illeciti della stessa indole di quello per cui si procede.
La concretezza di detto pericolo è desumibile, secondo i criteri generali di individuazione di detto pericolo, già dalle modalità di commissione del reato, ossia dalla predisposizione da parte di SIEMENS AG di conti esteri riservati e dall’ utilizzo di accorgimenti e “schermi” come il conto MEEISCO di Al Nowais, per rendere più difficoltosa la individuazione degli illeciti pagamenti (è da ricordare che ciò avvenne dietro precisi suggerimenti e richieste dei dirigenti SIEMENS AG), dalla stessa periodicità dei pagamenti che erano scadenzati in funzione del procedere della gara e della effettuazione della fornitura. La concretezza, e la attualità, del pericolo di reiterazione di analoghi reati sono inoltre desumibili anche da taluni comportamenti successivi, come la violazione dell’obbligo di rendersi adempiente che è stato introdotto dalla normativa sulla responsabilità delle persone giuridiche: secondo l’art. 7 n. 3 del decreto la società è tenuta a “scoprire ed eliminare tempestivamente le situazioni di rischio”, mentre non risulta compiuta alcuna seria attività di SIEMENS AG, nè quanto alla adozione di un efficace modello di organizzazione anche a livello disciplinare teso ad evitare il ripetersi di reati come quelli per cui si procede, nè quanto a qualche intervento sui conti “riservati” di cui si è detto: nei confronti di questi conti infatti non vi è certo stata da parte di SIEMENS AG alcuna condotta collaborativa o comunque tale da potere essere valutata come sintomatica della volontà della società di occuparsi di una situazione che può definirsi “red flag” come potrebbe essere stato nel caso la società avesse dimostrato la chiusura dei conti esteri contenenti fondi “riservati” (la chiusura o meglio la estinzione di detti conti, la cui riconducibilità alla società era stata in un primo momento negata dalla difesa SIEMENS AG, è stata menzionata, e solo menzionata, dalla difesa nel corso della udienza davanti a questo Tribunale, senza che venisse però offerta alcuna dimostrazione di detto assunto difensivo pur ritenuto essenziale nell’ambito della valutazione della attualità del pericolo di reiterazione del reato di cui tratta l’art. 45 del D. Lgs. n. 231 del 2001).

Occorre infine trattare delle ulteriori condizioni che sono state ritenute necessarie da taluni commentatori del D.Lgs. n. 231 del 2001 per la applicazione delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9, ossia, oltre ai presupposti tipici delle misure cautelari (gravi indizi e pericolo di reiterazione), anche le condizioni previste dall’art. 13 del D. Lgs. n. 231 del 2001 per la comminazione delle sanzioni interdittive, sia pur nei limiti propri della cognizione sommaria: poichè viene attribuito alle misure cautelari una funzione “anticipatoria” delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9 inflitte quali pene accessorie a seguito di sentenza di condanna, si ritiene appunto che per la applicazione delle misure cautelari occorra verificare non solo la sussistenza dei presupposti tipici delle misure cautelari (ossia gli indizi e il pericolo di reiterazione), ma anche la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 13 del decreto per la comminazione delle pene accessorie interdittive.
E’ evidente che le condizioni richieste dall’art. 13 per la comminazione delle sanzioni accessorie (è sufficiente che ricorra anche solo una delle due condizioni previste dalla norma) debbono essere valutate nell’ambito dei limiti che sono propri alla cognizione sommaria in sede cautelare, e rilevano quali parametri di valutazione delle caratteristiche che solitamente connotano le esigenze cautelari, tra cui ad esempio la gravità del fatto.
Appaiono quindi privi di pregio tutti i rilievi difensivi in ordine alla “confusione” che il G.I.P. avrebbe fatto tra il pericolo di reiterazione del reato richiesto dall’art. 45 D.Lgs. n. 231 del 2001, che è assimilabile alla esigenza cautelare di cui all’art. 274 lettera c C.P.P., e la reiterazione degli illeciti di cui alla lettera b dell’art. 13 D. Lgs. n. 231 del 2001, che è invece assimilabile alla recidiva.
Quando il G.I.P. argomenta sulla sussistenza della condizione richiesta dall’art. 13 lett. b D. Lgs. n. 231 del 2001 parla della “reiterazione degli illeciti” appunto a livello della cognizione sommaria propria della sede cautelare e giustamente adotta quei criteri di valutazione che sono sostanzialmente coincidenti con i criteri di valutazione della sussistenza del pericolo di reiterazione del reato di cui all’art. 45 del D. Lgs. n. 231 del 2001, criteri che questo Tribunale condivide e che debbono intendersi qui integralmente riportati.

