Cassazione Civile, Sez. Lav., 09 agosto 2013, n. 19081 - Lavori di rimozione dei rampicanti in un edificio e responsabilità del Comune committente


 

 

 

"In tema di infortuni sul lavoro, l'art. 2087 c.c., espressione del principio del neminem laedere per l'imprenditore e il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7, che disciplina l'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, prevedono l'obbligo per il committente, nella cui disponibilità permane l'ambiente di lavoro, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorchè dipendenti dall'impresa appaltatrice, consistenti nell'informazione adeguata dei singoli lavoratori e non solo dell'appaltatrice, nella predisposizione di tutte le misure necessarie al raggiungimento dello scopo, nella cooperazione con l'appaltatrice per l'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata, tanto più se caratterizzata dall'uso di macchinari pericolosi. Pertanto, l'omissione di cautele da parte dei lavoratori non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del committente che non abbia provveduto all'adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro ...".


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido - Presidente -
Dott. NAPOLETANO Giuseppe - Consigliere -
Dott. BLASUTTO Daniela - Consigliere -
Dott. FERNANDES Giulio - Consigliere -
Dott. GARRI Fabrizia - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso 10233-2010 proposto da:
COMUNE DI ALBIOLO (Omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PAOLO DI DONO 3/A, presso lo STUDIO DE BERARDINIS - MOZZI, rappresentato e difeso dall'avvocato ZAMBRANO PIETRO, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
A.M. (Omissis), (in proprio e nella sua qualità di tutore del marito Sig. S.M.), S.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SARDEGNA 29, presso lo studio dell'avvocato VASI GIORGIO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato PACIA EDOARDO, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 488/2009 della CORTE D'APPELLO di BRESCIA, depositata il 23/12/2009 R.G.N. 243/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/03/2013 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI;
udito l'Avvocato ZAMBRANO PIETRO;
udito l'Avvocato VASI GIORGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto


