Cassazione Civile, Sez. Lav., 28 agosto 2013, n. 19810 - Demansionamento e mobbing
Fatto
B. E., dipendente del Comune di Brescia con qualifica di geometra, agiva per il risarcimento dei danni da demansionamento e mobbing, che assumeva essergli derivati da una serie di atti, fatti e comportamenti posti in essere dalla parte datoriale nel periodo compreso tra il 1990 e la data del ricorso, proposto nel 2002.
Il Tribunale respingeva la domanda per non avere il ricorrente dedotto alcunché in ordine ali contenuto concreto delle mansioni di fatto svolte, sì da non potersi operare il raffronto tra queste e la declaratoria contrattuale del livello posseduto.
A seguito di gravame proposto dal B., la Corte di appello di Brescia, accolta l'eccezione di difetto di giurisdizione riproposta da parte appellata quanto ai fatti anteriori al 30.6.98 e ammessa la prova orale per l'accertamento dei fatti successivi a tale data (dopo il trasferimento del B. al settore interventi speciali del Comune e da qui al settore urbanistica), con sentenza del 29 marzo 2007 respingeva l'impugnazione sulla base delle seguenti considerazioni:
- non aveva trovato riscontro istruttorio la censura del lavoratore di essere stato lasciato inattivo, senza incarichi;
- la prova testimoniale aveva fatto emergere il tentativo, operato dai dirigenti, di creare un ambiente di lavoro produttivo per il B., nonostante la non semplice individuazione di pratiche per le quali lo stesso non fosse in conflitto di interessi con la sua libera professione di architetto;
risultavano attribuiti incarichi sempre compatibili con il profilo professionale dì geometra posseduto dal B. e con il part-time di 18 ore settimanali che questi svolgeva per sua scelta;
a fronte degli incarichi conferiti, compatibili con l'inquadramento attribuito, era emerso un atteggiamento non collaborativo ed ostruzionistico dell'appellante, che si era rifiutato di eseguirli, fornendo svariate giustificazioni;
- nel corso del secondo grado di giudizio era stata acquisita una sentenza del Tribunale dì Brescia, emessa nel 2004 e passata in giudicato, che, nel respingere la domanda del B. tendente ad ottenere l'erogazione dell'indennità di produttività, aveva evidenziato come il ricorrente avesse effettivamente tenuto un atteggiamento passivo, ostruzionistico e scarsamente collaborativo, poco integrato con i colleghi;
- i continui spostamenti, lungi dal costituire un indizio di mobbing, erano la conseguenza dell' impossibilità di ottenere dal ricorrente una minima collaborazione e dell'encomiabile tentativo del Comune di trovargli una collocazione compatibile con il suo ridotto orario di lavoro e con la libera professione e che nello stesso tempo lo motivasse a collaborare accettabilmente;
sempre riguardo al mobbing, che nel preteso demansionamento vedeva la sua principale estrinsecazione, non vi era prova di comportamenti prevaricanti e vessatori;
- la patologia di cui era portatore il B. era del tutto indipendente da una condotta colposa del Comune.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso B. E. con due articolati motivi.
Resiste con controricorso il Comune di Brescia.
Diritto
Con il primo motivo si denuncia omissione parziale di motivazione (art. 360 cod. proc. civ., n. 5) per avere la Corte di appello incentrato le proprie valutazioni, quanto al demansionamento, sulla circostanza della inattività e, quanto al mobbing, sulla centralità del demansionamento, così trascurando di considerare punti controversi e decisivi per il giudizio. Questi erano costituiti, rispettivamente, dalla mancata verifica della non corrispondenza delle mansioni assegnate alle competenze professionali di Funzionario tecnico D4 e dal mancato esame della documentazione prodotta dal ricorrente, idonea a dimostrare la durata nel tempo delle azioni ostili, il carattere discriminatorio delle stesse e il preciso intento vessatorio del comportamento datoriale.
Il motivo è infondato.
Innanzitutto, il motivo vertente sul presunto vizio di insufficiente motivazione circa la non riconducibilità delle mansioni assegnate a quelle proprie della qualifica di Funzionario Tecnico D4 risulta formulato in modo generico, senza alcuna specifica indicazione delle attività che sarebbero state allegate, ma non specificamente esaminare dal giudice di appello, pur avendo (si sostiene) carattere decisivo, di talché il motivo sì rivela non conforme al principio di autosufficienza.