Quanto alla sussistenza del profitto di rilevante entità tratto dalla società di cui alla lettera A dell’art. 13 del decreto (entità del profitto che già si potrebbe desumere dalla entità delle ingenti somme elargite a fini corruttivi) non sembra al Collegio nè errata nè mancante (come si sostiene ai punti 7 e 8 dei motivi di impugnazione) la motivazione contenuta nella ordinanza impugnata, dove si prendono in considerazione il valore complessivo della fornitura delle 5 turbine a gas (ossia dell’unico contratto per cui è stata emessa la misura interdittiva) pari a euro 204.875.000,00, la stipulazione dei futuri contratti di service (che prevedendo esborsi assai onerosi per il mantenimento degli impianti forniti garantivano a SIEMENS AG futuri notevoli guadagni), nonchè l’estremo interesse di SIEMENS AG ad entrare in rapporto con Enel e il mercato italiano ed i timori di SIEMENS AG circa i rischi connessi ad un “testa a testa” finale tra SIEMENS AG e General Electrics, a dimostrazione dell’altissimo valore del ”monopolio” che veniva raggiunto tramite gli accordi corruttivi (sul punto il Tribunale rimanda alla lettura delle dichiarazioni rese da C. il 22.7.2003 e il 1.8.2003 e da G. il 30.7.2003, ma anche al tenore delle dichiarazioni rese dagli indagati tedeschi nel corso delle audizioni avvenute in Germania di cui si è già parlato).

Il Collegio ritiene del tutto condivisibili anche le argomentazioni (da intendersi qui integralmente riportate) con cui nella ordinanza impugnata si esclude la sussistenza delle condotte riparatorie di cui all’art. 17 D.Lgs. n. 231 del 2001, in concorrenza delle quali (beninteso di tutte) il legislatore ha escluso l’applicazione della misura interdittiva; anche a volere prescindere infatti dalla valutazione della idoneità della somma di 180 milioni di euro versata a Enel a costituire un integrale risarcimento del danno (giustamente il G.I.P. evidenzia che restano esclusi il problema del danno cagionato al mercato e agli altri aspiranti fornitori di turbogas come la GE), e dalla questione della messa a disposizione del profitto ricavato dall’illecito, (questioni trattati dalla difesa ai punti 7 ed 8 dei motivi di impugnazione) sarebbe comunque decisivo, e sufficiente, per escludere la applicazione del I comma dell’art. 17 del decreto, il fatto che anche dopo i fatti per cui si procede SIEMENS AG non abbia adottato quel modello organizzativo di cui all’art. 17 punto b del D.Lgs. n. 231 del 2001, nè si sia efficacemente adoperata per eliminare quelle carenze organizzative di cui si è detto, limitandosi sostanzialmente ad un pre-pensionamento di alcuni dei suoi dirigenti, principalmente in ragione del procedimento intanto instauratosi in Germania.

Occorre infine trattare della doglianza di cui al punto 1c dei motivi di impugnazione presentati dalla difesa SIEMENS AG, quando lamenta che nella ordinanza impugnata non sia stato affrontato il tema della sospensione ex art. 49 del D. Lgs. n. 231 del 2001 a seguito di richiesta di termine per effettuare le condotte riparatorie di cui all’art. 17 del decreto; sostiene la difesa che una pronuncia su detta richiesta non può neppure ritenersi implicita, dato che le argomentazioni sulla inadeguatezza del risarcimento, sulla necessità di versare il profitto, e sulla insufficiente prevenzione del rischio sarebbero da intendersi limitate alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 45 del D. Lgs. n. 231 del 2001.
(E’ da osservare per completezza che la difesa critica le suddette argomentazioni anche sotto il profilo della erronea applicazione delle norme attinenti i rapporti tra profitto e danno di cui agli artt. 13 I comma lett. a, 19 I comma e 49 I comma D. Lgs. n. 231 del 2001, profilo questo del rapporto tra profitto e danno che il G.I.P. ha sviluppato comunque in via del tutto residuale - e giustamente, visto quanto si è detto appena sopra in ordine alle condotte riparatorie - essendosi già diffuso a sufficienza sulla inesistenza della condizione di cui alla lettera b dell’art. 17, ossia la eliminazione delle carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante la adozione e l’attuazione di un adeguato compliance program).