A.M. in proprio e quale tutrice del coniuge S. M. e del figlio minore S. chiedeva accertarsi la responsabilità solidale della snc LM. e del Comune di Albiolo con condanna al risarcimento del danno biologico e morale derivato dall'infortunio sul lavoro di cui era rimasto vittima S.M., entrato in coma irreversibile dal momento del fatto ((Omissis)), il quale incaricato dalla datrice di lavoro di rimuovere dei rampicanti in un edificio nella disponibilità del Comune, era caduto a causa dello sfondamento di un tetto in eternit e che la responsabilità incombeva sulla società ex art. 2087 cod. civ. nonchè sul Comune committente per l'omessa predisposizione del piano di sicurezza. Chiedeva in particolare la condanna:
- alla rifusione del danno biologico e morale dell'infortunato pari a L. 1.362.250.000;
- alla rifusione del danno alla vita di relazione e danno morale a favore di essa A.M. e del figlio S. rispettivamente per l'importo di L. 800.000.000 e L. 400.000.000.
Costituitisi i convenuti chiamavano in garanzia rispettivamente la Fondiaria spa (il L.M.) e la Reale Mutua Assicurazioni (il Comune di Albiolo).
Il Tribunale, con sentenza non definitiva, accoglieva la domanda nei confronti dei soli due soci della L.M., che nel processo penale avevano patteggiato la pena, e nei confronti della La Fondiaria spa che li assicurava e la rigettava nei confronti del Comune.
Con sentenza definitiva liquidava, poi, i danni subiti da S. M. in Euro 678.724, 37 e non provvedeva sui danni morali ed esistenziali richiesti in proprio dalla sig. A. anche per conto del figlio minore.
La Corte d'Appello di Milano pronunziando sull'appello principale della società e sull'appello incidentale di A.M., rinnovata l'istruttoria, in riforma delle due sentenze di primo grado rigettava tutte le domande di parte attrice.
Il Collegio escludeva qualsiasi rilevanza nel giudizio civile della sentenza di patteggiamento e nella ricostruzione del fatto ravvisava un ipotesi di rischio elettivo, non rientrando l'accesso al tetto poi crollato tra le mansioni affidate allo S..
In esito a ricorso di A.M. la decisione era cassata per vizio di motivazione con rinvio alla Corte di appello di Brescia,alla quale era demandato di procedere "ad accertare nuovamente l'estensione delle mansioni assegnate al lavoratore rimasto infortunato e quindi il nesso causale fra queste e l'infortunio, congruamente motivando ed applicando altresì l'art. 2087 c.c., secondo i principi di diritto sopra enunciati, e in particolare verificando se il calpestamento di un tetto di eternit da parte di un "muratore esperto e prudente" (così definito a pag. 33 del ricorso) possa integrare un concorso nel fatto colposo".
A.M., in proprio e quale tutrice del coniuge, e S. S., divenuto maggiorenne, riassumevano il giudizio insistendo nella richiesta di condanna sia di tutti i soci della L.M., sia del Comune di Albiolo.
La Fondiaria Sai si costituiva allo scopo di far constatare l'avvenuto versamento del massimale e chiedeva la estromissione dal giudizio.
Venivano svolte trattative all'esito delle quali la Reale Mutua Assicurazioni, chiamata in manleva dal Comune di Albiolo, versava l'intero massimale e il giudice tutelare, tenuto conto degli acconti già versati nel 2001 (Euro 77.468,53 dall'assicurazione e Euro 93.322, 38 personalmente), riteneva congrua l'offerta a saldo proposta dai soci della LM. snc (ulteriori Euro 200.000,00) che quindi veniva trasfusa nella transazione in atti, a copertura anche del danno vantato a titolo personale dalla moglie e dal figlio dell'infortunato.
Il Comune di Albiolo depositava una Delib. con la quale assumeva su di sè, vita natural durante dell'infortunato, il pagamento dell'affitto dell'abitazione dovuto all'ALER di Corno proprietaria dell'appartamento, ma l'offerta, pur accettata, non era ritenuta sufficiente.
In esito a tali sviluppi della vicenda processuale, la Corte così decideva:
Dichiarava cessata la materia del contendere tra gli appellanti A.M., anche quale tutore del coniuge e S.S., e la società LM. s.n.c. oltre che tra la società LM. e La Fondiaria Sai che aveva messo a disposizione l'intero massimale.
Accertava la responsabilità del Comune di Albiolo nella verificazione dell'infortunio e determinava il grado di colpa nella misura del 50%.
Liquidava il danno subito da S.M. nella misura già stabilita nella sentenza di primo grado; quello subito da A. M. in Euro 155.000 e quello subito da S.S. in Euro 75.000 (in valori rapportati all'epoca della sentenza di primo grado dell'8 maggio 2001).
Condannava il Comune di Albiolo al pagamento in favore di ciascuno dei danneggiati delle somme residue, pari a quelle capitali sopraindicate, decurtate degli importi già corrisposti, che imputava, per quote proporzionali alle somme capitali già liquidate, con gli interessi dalla data del fatto alla data della sentenza di primo grado fino al pagamento del primo acconto e, successivamente, sulle somme di volta in volta residue, scomputati gli acconti, dalla data dei singoli pagamenti alla data del pagamento successivo fino al saldo.
Dichiarava che dall'importo liquidato a S.M. doveva essere detratta la somma capitalizzata secondo le tabelle Inail del canone di locazione.
Dichiarava infine la cessazione della materia del contendere in ordine alla domanda di manleva proposta dal Comune di Albiolo nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni.
La Corte territoriale motivava la sua decisione evidenziando che nella condotta del lavoratore non era ravvisabile un rischio elettivo, nè, tantomeno, un concorso di colpa ben potendosi ritenere accertato che S.M. si trovava sul tetto più alto dell'edificio proprio in esecuzione delle mansioni che gli erano state affidate senza che nessuno lo avesse avvertito della pericolosità dei luoghi. Sottolineava che la ditta Monaco, aggiudicataria dell'appalto che prevedeva anche la piccola manutenzione di edifici in tale ambito e senza supplemento di prezzo, era stata incaricata di ripulire dalle erbacce il piazzale antistante la costruzione denominata "vecchia Albiolo" e di bonificare l'edificio dai rampicanti per rendere più gradevole e sicuro il luogo che era destinato ad ospitare la festa del paese.
Precisava che dall'istruttoria era emerso che l'edificio si componeva di due corpi di diversa altezza.
Il primo con tetto in tegole; il secondo con un tetto che risultò, poi, essere di lastre di eternit logore.
Sottolineava ancora che era risultato accertato che non era possibile operare solo da terra e che sul luogo dei lavori, e dell'incidente, era posizionato un mezzo gommato polifunzionale, con braccio semovente che, pur non montando un cestello, montava una benna che venne utilizzata dall'ispettore del lavoro per issarsi sul tetto più alto e fare il sopralluogo.
Accertava che il macchinario non era stato portato sul piazzale al solo scopo di raccogliere le ramaglie estirpate dal cortile o dalle gronde ma era destinato anche quale supporto per poter accedere al tetto più alto e procedere alla pulizia delle relative gronde (il che confermava il fatto che l'accesso a quel tetto era stato previsto nei lavori commissionati). Sottolineava altresì che l'infortunato, muratore esperto e prudente, non ne aveva fatto uso preferendo una modalità di accesso più libera e sicura. Precisava che per procedere alla pulizie delle gronde più alte non vi era altro sistema che salire sul tetto posto che non era possibile fisicamente estirparle dal basso.
Evidenziava ancora che, il fatto che il lavoro dovesse essere ultimato salendo su entrambi i tetti si ricavava anche dal fatto che lo S. già si trovava sul tetto più basso quando il titolare della ditta ( L.M.A.) si allontanò dal cantiere senza nulla osservare circa le modalità di esecuzione del lavoro che (come riferito da alcuni dei testi) apparivano a tutti, lui compreso, normali.
Per la Cassazione della sentenza ricorre il Comune di Albiolo che ha articolato quattro motivi ulteriormente illustrati da memoria.
Resistono con controricorso A.M., anche quale tutore del marito S.M. e S.S..

