Responsabilità del responsabile del servizio di prevenzione e protezione della Azienda USL in relazione al decesso di una dipendente della ditta che aveva in appalto i servizi di confezionamento e gestione dei carrelli per i pasti da servire all'interno del  Presidio  Ospedaliero  Misericordia  della  città - La mancanza di poteri decisionali e di spesa in capo al RSPP non vale ad escludere l'esistenza di un obbligo di segnalazione idoneo ad attivare i soggetti muniti delle necessarie possibilità di intervento - Sussiste.

 

 

 
 
 
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARINI Lionello - Presidente -
Dott. ZECCA Gaetano - Consigliere -
Dott. NOVARESE Francesco - Consigliere -
Dott. COLOMBO Gherardo - Consigliere -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
1) F.M., N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 06/06/2 005 CORTE APPELLO di FIRENZE;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. AMENDOLA ADELAIDE;
Udito il Procuratore generale Dott. Tindari Baglione, che ha chiesto l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza;
Uditi per le parti civili gli avvocati Runfolo Domenico e Giannini Bruna, che hanno chiesto la conferma della sentenza della Corte d'appello di Firenze;
Udito per l'imputato l'avvocato LENA Rodolfo, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.



FattoDiritto

1.1 Con sentenza del 1 luglio 2003 il Tribunale di Grosseto dichiarava F.M., responsabile del servizio di Prevenzione e Protezione della Azienda USL (OMISSIS) di Grosseto, colpevole del reato di cui all'art. 113 c.p., e art. 589 c.p., commi 1 e 2 in relazione al decesso, verificatosi il (OMISSIS), di S. N., dipendente della ditta B. R. & C., che aveva in appalto i servizi di confezionamento e di gestione dei carrelli contenenti i pasti da servire all'interno del Presidio Ospedaliero Misericordia della città, condannandolo per l'effetto a pena ritenuta di giustizia.
La S. si era introdotta, insieme al carrello portavivande, nell'ascensore e, nel corso della discesa, essendo il carrello finito contro una sporgenza muraria, era rimasta violentemente schiacciata contro la parete dalla massa di questo, così morendo per asfissia:
di tale fatto erano stati originariamente chiamati a rispondere anche il titolare della ditta appaltatrice, il Direttore Generale e il Responsabile di zona della USL, nonchè il Responsabile del presidio ospedaliero, ma solo quest'ultimo, tale T.M. e l'attuale ricorrente, F.M., erano stati condannati per il reato di omicidio colposo.