La questione di cui al punto 1c dei motivi di impugnazione è posta dunque dalla difesa quale doglianza circa la mancanza di una pronuncia sulla fissazione del termine ex artt. 17 e 49 del D. Lgs. n. 231 del 2001 ed è questione collegata alla richiesta subordinata, avanzata nel corso della udienza davanti a questo Tribunale, di disporre la sospensione della misura interdittiva in relazione alla richiesta già avanzata al G.I.P. per completare le condotte richieste dall’art. 17 D. Lgs. n. 231 del 2001.

Il meccanismo previsto nella fase cautelare dall’art. 49 del D. Lgs. n. 231 del 2001 prevede la sospensione della misura interdittiva qualora l’ente chieda di potere realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona la esclusione delle sanzioni interdittive nella sentenza di condanna.
In sostanza l’ente chiede al giudice la sospensione della misura già disposta per realizzare le condotte indicate dall’art. 17, (al cui corretto adempimento seguirà poi la inapplicabilità delle sanzioni interdittive nella sentenza di condanna); il giudice, sentito il P.M., ove ritenga la richiesta meritevole di accoglimento (può quindi escludersi che possano trovare spazio di accoglimento richieste che “ab initio” appaiono assumere finalità meramente dilatorie, nel senso che non contengano garanzie e riscontri precisi alla volontà di adempiere), fissa a carico dell’ente una somma di denaro a titolo di cauzione disponendo la sospensione della misura con fissazione di un termine per la realizzazione delle condotte riparatorie: in caso di inefficace attuazione delle condotte suddette o di mancante adempimento entro il termine (che ha possibilità di essere prorogato) la misura sospesa riprenderà vigore e la cauzione sarà devoluta alla Cassa delle Ammende; in caso di esatto adempimento il giudice revocherà invece la misura cautelare ed ordinerà la restituzione all’ente della somma depositata a titolo di cauzione.
A fronte di un meccanismo così congegnato appare ovvio che la “sospensione” della misura interdittiva presuppone che esista già anche la statuizione in ordine alla sua applicazione, non fosse altro che perchè la misura interdittiva è destinata a riprendere vigenza in caso di inadempimento da parte dell’ente: non a caso il P.M. di udienza ha chiesto che la doglianza venisse respinta sul presupposto che il giudice non poteva motivare in ordine alla richiesta di sospendere la applicazione di qualcosa che ancora non era stato applicato.

La difesa SIEMENS AG sembra invece intendere il meccanismo di cui all’art. 49 del decreto come sospensivo della delibazione in ordine alla applicazione della misura interdittiva, visti i tempi di presentazione della sue richieste e, soprattutto, il tenore di dette richieste (che appaiono peraltro del tutto prive di quei requisiti di specificità necessari per escludere finalità meramente dilatorie); SIEMENS AG ha infatti presentato prima una generica richiesta “di potere adempiere alle condotte riparatorie previste dall’art. 17 del D. Lgs. n. 231 del 2001” (così nella istanza depositata il 9.9.2003, ossia addirittura due mesi prima del deposito della richiesta avanzata dal P.M. di emissione della ordinanza applicativa della misura cautelare, che è stata depositata il 23 ottobre 2003) e poi una richiesta di “fissare per l’adempimento delle condotte riparatorie ex art. 17 D. Lgs. n. 231 del 2001 il termine del 28 febbraio 2004, disponendo che SIEMENS AG presti una cauzione di euro 200.000,00 nella forma della fideiussione bancaria” (così nella istanza depositata il 1.10.2003, quindi sempre in un momento precedente la presentazione della richiesta del P.M. di emissione della ordinanza applicativa della misura cautelare); infine nelle conclusioni della memoria difensiva del 28 novembre 2003, presentata in vista della udienza camerale prevista dall’art. 47 del decreto, la difesa ha chiesto - in ulteriore subordine rispetto alle altre richieste di rigetto per difetto di giurisdizione, per inammissibilità di parte della richiesta del P.M. e per mancanza dei presupposti legittimanti la adozione della misura interdittiva - di “dichiarare non luogo ad emettere la misura ex artt. 17 e 49 D. Lgs. n. 231 del 2001 fissando il termine per il perfezionamento delle trattative per il risarcimento del danno”. E’ da notare che nel corso della udienza ex art. 47 D. Lgs. n. 231 del 2001 le trattative per il risarcimento del danno di cui parlava la difesa SIEMENS AG si sono poi perfezionate, dato che è stata versata ad Enel e alle sue controllate la somma di 180 milioni di euro.
La singolarità di una richiesta al giudice di dichiarare, a fronte di una richiesta di emissione di provvedimento cautelare avanzata dal P.M., un “non luogo ad emettere la misura” può spiegarsi solo con la adesione della stessa difesa alla ricostruzione del meccanismo previsto dall’art. 47 che si è sopra riportata, meccanismo quello della sospensione che, come si è detto, presuppone la applicazione della misura interdittiva che eventualmente potrà essere sospesa e che successivamente è destinata a riprendere vigenza in caso di inefficace o mancante adempimento entro il termine fissato.
E’ del resto singolare anche il fatto che la difesa SIEMENS AG non abbia poi ritualmente proposto al G.I.P. la istanza di sospensione ex art. 47 del decreto dopo la emissione della ordinanza che ha applicato la misura interdittiva, così determinando la emissione di un provvedimento di accoglimento o di rigetto della richiesta di sospensione (o almeno non risulta a questo Collegio la presentazione di altra istanza di sospensione ex art. 49 del D.Lgs. n. 231 del 2001), e si sia invece limitata a trattare la questione sotto il profilo di cui al punto 1c dei motivi del ricorso in Cassazione e ad avanzare poi a questo Tribunale la richiesta di sospensione pur in assenza di un provvedimento sul punto del primo giudice e, comunque, limitandosi a rinviare a quelle generiche richieste già presentate senza aggiungere alcun elemento costitutivo di garanzie e riscontri precisi alla volontà di adempiere, ma anzi ritenendo già del tutto realizzate le condotte di cui all’art. 17 del D. Lgs. n. 231 del 2001.

