Cassazione Penale, Sez. 4, 04 aprile 2013, n. 15717 - Responsabilità del presidente di una cooperativa per infortunio del socio lavoratore con un muletto
Responsabilità del presidente e legale rappresentante di una cooperativa di notevoli dimensioni per infortunio occorso al socio lavoratore C.A.T.N. investito da un muletto.
Condannato in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione - Rigetto.
La Corte afferma come sia evidente la posizione di garanzia dell'imputato che non ha fornito la prova del conferimento di alcun atto di delega, e, pertanto si evidenzia un chiaro profilo di colpa per omissione nella condotta dell'imputato, in quanto, al di là delle disposizioni impartite, e non fatte osservare dai suoi preposti, di non far sostare i lavoratori nell'area ove operava il carrello elevatore, le cause dell'infortunio vanno addebitate anche alla insufficienza dell'illuminazione della rampa ove è avvenuto l'infortunio, al non essere stato inibito il deposito temporaneo di merci, imballaggi, pallets ecc., ed al fatto che il muletto che ha investito la p.o. è risultato in precarie condizioni di manutenzione e privo di impianto di illuminazione correttamente e completamente funzionante, di avvisatore acustico di manovra e di dispositivi lampeggianti.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente -
Dott. D'ISA Claudio - rel. Consigliere -
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere -
Dott. CIAMPI Francesco Maria - Consigliere -
Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
B.G. n. il (Omissis); avverso la sentenza n. 1166/11 della Corte d'Appello di Firenze del 8.04.2011;
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
Udita in PUBBLICA UDIENZA del 15 gennaio 2013 la relazione fatta dal Consigliere dott. CLAUDIO D'ISA;
Udito il Procuratore Generale nella persona del dott. Francesco Mario Iacoviello che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
B.G. ricorre in Cassazione avverso la sentenza, in epigrafe indicata, della Corte d'Appello di Firenze di conferma della sentenza di condanna, emessa nei suoi confronti il 3.12.2009 dal Tribunale dello stesso capoluogo, in ordine al delitto di cui all'art. 590 cod. pen. aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche sul lavoro.
Con il primo motivo del ricorso il B. denuncia violazione di legge in relazione all'art. 552 c.p.p., comma 2 e nullità del decreto di citazione a giudizio di primo grado.
Nel precisare che la questione già era stata sottoposta al vaglio del giudice del gravame, ed in precedenza sollevata innanzi al giudice di primo grado all'udienza del 26.10.2008, si criticano le ragioni esposte sul punto dalla Corte d'appello. Si eccepisce la nullità del decreto di citazione a giudizio per la incertezza della formulazione del capo d'imputazione facendo esso riferimento, quanto alla colpa specifica, a violazioni di disposizioni espressamente abrogate dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 304 trattandosi di norme avente natura incriminatrice propria, l'errata contestazione si è risolta in una nullità del capo di imputazione per omessa enunciazione "in forma chiara e specifica" del fatto con l'indicazione dei relativi articoli di legge. Si contesta la tesi della Corte secondo cui le norme di cui all'originaria imputazione si porrebbero in continuità normativa con l'impianto di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008. La questione, secondo il ricorrente, non è se, a seguito della riforma, certe condotte siano o meno ancora previste come reato, ma la puntuale individuazione, sulla base delle leggi vigenti, delle norme che specificano i comportamenti dovuti e ne sanzionano l'omissione:individuazione che, ove mancante o insufficiente, rende incompleto e viziato il decreto di citazione a giudizio e pregiudica l'efficace esplicarsi del diritto di difesa.
Tali rilievi per il ricorrente valgono in modo ancor più pregnante nel caso di specie: la riforma introdotta con il D.Lgs. n. 81 del 2008 ha inciso profondamente su norme che contribuiscono ad integrare e modificare la fattispecie penale ai fini dell'applicazione dell'art. 2 cod. pen.; oltre a ciò, molte delle norme in contestazione avevano natura penale loro propria, dettando non solo la regola modali cui attenersi nello svolgimento dell'attività, ma ancor prima individuando i soggetti titolare delle posizioni di garanzia.