1.2 Proposto gravame da parte dell'imputato, la Corte d'appello di Firenze, con sentenza del 6 giugno 2005 aveva rideterminato la pena inflittagli, confermando nel resto l'impugnata sentenza.
In motivazione il giudicante, premesso che, secondo la costante giurisprudenza del Supremo Collegio, la condotta del lavoratore, in tanto può essere considerata anomala, e quindi idonea a interrompere il nesso causale, in quanto sia consistita in un comportamento totalmente estraneo all'attività lavorativa o, quanto meno, alle mansioni assegnatigli, osservava, con articolate argomentazioni, che doveva senz'altro escludersi tale connotazione nella condotta della vittima al momento del fatto, evidenziando sul punto come la lavoratrice si fosse introdotta nell'ascensore, insieme al carrello portavivande, dopo che, essendo salita al piano superiore per svolgervi un'incombenza affidatale, aveva notato il predetto arnese e aveva pensato di recuperarlo.
In tale contesto, secondo il decidente, poteva al più parlarsi di una "marginale inosservanza di disposizioni circa le modalità di svolgimento dell'attività" lavorativa, non mancando di rimarcare che la struttura teatro dell'infortunio, in quanto abilitata anche al trasporto delle persone, era un ascensore e non un montacarichi e che il cartello che poneva il divieto di trasportare "carrelli e carichi mobili la cui sagoma fuoriesca dal piano di cabina con ruote in adiacenza ai risalti del pavimento", conteneva una prescrizione, non solo a prima vista piuttosto ermetica, ma che finiva per rimettere impropriamente al lavoratore, piuttosto che al datore di lavoro, una valutazione non agevole, da compiere per giunta di volta in volta, nella permanenza di una situazione di potenziale pericolosità.
La Corte liquidava poi come paradossale l'assunto che il responsabile del servizio dì prevenzione e protezione non potesse essere chiamato a rispondere di delitti colposi contro la vita e l'incolumità, equivalendo tale affermazione alla negazione dell'esistenza di un obbligo giuridicamente rilevante di adempiere ai propri compiti.
Ricordato, in proposito l'enucleazione che di tali funzioni faceva il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 9 osservava che ben potevano condotte connotate in senso omissivo dar fondamento a responsabilità per reati colposi.
Quanto all'insussistenza, in capo al responsabile del servizio di poteri di decisione e di spesa, rilevava che essa non valeva ad escludere l'esistenza, in ogni caso, di un obbligo di segnalazione idoneo ad attivare i soggetti muniti delle necessarie possibilità di intervento, il che avrebbe, secondo ragionevole giudizio controfattuale, impedito l'evento, determinando l'attivazione del datore di lavoro.
Sosteneva poi che non era condivisibile l'assunto secondo cui la rilevazione dei fattori di rischio connessi all'uso dell'ascensore e dei carrelli portavivande incombeva, anzichè sul responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell'azienda sanitaria, sul responsabile dell'omologo servizio dell'impresa appaltatrice, della quale la vittima era dipendente, perchè il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 onera il datore di lavoro di un obbligo di prevenzione antinfortunistica anche in relazione ai lavori affidati, all'interno dell'azienda, ovvero dell'unità produttiva, ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi, segnatamente imponendogli di cooperare "all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto".
Evidenziava in proposito che nella fattispecie il sinistro si era verificato a causa delle caratteristiche di due dispositivi, l'ascensore e il carrello, appartenenti entrambi all'azienda ospedaliera; che non aveva rilevanza la circostanza che nessuno avesse informato il F. della potenziale pericolosità connessa al loro uso congiunto, perchè spettava allo stesso, in ragione della carica ricoperta, attivarsi perchè le attività del Presidio ospedaliero si svolgessero in condizioni di sicurezza; che parimenti non aveva senso l'assunto secondo cui "il datore di lavoro era già informato del problema", perchè tale rilievo poteva al più valere per i soggetti in posizione apicale nella USL nel (OMISSIS), allorchè si erano verificati altri due sinistri analoghi a quello di cui era rimasta vittima la S., anche se, fortunatamente, con esiti non letali, non certo per quelli in carica nell'agosto del 1999, vero essendo piuttosto che spettava al responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in quanto direttamente onerato della individuazione dei fattori di rischio, "un'indagine sistematica circa la tipologia e le cause degli infortuni sul lavoro".

1.3 Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il difensore di F.M., chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi:

a) violazione di legge penale e di norme rilevanti per l'applicazione della legge penale; di norme processuali stabilite a pena di nullità, mancanza e manifesta illogicità della motivazione, ex artt. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), in relazione all'art. 40 c.p.p., comma 1, artt. 41, 113, 589 cod. pen., nonchè al D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 2, 8 e art. 9, lett. a), per avere il giudice di merito, con motivazione puramente assertiva, disancorata dai dati fattuali e dalle prospettazioni contenute nei motivi di appello, e quindi, in definitiva, senza alcuna motivazione, affermato la penale responsabilità del F. in quanto responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dai rischi professionali, benchè a tale carica non inerissero poteri di spesa e di amministrazione attiva. Il vizio, ridondante in autentica violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità, e quindi rilevante ex art. 606 c.p.p., lett. c), si connoterebbe di particolare visibilità nella valutazione della sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva ascritta al prevenuto e il sinistro addebitatogli.
Ricordati i compiti inerenti alle funzioni svolte dal prevenuto nell'ambito della Azienda USL (OMISSIS), alla stregua delle disposizioni dettate dal D.Lgs. n. 626 del 1994, e richiamati i principi enunciati dalle Sezioni Unite del Supremo Collegio nella sentenza n. 30328 del 2002, e segnatamente quello in base al quale un certo evento può essere attribuito a una certa condotta solo quando, nell'ambito di un giudizio controfattuale, eliminata mentalmente la seconda, si può affermare che il primo non si sarebbe verificato, sostiene in particolare il ricorrente che a siffatti criteri valutativi sarebbe venuto meno il giudice a quo. In maniera affatto apodittica il decidente avrebbe invero ritenuto che l'ottemperanza all'obbligo di segnalazione sarebbe stata idonea ad evitare il sinistro, e ciò pur dando contraddittoriamente per scontato che la pericolosità del montacarichi era a tutti nota - tanto che quegli stessi organi direttivi, che soli erano titolari di poteri decisionali in parte qua, avevano ritenuto di scongiurarne i rischi attraverso l'apposizione di un cartello - e che la S., introducendosi all'interno dello stesso insieme al carrello, ebbe a contravvenire alle relative prescrizioni.
In tale contesto era pertanto del tutto implausibile l'assunto che una segnalazione del F. sarebbe stata idonea a scongiurare l'evento;

