CONVEGNO

La nuova disciplina della salute e sicurezza dei lavoratori.
Aspetti generali e aspetti specifici nel settore edile

Rimini, 23 maggio 2008

RELAZIONE

Sicurezza sul lavoro e nuove figure del mercato del lavoro


di Luciano Angelini

 


Sommario: PARTE I – I.1. Premessa. La flessibilità tipologica come “rischio aggiuntivo” per la salute e sicurezza dei lavoratori tra subordinazione e autonomia. – I.2. Flessibilità vs/ sicurezza tra diritto interno e comunitario. – I.3. I lavori flessibili prima e dopo l’emanazione del d. lgs. n. 81/2008. Qualche cenno alla forte vocazione “universalistica” della tutela prevenzionistica sui luoghi di lavoro nel nuovo d. lgs. n. 81/2008. - PARTE II. La specifica tutela del lavoro flessibile. La valutazione dei rischi per l’assunzione di lavoratori flessibili e le misure di tutela contrattualmente previste. – II. 1. Premessa. - II. 2. Tutela della salute e “nuovo” mercato del lavoro. Prima del d. lgs. n. 81/2008. I divieti di utilizzazione dei lavoratori flessibili per mancata effettuazione della valutazione dei rischi. – II. 3. Sulle specifiche figure di lavoro flessibile. La somministrazione, il distacco e il lavoro ripartito. - II. 4. (segue:) Il lavoro parasubordinato e il lavoro autonomo, il lavoro occasionale e accessorio, il lavoro a domicilio. - II.5. (segue:) Il telelavoro.


PARTE PRIMA.

I.1. Premessa. La flessibilità tipologica come “rischio aggiuntivo” per la salute e la sicurezza dei lavoratori, tra subordinazione e autonomia

La nozione richiamata nel titolo della relazione – le “nuove figure” del mercato del lavoro –, almeno nella lettura che ho inteso qui attribuirle, è un concetto evocativo di un fenomeno che si è andato diffondendo in maniera sempre più rilevante con il passare degli anni: quello della proliferazione di nuove tipologie di lavoratori vincolati da contratti di natura sia subordinata sia autonoma che si sono negli anni aggiunte al (ancora) tipico contratto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato.

Per dirla in altro modo, le nuove figure su cui rifletteremo, sono quelle dei c.d. lavoratori flessibili, vincolati all’impresa da un contratto di lavoro non stabile, temporalmente limitato nel tempo, con tutto ciò che non la stabilità comporta rispetto alla migliore tutela della salute e sicurezza da assicurare nei luoghi di lavoro.

Studi e statistiche ci documentano, infatti, come siano significativamente maggiori i rischi che tutti i lavoratori flessibili, in forme ovviamente differenti, corrono rispetto ai lavoratori a tempo pieno ed indeterminato che svolgono le stesse mansioni, a causa della particolare natura del loro rapporto di lavoro, dunque del tutto indipendentemente dall’oggettiva pericolosità della prestazione che sono tenuti a rendere. Il lavoratore temporaneamente inserito in azienda mancherebbe della naturale attitudine che si acquisisce vivendo in un determinato contesto col percepire quali siano i comportamenti necessari da adottare per far fronte a situazioni di pericolo o di emergenza.

Considerando poi che i rischi specifici connessi all’assunzione dei lavoratori flessibili ricadono su tutti coloro che operano nell’ambiente di lavoro in cui i primi sono temporaneamente inseriti, l’assunzione di lavoratori flessibili concorre a determinare, dunque, una situazione complessiva di maggior rischio organizzativo, che esige di essere opportunamente governata da parte dei datori di lavoro.

Con il costante progressivo aumento delle percentuali di utilizzo delle forme di assunzione flessibile verificatasi in tutti i paesi europei soprattutto nell’ultimo decennio, la “relazione pericolosa” tra flessibilità occupazionale e non adeguate condizioni di sicurezza lavorativa è notevolmente aumentata, visti i molti nuovi contratti flessibili che possono oggi essere e che sono legittimamente utilizzabili dalle imprese. Da qui nasce la necessità di riflettere su come sia possibile assicurare a tutti i lavoratori, indipendentemente dal tipo di contratto mediante il quale sono stati assunti, le stesse condizioni sostanziali di sicurezza nello svolgimento della prestazione lavorativa.