Con il secondo motivo si denuncia altra violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alle dichiarazioni del teste R.. In sostanza si contesta l'individuazione in capo al B. della posizione di garanzia solo in quanto presidente e legale rappresentante della CFT Scarl al momento dell'infortunio occorso al socio lavoratore C.A.T.N., a nulla valendo il rilievo secondo cui la società fosse una cooperativa di notevoli dimensioni e che vi fosse una struttura articolata in punto di ripartizione delle competenze: nel solo magazzino ove si è verificato l'infortunio sono stati individuati, oltre al responsabile dell'unità produttiva, un responsabile operativo, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, un'addetta al medesimo servizio e due preposti. Dunque l'attribuzione di responsabilità al B. si fonda sul duplice assunto per cui il legale rappresentante di una società si identifichi necessariamente nel datore di lavoro e, in assenza di deleghe scritte, permangono in capo a questi tutti gli obblighi in materia di sicurezza. Al contrario, ai fini prevenzionistici occorre aver riguardo al disposto del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2 che definisce il datore di lavoro o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali di spesa. In fatto si adduce, che è pacifico che l'infortunio si sia verificato in un'unità produttiva secondaria della CFT, autonoma e differente da quella in cui hanno sede gli uffici amministrativi ed a capo della quale era designato il consigliere C.E., responsabile della struttura e dotato di piena autonomia gestionale. L'asserzione della Corte per cui "non è dato sapere quali fossero specificamente gli incarichi riservati al C." è palesemente smentita, per il ricorrente, dalla testimonianza del teste R.. Nè varrebbe dar risalto, per negare al C. la qualifica di datore di lavoro ai fini che interessano, alla circostanza per cui "il Consiglio di Amministrazione prendeva da ultimo ogni decisione", giacchè la discussione in seno al Consiglio di profili organizzativi dell'attività lavorativa non è di per sè tale da escludere la piena autonomia decisionale del responsabile dell'unità. Sotto altro profilo la motivazione appare contraddittoria poichè nessuno dei profili colposi ascritti al B. implica poteri di spesa piuttosto che di mera organizzazione logistica.
Con il terzo motivo si denuncia ancora violazione di legge e vizio di motivazione. Si espone che i profili di responsabilità addebitati al ricorrente attengano non alla predisposizione di cautele antinfortunistiche, bensì al controllo sull'osservanza del sistema prevenzionistico. Le cause del sinistro devono essere rinvenute, ad avviso della Corte, nel mancato controllo della rampa di accesso al magazzino, che al momento del sinistro era ingombra di materiali e sulla quale si trovavano i lavoratori a piedi. Data per pacifica l'esistenza di procedure di sicurezza - si pensi alla circostanza per cui il preposto aveva intimato a tutti i lavoratori presenti al momento di allontanarsi dalle rampe di accesso - deve rilevarsi come tali profili di controllo siano legislativamente attribuiti appunto ai preposti, la cui presenza al momento del fatto è certa, e la cui esperienza ed adeguatezza non è mai stata messa in dubbio.
Diritto
I motivi esposti, di cui alcuni non consentiti in sede di legittimità, sono comunque infondati sicchè il ricorso va rigettato.
Quanto all'eccezione in rito formulata con il primo motivo il Collegio ritiene la decisione sul punto della Corte d'Appello pienamente condivisibile in quanto conforme sia al dettato della normativa di riferimento che alla giurisprudenza di questa Corte.
Invero è principio giurisprudenziale consolidato (V. da ultimo Sez. 6, Sentenza n. 45289 del 08/11/2011 Ud. Rv. 250991) che non costituisce nullità del decreto che dispone il giudizio la mancata indicazione degli articoli di legge violati, allorchè il fatto addebitato sia puntualmente e dettagliatamente esposto, in modo tale che non possa insorgere alcun equivoco sul pieno esercizio del diritto di difesa.
Orbene, i fatti in contestazione sono stati certamente individuati e descritti esaustivamente ancorchè con riferimento alle violazioni di legge, integranti colpa specifica (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 374, del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 4 bis, lett. b) modificato dal D.Lgs. n. 242 del 1996, D.P.R. N. 547 del 1955, art. 8), ma, essendo del tutto pacifico che le condotte previste rispettivamente dalle richiamate norme antinfortunistiche sono state trasfuse in un nuovo testo normativo, ovverosia il D.Lgs. n. 81 del 2008, raccolte e rimodulate in attuazione della Legge Delega n. 123 del 2007, art. 1 è evidente la continuità normativa tra esse ed il nuovo corpo sistematico, ancorchè formalmente abrogate. Pertanto, in applicazione del principio su indicato, la sola corretta contestazione del fatto rende ininfluente l'indicazione, nel decreto di citazione a giudizio, degli articoli di legge, formalmente abrogati, ma riferentisi a condotte tuttora sanzionate penalmente.