b) violazione di legge penale e di norme processuali stabilite a pena di nullità, mancanza e manifesta illogicità della motivazione, ex artt. 606 c.p,p., lett. c) ed e), in relazione agli artt. 43 e 589 cod. pen., art. 125 c.p.p., comma 3 e art. 546 c.p.p., lett. e), per avere il giudice di merito risolto il problema dell'elemento soggettivo del reato ascritto all'imputato "attraverso una sequenza di incomprensibili tautologie".
E invero l'affermazione secondo la quale incombeva al F. farsi carico di monitorare, anche mediante indagini, i fattori di rischio, non teneva conto del fatto che il comportamento del responsabile del servizio protezione è, al pari di qualsiasi altra condotta, soggetto alla regola della "normale esigibilità" e che, tenuto conto della estensione della USL n. (OMISSIS), egli veniva in sostanza chiamato a rispondere a titolo di responsabilità oggetti va, tanto più che la vittima dell'infortunio era una dipendente della ditta B. R. & C., assegnataria di un appalto all'interno del presidio ospedaliero, e che non era stata neppure dimostrata l'effettiva conoscenza, da parte del F., dell'intervenuto appalto.

2.1 Osserva la Corte che il nucleo argomentativo centrale di entrambe le doglianze ruota intorno all'asserita inidoneità dei compiti e dei poteri connessi alla carica ricoperta dall'imputato, nell'ambito dell'Azienda USL (OMISSIS), a radicare una condotta omissiva eziologicamente connessa al sinistro di cui rimase vittima la lavoratrice e a qualificarla in termini di colpa penalmente rilevante: niente di operativo, sostiene in sostanza il ricorrente, avrebbe mai potuto fare il F. per eliminare i rischi connessi alla particolare conformazione dell'ascensore che fu teatro del sinistro; una sua segnalazione sarebbe stata in ogni caso inutile, perchè la pericolosità dello stesso era ben nota al datore di lavoro, tanto da essere stata evidenziata attraverso l'affissione di un cartello, alle cui disposizioni la S. palesemente contravvenne; il diretto apprezzamento, da parte dell'imputato, di tutte le situazioni di rischio esistenti nell'azienda, ivi compresa, dunque, quella per cui è processo, sarebbe condotta di fatto inesigibile, considerato che non vi era neppure la prova che egli fosse a conoscenza dell'esistenza dell'appalto.