 

Diritto


Con il primo motivo di ricorso viene denunciata la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti controversi e decisivi della controversia ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Ad avviso del Comune erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto provate alcune circostanze decisive per stabilire la sua responsabilità concausale nell'evento dannoso sotto il profilo dell'omessa sorveglianza e dell'omessa predisposizione di adeguate misure a tutela della sicurezza dei lavori sebbene vi fossero elementi probatori di segno contrario, la situazione di pericolo fosse obiettivamente percepibile e, inoltre, non fosse necessario per procedere ai lavori accedere alle gronde dal tetto.
Alla luce di tali premesse, secondo il Comune, non era possibile immaginare che la società appaltatrice avrebbe svolto i suoi lavori accedendo al tetto, nè la presenza della benna in cantiere poteva essere considerata ragionevolmente indizio di tale volontà.
Il giudice d'appello, poi, disattendendo le indicazioni della sentenza remittente, avrebbe omesso di esaminare il verbale dei Carabinieri e il rapporto Asl, nelle cui conclusioni non è ravvisata alcuna violazione da parte del Comune dalla quale far discendere una responsabilità solidale e/o concorsuale omettendo di sentire a conferma, come per contro avrebbe dovuto, il verbalizzante.
Con il secondo motivo di ricorso viene denunciata la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 3 in relazione all'affermata sussistenza dell'obbligo di informativa dei rischi presenti sul cantiere.
Il ricorrente evidenzia che l'art. 3 costituisce norma che fissa i criteri generali a cui ispirare le disposizioni concrete a tutela della sicurezza del lavoro con la conseguenza che non si può configurare un'autonoma violazione della disposizione.
Con il terzo motivo di ricorso, quindi, è denunciata la violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 oltre che la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Afferma il ricorrente che la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere sussistente un obbligo, in capo al committente Comune di Albiolo, di controllo della puntuale osservanza delle misure di sicurezza insistendo nell'affermare che non vi erano elementi che potessero far presumere che si intendesse salire sul tetto.
Sottolinea che la benna, presente nel piazzale, non è un mezzo normale da utilizzare per spostamenti in alto (su un tetto) e dunque sarebbe illogico desumere dalla sua presenza sul luogo di lavoro la volontà della società appaltatrice di voler procedere ai lavori accedendo al tetto.
Aggiunge poi che l'art. 7 si riferisce a lavori che sono effettuati all'interno dell'azienda o dell'unità produttiva e, poichè nel caso in esame i lavori non erano svolti all'interno dell'attività produttiva, coordinando il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 con l'art. 30, ne deriverebbe che tali obblighi di cooperazione non troverebbero applicazione ai cantieri temporanei e mobili che non si trovino sul luogo di lavoro.
Con il quarto ed ultimo motivo di ricorso, infine ed in via subordinata, viene censurata la sentenza per avere, con motivazione carente e senza tener conto di quanto era stato disposto dalla Suprema Corte con la sentenza di rinvio, escluso il cd. rischio elettivo, ed il concorso di colpa del ricorrente che, muratore esperto, si era avventurato per oltre cinque metri su un tetto in eternit, materiale la cui scarsa resistenza al peso è comunemente nota.