Passando alla trattazione della censura posta a base del secondo motivo, l'aspetto centrale, che interessa la tematica della trattazione del ricorso, e ben posto in evidenza nella sentenza della Corte Territoriale, è verificare la corretta individuazione in capo al ricorrente della contestata posizione di garanzia, giacché anche a ritenere (v. terzo motivo) la esatta predisposizione da parte sua di cautele antinfortunistiche, ciò non vale a spezzare il nesso causale, dal momento che altre omissioni sono state addebitate all'imputato, ciascuna delle quali, anche isolatamente considerata, vale a collegare eziologicamente al fatto colposo dell'imputato l'evento di danno, rendendolo a lui soggettivamente riferibile e imputabile alla stregua del principio della personalizzazione della responsabilità penale. Si obietta nei motivi del ricorso che, essendo quella di cui l'imputato è legale rappresentante, una società cooperativa di vaste dimensioni dotata di una struttura organizzativa capillare articolata in distinti settori ciascuno dei quali suddivisi in reparti con a capo un preposto avente funzioni direttive, non sarebbe spettato all'imputato, in base alla ripartizione delle competenze interne, il compito di esigere che i lavoratori non sostassero sulla rampa di accesso ove operava il carrello elevatore bensì al responsabile dello specifico reparto presso cui la persona offesa era addetta. Così però non è; nella materia infortunistica, perchè possa prodursi l'effetto del trasferimento dell'obbligo di prevenzione dal titolare della posizione di garanzia ad altri soggetti inseriti nell'apparato organizzativo dell'impresa (siano essi responsabili di settore o capireparto) è necessaria una delega di funzioni da parte dell'imprenditore o del datore di lavoro che deve trovare consacrazione in un formale atto di investitura in modo che risulti certo l'affidamento dell'incarico a persona ben individuata, che lo abbia volontariamente accettato nella consapevolezza dell'obbligo di cui viene a gravarsi; quello cioè di osservare e fare rispettare la normativa di sicurezza. Se, dunque, è possibile che l'imprenditore possa delegare ad altri gli obblighi attinenti alla tutela delle condizioni di sicurezza del lavoro su di lui incombenti per legge, in quanto principale destinatario della normativa antinfortunistica, qualora sia impossibilitato ad esercitare di persona i poteri-doveri connessi alla sua qualità per la complessità ed ampiezza dell'impresa per la pluralità di settori produttivi di cui si compone o per altre ragioni, tuttavia il cennato obbligo di garanzia può ritenersi validamente trasferito purchè vi sia stata una specifica delega, e ciò per l'ovvia esigenza di evitare indebite esenzioni, da un lato, e, d'altro, compiacenti sostituzioni di responsabilità. Sul presupposto che l'individuazione dei destinatari dell'obbligo di prevenzione deve avvenire in relazione all'organizzazione dell'impresa e alla ripartizione delle incombenze, siccome attuata in concreto tra i vari soggetti chiamati a collaborare con l'imprenditore e ad assicurare in sua vece l'onere di tutela delle condizioni di lavoro, non può quest'ultimo essere esentato da colpa per qualsiasi evenienza infortunistica conseguente all'inosservanza dell'obbligo di garanzia suo proprio, quando non vi sia stato un trasferimento di competenza in materia antinfortunistica attraverso un atto di delega e ciò in attuazione del principio della divisione dei compiti e delle connesse diversificate responsabilità personali.
L'adesione alla tesi di una possibilità di una delega ampliata di funzioni, costituisce palese violazione della ratio dell'intero D.P.R. n. 547 del 1955, il quale, con l'espressione "competenze" ha inteso riferirsi alle posizioni occupate dai vari soggetti nell'ambito dell'impresa in base all'effettuata e completa ripartizione di incarichi tra: i datori di lavoro (sui quali precipuamente grava l'onere dell'apprestamento e dell'attuazione di tutti i necessari accorgimenti antinfortunistici), dirigenti, cui spettano poteri di coordinamento e di organizzazione in uno specifico settore operativo o in tutte le branche dell'attività aziendale, e preposti, cui competono poteri di controllo e di vigilanza, in modo da consentire l'individuazione delle rispettive responsabilità, qualora dovessero insorgere. Donde la necessità di una delega certa e specifica da parte dell'imprenditore, che valga a sollevarlo dall'obbligo di prevenzione, altrimenti su di lui gravante.
Tali considerazioni valgono ad evidenziare la posizione di garanzia dell'imputato che non ha fornito la prova del conferimento di alcun atto di delega, e, pertanto (con riferimento al secondo motivo) si evidenzia un chiaro profilo di colpa per omissione nella condotta dell'imputato, in quanto, al di là delle disposizioni impartite, e non fatte osservare dai suoi preposti, di non far sostare i lavoratori nell'area ove operava il carrello elevatore, le cause dell'infortunio vanno addebitate anche alla insufficienza dell'illuminazione della rampa ove è avvenuto l'infortunio, al non essere stato inibito il deposito temporaneo di merci, imballaggi, pallets ecc., ed al fatto che il muletto che ha investito la p.o. è risultato in precarie condizioni di manutenzione e privo di impianto di illuminazione correttamente e completamente funzionante, di avvisatore acustico di manovra e di dispositivi lampeggianti. I suddetti aspetti di colpa sono di per sè fondatori della responsabilità dell'imputato, in quanto le descritte condotte omissive sono certamente addebitabili al datore di lavoro, come correttamente evidenziato in sentenza ed in sicuro rapporto di causalità con l'evento contestato.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 15 gennaio 2013. Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2013