2.2 Ritiene il collegio che le censure muovano da un'interpretazione del disposto del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 9, e, più in generale, delle regole che presidiano la responsabilità per condotta omissiva in materia di infortuni sul lavoro, assolutamente non condivisibile e correttamente disattesa, pertanto, dal giudice di merito. L'opzione esegetica sottesa al ricorso postula invero che, laddove non vi siano poteri di amministrazione attiva in materia di adeguamento dei luoghi di lavoro, e segnatamente di intervento e di spesa, non possa, perciò solo, esservi responsabilità per colpa in connessione al verificarsi di un infortunio, laddove, a giudizio del collegio, salvo verifiche della situazione fattuale determinatasi in concreto, può al più essere vero il contrario, e cioè che la presenza di quei poteri sia, in via di principio, condizione sufficiente, anche se non necessaria, nè tanto meno esclusiva, perché operino le norme sull'imputabilità penale.
Con particolare riguardo alle funzioni che il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 9, riserva al responsabile del servizio di prevenzione e protezione, l'assenza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale non esclude che l'inottemperanza alle stesse - e segnatamente la mancata individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori - possa integrare un'omissione "sensibile" tutte le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile a una situazione pericolosa ignorata dal responsabile del servizio.
Per altro verso, considerata la particolare conformazione concepita dal legislatore per il sistema antinfortunistico, con la individuazione di un soggetto incaricato di monitorare costantemente la sicurezza degli impianti e di interloquire con il datore di lavoro, deve presumersi che, ove una situazione di rischio venga dal primo segnalata, il secondo assuma le iniziative idonee a neutralizzarla.
Va anche aggiunto, sempre sul piano esegetico, che l'operatività della disposizione in commento deve intendersi estesa, in considerazione del disposto dell'art 7 della medesima fonte, ai rischi delle lavorazioni cui vanno incontro i dipendenti dell'appaltatore, se e nella misura in cui è chiamato a rispondere nei loro confronti il datore di lavoro committente.

2.3 Posto dunque che il giudice di merito si è mosso nell'ambito di tale pista interpretativa, che è l'unica aderente alla lettera e allo spirito della norma, oltre che compatibile con le linee generali dell'ordinamento, non resta che verificare se sussistano i vuoti e le illogicità motivazionali denunziati dall'impugnante.
Va a questo punto ricordato che in tema di sindacato del vizio della motivazione, il giudice di legittimità non è chiamato a sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, essendo piuttosto suo compito stabilire - nell'ambito di un controllo da condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato - se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, se abbiano analizzato il materiale istruttorio facendo corretta applicazione delle regole della logica, delle massime di comune esperienza e dei criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (cfr. Cass. Sez. Un. 29 gennaio 1996, n. 930; Cass. Sez. 1^, 4 novembre 1999, n. 12496). In tale prospettiva, con tranquillante uniformità, si afferma che la Corte di cassazione non può fornire una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, nè può stabilire se questa propone la migliore ricostruzione delle vicende che hanno originato il giudizio, ma deve limitarsi a verificare se la giustificazione della scelta adottata in dispositivo sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento" (Cass. n. 465 del 2004).
Orbene, il sindacato sulla motivazione della sentenza impugnata, condotta in base ai criteri innanzi enunciati, impone di ritenerla esente da vizi.br /> EEscluso, sulla scorta della prospettiva ermeneutica innanzi enunciata, che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, non potesse, in ragione delle funzioni attribuitegli, essere chiamato a rispondere dell'infortunio, il giudice di merito è invero pervenuto all'affermazione della responsabilità dell'imputato all'esito di una valutazione completa e rigorosa del materiale istruttorio nonché sulla base di un percorso argomentativo serrato e coerente, segnatamente risolvendo i nodi essenziali dell'apprezzamento demandatogli - l'adeguatezza del cartello che avvertiva dei rischi e la colpevolezza dell'omissione, sotto il profilo dell'esigibilità della condotta positiva -, in maniera conforme alle regole della logica, a quelle di valutazione probatoria e alle massima di comune esperienza.
In particolare il carattere decisivo assunto, nella formazione del convincimento del giudicante, dalla considerazione che sia l'ascensore che il carrello erano dispositivi di proprietà dell'USL;br /> ddal rilievo che l'avvertimento espresso nel cartello era criptico e inadeguato, oltre che impropriamente volto a rimettere al lavoratore una valutazione di competenza dell'imprenditore; e dalla invincibile contraddittorietà insita nell'affermazione di avere ignorato un rischio che pur si assumeva a tutti noto, rientra nei limiti di quella "plausibile opinabilità di apprezzamento", richiesta da questa Corte per l'esito negativo dello scrutinio sul vizio motivazionale. Il rigetto del ricorso si impone dunque.
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al rimborso delle spese del grado in favore delle costituite parti civili.




P.Q.M.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Lo condanna altresì a rifondere alle parti civili S.G., S.A. e B. S. le spese da loro sostenute per questo grado di giudizio, spese che liquida unitariamente in Euro 1.187,050 per ciascuna delle medesime, oltre IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 febbraio 2007.
Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2007