I primi tre motivi di ricorso, tra loro strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente e sono destituiti di fondamento.
Alla Corte d'appello di Brescia, davanti alla quale in sede di rinvio dalla Cassazione era stato riassunto il giudizio, era demandato di "accertare nuovamente l'estensione delle mansioni assegnate al lavoratore rimasto infortunato e quindi il nesso causale fra queste e l'infortunio, congruamente motivando ed applicando altresì l'art. 2087 c.c., secondo i principi di diritto sopra enunciati, e in particolare verificando se il calpestamento di un tetto di eternit da parte di un "muratore esperto e prudente" (così definito a pag. 33 del ricorso) possa integrare un concorso nel fatto colposo".
Il giudice del rinvio, quindi, in esito ad una ricostruzione dei fatti aderente alle risultanze istruttorie e coerente con l'accertata evoluzione dei fatti che hanno dato luogo all'incidente occorso al lavoratore, ha ravvisato un concorso di colpa nella causazione del danno da parte dell'ente appaltatore. La corte di merito ha infatti verificato in primo luogo che oggetto del lavoro era la pulizia esterna da piante ed erbacce dell'immobile chiamato "la vecchia Albiolo" e del piazzale ad esso antistante.
Ha poi accertato che piante rampicanti ed erbacce erano presenti anche sulle gronde dei tetti dell'immobile e che per la loro rimozione l'accesso, in mancanza di ponteggi, non poteva che avvenire attraverso il tetto.
Ha preso atto che in prossimità dell'immobile era stata collocata una benna con braccio semovente utile anche a spostarsi in alto verso il tetto (tanto che se ne era avvalso l'ispettore nel corso del suo sopralluogo). Da tale constatazione ha logicamente ricostruito che per lo svolgimento del lavoro l'accesso al tetto era necessario e che il Comune che lo aveva commissionato, ben conoscendo lo stato dei luoghi, non poteva non esserne a conoscenza.
Peraltro la Corte territoriale ha sottolineato che il Comune da un canto non poteva ignorare che il lavoro sarebbe stato effettuato accedendo al tetto posto che con tale modalità in maniera palese e conclamata erano state pulite le gronde del tetto più basso dallo stesso operaio. Inoltre ha evidenziato la chiara presenza di un'insidia nel fatto che dal basso era visibile un controsoffitto apparentemente in cemento che invece era risultato essere in polistirolo.
Da tale complesso di elementi, univocamente diretti a dimostrare che il committente era chiaramente consapevole della oggettiva situazione logistica dei luoghi in cui i lavori andavano svolti, la Corte ha tratto la conseguenza che rientrava tra gli oneri del committente provvedere a segnalare i possibili rischi.
Si tratta di una ricostruzione fattuale ancorata a elementi oggettivamente emersi nel corso dell'istruttoria e coerentemente tra loro collegati di tal che non si espone alle censure che le vengono mosse.
E' noto infatti che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. cass. 27197/2011).
Tale ricostruzione è esente da vizi logici dando adeguatamente conto delle ragioni che la hanno determinata.
Muovendo dalle caratteristiche dei lavori dati in appalto e tenendo ben presente il risultato che si intendeva conseguire, il giudice territoriale ha verificato che il committente, omettendo di comunicare all'appaltatore l'effettivo stato dei luoghi e di allertarlo sui possibili pericoli aveva concorso nella causazione dell'evento dannoso.
Quanto alla pretesa violazione del D.Lgs. n. 696 del 1994, artt. 3 e 7 si osserva in primo luogo che anche di recente è stato ribadito che "in tema di infortuni sul lavoro, l'art. 2087 c.c., espressione del principio del neminem laedere per l'imprenditore e il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7, che disciplina l'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, prevedono l'obbligo per il committente, nella cui disponibilità permane l'ambiente di lavoro, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorchè dipendenti dall'impresa appaltatrice, consistenti nell'informazione adeguata dei singoli lavoratori e non solo dell'appaltatrice, nella predisposizione di tutte le misure necessarie al raggiungimento dello scopo, nella cooperazione con l'appaltatrice per l'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata, tanto più se caratterizzata dall'uso di macchinari pericolosi. Pertanto, l'omissione di cautele da parte dei lavoratori non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del committente che non abbia provveduto all'adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro ..." (cfr., in tal senso, Cass. 20 ottobre 2011 n. 21694, ed anche Cass. n. 8686/2012).