A ciò aggiungasi che la prospettazione sottesa al ricorso per cassazione è divergente da quella che la Corte territoriale afferma essere stata posta a base dell'appello. Dalla sentenza impugnata emerge che in giudice di primo grado aveva argomentato sull'assenza di allegazioni circa la non riconducibilità delle mansioni al livello posseduto e l'appellante sì era lamentato che non era stato considerato che l'allegazione di inattività costituiva indicazione del più alto grado di demansionamento; pertanto, sull'ipotesi della inattività la Corte dì appello ha incentrato la propria disamina, peraltro specificamente vagliando molti degli incarichi proposti al B. e da questi rifiutati e confermando comunque la conformità degli stessi al livello di inquadramento (di geometra e non di architetto} posseduto dal ricorrente. Ora, in sede di ricorso per cassazione, sostanzialmente ribaltando l'ordine logico delle questioni sollevate con il ricorso in appello, la cui interpretazione e ricostruzione ad opera della sentenza impugnata non è stata nemmeno censurata, il ricorrente deduce che la Corte bresciana avrebbe dovuto incentrare la propria disamina non sulla inattività, ma sul difetto di corrispondenza tra le mansioni assegnate (non meglio definite dal ricorrente) e quelle proprie del livello di inquadramento D4.
Il motivo presenta chiare indicazioni di inammissibilità pure in considerazione dell'assenza di qualsiasi censura circa la corretta interpretazione del tenore del ricorso in appello e dei motivi di gravame, mentre per quanto attiene alla questione della inattività la Corte di appello ha adeguatamente motivato, indicando: a) che erano stati assegnati incarichi, specificamente elencati; b) che questi rientravano nel profilo di appartenenza; e) che vi era stato un atteggiamento di ostruzionismo e di rifiuto, e comunque di mancata collaborazione, da parte del B. nell'accettarli ed eseguirli.
E' poi destituita di fondamento l'ulteriore censura secondo cui la Corte di appello avrebbe argomentato l'inesistenza del mobbing unicamente basandosi sull'assenza del demansionamento. Al contrario, risulta dalla sentenza impugnata che la valutazione è articolata e si fonda sull'apprezzamento di molteplici elementi dì ordine oggettivo e soggettivo, sì che risulta sorretta da motivazione congrua, immune da vizi logici, la conclusione secondo cui nessuna condotta vessatoria era stata posta in essere dal Comune di Brescia nei confronti del Bianchì, mentre quest'ultimo aveva tenuto un atteggiamento ostruzionistico, che è l'opposto di una vessazione subita. La Corte di appello ha congruamente argomentato che i continui spostamenti non erano indice di mobbing, ma della volontà del Comune dì ricercare una collocazione compatibile con il ridotto orario di lavoro del B. e con una collocazione accettabile.
Per il resto, il motivo sollecita una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede dì legittimità, tenuto conto del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell'art. 360 cod. proc. civ., n. 5, deve contenere -in ossequio al disposto dell'art. 366 cod. proc. civ., n. 4, che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto - la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali sì basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d'illogicità, consistenti nell'attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l'assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l'insanabile contrasto degli stessi. Ond'è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all'opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'"iter" formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c, n. 5, in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d'aver omesso l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché ne1 l'una né l'altra gli sono richieste, mentre soddisfa l'esigenza dì adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 12052).
Con il secondo motivo sì denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1460, 2013, 2697 cod. civ., artt. 345, 115 e 116 cod. proc. civ. per avere la Corte territoriale fatto erronea applicazione del principio dell'onere della prova e basato la propria decisione sulla sentenza n. 664/04 del Tribunale di Brescia acquisita irritualmente agli atti a seguito di produzione tardiva, in violazione dei limiti di ammissibilità della produzione di documenti nuovi in appello.
Sono formulati due quesiti di diritto, con il primo dei quali si chiede a questa Corte "se risulti violata la norma di cui all'art. 2103 cod. civ. nella parte in cui la Corte di appello di Brescia ha rimesso l'onere della prova circa la dequalificazione professionale al solo lavoratore non tenendo conto del principio espresso nella sentenza di Cassazione civile Sez. Lavoro 6.3,2006 n. 4766 con riguardo al contenuto del combinato disposto di cui agli artt. 2103 c.c. e 2697 ce. primo e/o secondo comma, affermando la Corte di appello dì Brescia 'l'onere della prova di essere rimasto inattivo è del ricorrente, che lo allega come fatto produttivo di danno da demansionamento sotto il profilo della responsabilità contrattuale per violazione dell'art. 2103 ce. e non dell'Amministrazione che, solo a fronte di una prova in tal senso avrebbe avuto l'onere di provare a sua volta che 1' inutilizzo del B. era dovuto a cause a lei non imputabili (e di cui pure si è molto discusso in atti) e consistenti nella contemporanea attività del ricorrente quale libero professionista, con problemi evidenti dì incompatibilità, nella prestazione a part-time, che lo escludeva dal lavoro di team o comunque da tutti quegli incarichi che richiedevano una presenza assidua e continua negli uffici comunali", nonché nella parte in cui la medesima Corte asserisce che "esiste un principio di prova forte di una sua (B.) condotta ostruzionistica e scarsamente collaborativa quale che fossero le mansioni a lui affidate".