E’ da osservare, in via astratta ed ipotetica, che i due provvedimenti avrebbero potuto anche essere emessi contestualmente, nel caso fosse stata avanzata nel corso della udienza ex art. 47 del decreto una precisa richiesta assistita da requisiti di specificità e concretezza (caso che non si è però verificato nel caso di specie); in ipotesi infatti il G.I.P. - una volta ritenuti sussistenti tutti i presupposti per la applicazione della misura interdittiva richiesta dal D. Lgs. n. 231 del 2001 (poichè in caso contrario si sarebbe ovviamente limitato a respingere la richiesta del P.M.) – e laddove beninteso avesse ritenuto rituale e meritevole di accoglimento la richiesta di sospensione avanzata dall’ente, non avrebbe dovuto dichiarare un “non luogo ad emettere la misura”, come preteso dalla difesa SIEMENS AG, bensì, nel caso, avrebbe dovuto emettere due diversi provvedimenti, anche se eventualmente contenuti nel medesimo documento, ossia una ordinanza applicativa della misura interdittiva in accoglimento della domanda cautelare del P.M. ed un provvedimento di sospensione di detta misura ai sensi dell’art. 47 del D. Lgs. n. 231 del 2001 (con eventuale ritorno in vigore della misura interdittiva nella ipotesi dell’ inefficace o mancante adempimento entro il termine fissato).
Seguendo dunque questa ipotesi (prospettata appunto in linea teorica da alcuni dei commentatori del D.Lgs. n. 231 del 2001 e che non risulta però essersi mai verificata in concreto) acquisterebbe indubbiamente significato la doglianza difensiva circa la omessa motivazione da parte del giudice in ordine alla richiesta di sospendere la applicazione della misura interdittiva ai sensi dell’art. 47 del decreto, con la conseguenza del verificarsi del potere di integrazione da parte di questo Tribunale.
E’ però da osservare che in ogni caso le richieste di sospensione avanzate da SIEMENS AG, ed in particolare quella avanzata nel corso della udienza camerale ex art. 47 del decreto, appaiono del tutto generiche e prive di quei requisiti di specificità che tutti i commentatori del decreto ritengono necessari per l’instaurarsi del meccanismo di cui all’art. 49 del decreto: è infatti evidente che le richieste di sospensione debbono essere formulate in modo tale da consentire di escludere un fine meramente dilatorio della loro presentazione e debbono quindi essere articolate e contenere garanzie e riscontri precisi alla volontà di adempiere da parte dell’ente.
Nel caso di specie la difesa si è limitata prima a chiedere un termine per perfezionare le trattative per il risarcimento del danno (nella memoria presentata in vista della udienza camerale) e poi ad evidenziare l’avvenuto risarcimento del danno in favore di Enel e delle sue associate, senza però precisare in alcun modo quali erano le condotte che intendeva adottare per realizzare tutti gli adempimenti di cui all’art. 17 del decreto, ad esempio quanto alla eliminazione delle carenze organizzative di cui parla la lettera b) della norma e di cui si è già detto ampiamente sia sotto il profilo della mancata adozione di un efficace compliance program e soprattutto della adozione di meccanismi di controllo e di sanzione, sia sotto il profilo delle iniziative adottate in ordine ai conti riservati (sul punto si è detto che anche in udienza davanti a questo Tribunale la difesa SIEMENS AG ha solo parlato della chiusura o estinzione di quei conti, senza però offrire alcun riscontro a queste affermazioni).