Nè la Corte territoriale è venuta meno all'obbligo di procedere ad un riesame delle emergenze istruttorie ed in particolare del verbale redatto dai Carabinieri e del rapporto Asl, disponendo l'audizione dell'ispettore verbalizzante. Ed infatti la sentenza contiene richiami sia all'indagine svolta dalla ASL che alle dichiarazioni rese dall'ispettore del lavoro (cfr. pagg. 12, 13, 16 della sentenza).
Per tale profilo, peraltro, il ricorso è carente sotto il profilo dell'autosufficienza poichè non precisa a quale parte del rapporto in particolare intende riferirsi laddove invece, nel rispetto dell'art. 366 c.p.c., n. 6, avrebbe dovuto provvedere ad indicare nel ricorso il passo del "rapporto" che ritiene decisivo e che non sarebbe stato adeguatamente considerato dal giudice del rinvio.
Ugualmente infondato è poi l'ultimo motivo di ricorso con il quale viene denunciata l'esistenza di un rischio elettivo.
In base all'orientamento consolidato di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, in tema di responsabilità per infortunio sul lavoro, la valutazione in ordine alla comportamento del lavoratore e quindi anche in ordine alla sua imprevedibilità in quanto anomalo e non richiesto dal datore di lavoro (rischio elettivo) è riservata al Giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità ove logicamente e sufficientemente motivata (Cass. 2 febbraio 2011, n. 2451). Nella specie, le conclusioni cui il Giudice del merito è pervenuto - nell'esercizio della propria discrezionalità sulla valutazione degli elementi di prova e sull'apprezzamento dei fatti, che è incensurabile in questa sede di legittimità, perchè congruamente motivato - appaiono anche conformi agli orientamenti consolidati e condivisi di questa Corte, in base ai quali:
1) in linea generale è jus receptum che l'art. 2087 cod. civ., che come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonchè tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato (Cass. 23 settembre 2010, n. 20142).
2) in tema di infortuni sul lavoro ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., espressione del principio del neminem laedere per l'imprenditore, l'omissione di cautele da parte dei lavoratori non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del committente che non abbia provveduto all'adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro, non essendo nè imprevedibile nè anomala una dimenticanza dei lavoratori nell'adozione di tutte le cautele necessarie, con conseguente esclusione, in tale ipotesi, del cd. rischio elettivo, idoneo ad interrompere il nesso causale ma ravvisabile solo quando l'attività non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso (Cass. n. 21694/2011 cit.);
3) in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce rischio elettivo la deviazione, puramente arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative, che comporta rischi diversi da quelli inerenti le usuali modalità di esecuzione della prestazione. Tale genere di rischio - che è in grado di incidere, escludendola, sull'occasione di lavoro - si connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass. 2 ottobre 2009, n. 21113; Cass. 18 maggio 2009, n. 11417; Cass. 28 ottobre 2009, n. 22818);
4) in tema di infortuni sul lavoro non può attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell'indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell'estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656).
Contrariamente a quanto affermato nel ricorso, infatti, la Corte d'appello ha proceduto a verificare, sulla base delle allegazioni delle parti e delle emergenze istruttorie l'inesistenza di un comportamento anomalo e colposo del lavoratore.
La motivazione della sentenza impugnata appare conforme ai suindicati principi e corretta dal punto di vista logico-giuridico, in quanto da essa di desume con chiarezza che il raggiunto convincimento del giudice è basato su un esame congruo e coerente di quelle che, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, sono state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo, essendo del tutto irrilevante che non si sia dato conto dell'esito dell'esame di tutte le prove prospettate o comunque acquisite (Cass. 4 marzo 2011, n. 5241; Cass. 27 luglio 2006, n. 17145). In conclusione il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.


LA CORTE Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 4500,00 per compensi professionali ed in Euro 50,00 per esborsi. Oltre Iva e CPA. Così deciso in Roma, il 26 marzo 2013.
Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2013