Con il secondo quesito di diritto si chiede "se è stata violata la norma contenuta nell'art. 345, comma 3, cod. proc. civ. nella parte in cui la Corte di appello di Brescia ha considerato nella sentenza il documento prodotto tardivamente da controparte in allegato alle note conclusive; documento più volte indicato e valutato dalla Corte di appello di Brescia quale atto fondante piena prova e non mero indizio di prova e dunque operando in contrasto con l'orientamento espresso da Codesta Corte in ripetute sentenze ed in specie sent. Cass. 2994 del 1982 e 779 del 1975".
I due quesiti di diritto, entrambi vertenti su errores in iudicando (art. 360 cod. proc. civ., n.3), presentano una formulazione inidonea a valere per la generalità dei casi, risolvendosi nella apodittica affermazione della violazione di una norma di legge nel caso particolare e quindi non corrispondono ai requisiti di ammissibilità prescritti per la loro formulazione.
Il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell'art. 366-bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una "regula iuris" suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366-bis, si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l'errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie (Cass., Sezioni Unite, sent. 30 ottobre 2008 n. 26020).
Con specifico riferimento al primo quesito, nessun principio di diritto risulta enucleabile nella formulazione sopra trascritta, che si limita a richiamare il precedente di legittimità n. 4766 del 6 marzo 2006 in tema dì riparto degli oneri probatori quando sia allegata dal lavoratore una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento e si adduce che i relativi enunciati sarebbero stati male applicati nel caso particolare. La censura, oltre ad essere stata proposta con formulazione inammissibile, come già detto, integra un'ipotesi di erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze della causa di merito; tale deduzione è da ritenersi esterna alla esatta interpretazione delle norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è ammissibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione ma non sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di legge.
Il secondo quesito verte anch' esso su questione inammissibile. Con tale motivo ci si duole che il giudice di appello abbia tratto argomenti di prova dalla sentenza del Tribunale di Brescia n. 664/04, allegata dal Comune alle note difensive di appello, costituente una produzione tardiva e dunque inammissibile. Tuttavia, parte ricorrente omette di riferire circa la formulazione, da parte sua, nel giudizio di appello, di una eccezione dì tardività della produzione documentale dì controparte, oltre che di allegare gli elementi su cui fondare tale eccezione, con specifico riguarda allo sviluppo del processo e al tempo della formazione del documento, nonché al tempo della conoscenza o conoscibilità del provvedimento (sentenza completa dì motivazione) da parte del Comune, in rapporto al momento in cui la sentenza venne allegata e prodotta in giudizio. Vi è dunque un palese difetto di autosufficienza in relazione alla eccezione di tardività sollevata ex art. 345 cod. proc. civ..
E' noto che, secondo costante giurisprudenza di legittimità (sin dalla pronuncia delle S.U. Cass. n. 8202 del 20 aprile 2005), la decadenza del diritto alla produzione dei documenti non opera quando la produzione sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione.
Come affermato da questa Corte nella sentenza 13 luglio 2009 n. 16337 (conf. Cass. n. 16781 del 29 luglio 2011), nel rito del lavoro, l'omessa indicazione dei documenti probatori nell'atto di costituzione in giudizio, imposta dall'art. 416, terzo comma cod. proc. civ., e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza dal diritto di produrli, salvo che ì documenti si siano formati successivamente ovvero la loro produzione sia giustificata dallo sviluppo del processo (art. 420, quinto comma, cod. proc. civ.). Ne consegue che, ove i documenti siano stati prodotti in udienza, il giudice potrà dichiarare la decadenza della parte ovvero, in alternativa, disporre l'ammissione d'ufficio dei documenti medesimi ai sensi dell'art. 421, secondo comma, cod. proc. civ., dovendosi ritenere, in tale ultima ipotesi, che il silenzio della controparte - a cui spetta la facoltà, entro il termine perentorio assegnato dal giudice, di dedurre proprie istanze istruttorie - comporti l'accettazione del provvedimento giudiziale di ammissione.
Nel caso di specie, la sentenza emessa in altro giudizio tra le stesse parti risulta essere stata prodotta dal Comune di Brescia in sede di note difensive (come riferisce la sentenza impugnata), ossia in termine utile per consentire la formulazione in udienza di eccezioni vertenti sulla ammissibilità del documento o per avanzare un'istanza di termine a difesa. Poiché non risultano formulate eccezioni, né istanze in tal senso, in difetto di qualsiasi indicazione emergente dalla sentenza o di motivi di censura specificamente svolti al riguardo, deve concludersi che il giudice abbia ammesso la produzione del documento in quanto tempestiva, ossia giustificata dal tempo della sua formazione e/o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione in appello. In conclusione, il ricorso va respinto.
Le spese, liquidate nella misura indicata in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente in applicazione del principio della soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi e in Euro 50,00 per esborsi, oltre accessori di legge.