Se dunque deve essere respinto il motivo di doglianza circa il fatto che il G.I.P. abbia omesso di motivare in ordine alla richiesta di sospensione e comunque di adottare un provvedimento di sospensione, occorre adesso trattare della richiesta subordinata avanzata dalla difesa SIEMENS AG alla camera di consiglio davanti a questo Tribunale di disporre la sospensione della misura interdittiva in relazione alla richiesta già avanzata al G.I.P. per “completare” le integrazioni richieste dall’art. 17 D. Lgs. n. 231 del 2001.
Anche a volere prescindere da quanto appena detto circa la mancanza di specificità ed articolazione della richiesta di sospensione ex art. 49 D.Lgs. n. 231 del 2001 e circa la mancata indicazione delle condotte che SIEMENS AG intendeva adottare per realizzare gli adempimenti di cui all’art. 17 del decreto, (garanzie e riscontri alla volontà di adempiere da parte dell’ente che sono pacificamente necessari per consentire di escludere un intento meramente dilatorio e quindi per attivare il meccanismo di sospensione), la richiesta subordinata deve essere qualificata come inammissibile proprio in ragione del fatto che manca sul punto un provvedimento del G.I.P. da valutare.
La concessione della sospensione non è questione che riguardi i presupposti di legittimità o comunque i vizi genetici dell’ordinanza che applica la misura interdittiva ed appare quindi estranea al devolutum, essendo il Tribunale chiamato ad esprimere, seppur nell’ambito di un giudizio interamente devolutivo nell’ambito dei motivi proposti, un sindacato di secondo grado rispetto ad un provvedimento emesso dal giudice di prime cure, il che appunto presuppone che vi sia stata una valutazione/decisione sulla singola questione proposta; è infatti evidente che può essere sottoposto al giudizio di questo Tribunale solo un provvedimento che sia stato emesso e non un provvedimento che eventualmente, a determinate condizioni che si è già detto non si erano verificate, il G.I.P. avrebbe potuto emettere sospendendo quello che oggi questo Tribunale è chiamato a valutare (e d’altro canto valutare in questa sede una questione sulla quale non è intervenuta alcuna pronuncia del G.I.P. significherebbe privare la difesa, in ipotesi, di un grado di giudizio).


In conclusione il Tribunale ritiene che la ordinanza impugnata debba essere confermata, sussistendo tutte le condizioni di applicabilità della misura interdittiva prevista da D.Lgs. n. 231 del 2001, ed apparendo evidente che, per la situazione di monopolio assunta da SIEMENS AG nel mercato italiano proprio in conseguenza dei reati commessi, l’unica misura idonea a prevenire la commissione di ulteriori illeciti fosse appunto quella del divieto di contrattazione con la P.A. italiana, che è stata applicata per il periodo di un anno alla divisione della attività della SIEMENS AG che riguarda la fornitura di turbine a gas (limitazione a determinati settori della attività di SIEMENS AG che appare particolarmente favorevole alla azienda).

Quanto al termine di un anno fissato alla durata della misura interdittiva esso appare comunque congruo rispetto alla gravità dei fatti, alla intensità delle esigenze cautelari ed adeguato alle finalità sottese alla misura.
Non sembra il caso di diffondersi sulla richiesta avanzata in udienza dalla difesa di ridurre detto termine di 5 mesi, periodo di tempo pari a quello trascorso dal momento in cui era apparsa sulla stampa la notizia della presentazione della richiesta del P.M. fino al momento della emissione della ordinanza da parte del G.I.P.: la richiesta deve forse essere intesa in senso solo “provocatorio” nei confronti degli inquirenti, non essendo in atti alcun elemento utile a provare nè la pubblicazione della notizia sugli organi di stampa, nè, tantomeno, il raggiungimento dei fini tipici della misura interdittiva già solo tramite la pubblicazione di detta notizia.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (Cass. SS. UU. 5.7.1995; Cass. SS.UU. 14.1.1997).


P.Q.M.


Respinge il ricorso come sopra avanzato.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Milano il 28 ottobre 2004

Il presidente estensore
Maria Cristina Mannocci