Dobbiamo peraltro tenere almeno parzialmente distinta la riflessione sui lavoratori flessibili subordinati da quelli autonomi. Almeno per quanto riguarda i lavori flessibili subordinati[1], non è mai stata messa in discussione l’applicabilità delle norme prevenzionali di derivazione comunitaria o di fonte nazionale vigenti in materia. Nel caso dei lavoratori flessibili subordinati, il vero problema è che il solo rivendicare l’applicazione pur doverosa del principio di parità di trattamento rispetto ai lavoratori “stabilmente occupati” non è sufficiente ad assicurare una reale condizione di uguaglianza di tutele in materia di salute e sicurezza, essendo necessario integrare le norme di prevenzione previste per il contratto di lavoro a tempo indeterminato con specifiche disposizioni che consentano di dare risposta alla condizione di maggior rischio in cui i lavoratori flessibili vengono a trovarsi a causa della natura temporanea del loro rapporto.

Per quanto riguarda i lavori autonomi[2] (prima ancora che i per lavori flessibili di natura autonoma su cui avremo modo di occuparci adeguatamente in seguito), i segnali di protezione inviati dall’ordinamento italiano sono stati del tutto episodici e, sotto il profilo qualitativo, sostanzialmente limitati al riconoscimento di diritti d’informazione. Possiamo, ad esempio, ricordare: l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 277 del 1991, che ribadisce i doveri d’informazione di datori, dirigenti e preposti, orientandoli sulla nocività dei fattori chimici, fisici e biologici; l’art. 7 d.lgs. n. 626 del 1994, che, come noto, si applicava in presenza dell’affidamento di un appalto all’interno dell’azienda, o di una singola unità produttiva, nonché “nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima”; il d.lgs. n. 494 del 1996 (e successive modificazioni), che prevedeva l’estensione ai lavoratori autonomi di alcune disposizioni in materia di attrezzature di lavoro e di dispositivi di protezione per quanto riguarda la sicurezza nei cantieri temporanei o mobili, tenuto conto del fatto che essi, come precisato dall’undicesimo considerando, possono con le loro attività mettere in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori. Ma su questo tema, faccio rinvio ai lavori di questo pomeriggio, alle relazioni che saranno tenute dall’ ing. Masi e dalla prof. Lazzari.

Di certo, al di là di provvedimenti specifici, occorre preliminarmente segnalare che anche la stessa Carta costituzione, nonostante per molti aspetti abbia considerato in via principale il lavoro dipendente, non ha tuttavia mancato di individuare spazi sufficienti per comprendere ed assicurare adeguate garanzie anche alle nuove forme di lavoro autonomo. Lo si evince non soltanto dall’ 35 (La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni), ma, in varia misura, lo si desume anche dall’art. 38 (che tutela il lavoratore inabile, il lavoratore malato od infortunato, assicurando mantenimento ed assistenza) e dall’art. 2 (La Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo), essendo altresì possibile richiamare lo stesso art. 3, comma 2, sull’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini, norma cardine del nostro sistema giuslavoristico. Naturalmente, sarà necessario apprezzare in che modo possano e debbano atteggiarsi le garanzie fondamentali, a seconda delle svariate tipologie contrattuali legittimamente utilizzabili nel nostro ordinamento giuridico, in particolare di quelle flessibili di cui qui ci interessiamo, ovvero quelle dei lavoratori parasubordinati, delle collaborazioni coordinate e continuative nelle pubbliche amministrazioni, nonché dei lavoratori a progetto.

Per il vero, relativamente ai lavoratori flessibili subordinati che ai lavoratori flessibili autonomi, l’aspetto rilevante è che le misure di tutela che vanno adottate siano “adeguate” ed efficaci, ovvero appropiate alla luce delle peculiari esigenze di sicurezza, determinate in ragione anche delle particolari modalità di svolgimento della prestazione. In altri termini, l’attribuzione di garanzie effettive – e non meramente formali – al di fuori dell’area cui le stesse sono state tradizionalmente imputate non può derivare solo dall’applicazione, pura e semplice, della regola della parità di trattamento come si è già adeguatamente sostenuto, dovendosi per l’appunto considerare i rischi aggiuntivi e specifici connessi, in primo luogo, proprio alla natura ed alla struttura dei rapporti di lavoro che si vogliono tutelare .


I. 2. Flessibilità vs/ sicurezza tra diritto interno e comunitario

Per lo specifico tema che siamo chiamati ad affrontare, non è possibile prescindere da alcuni brevi cenni al diritto comunitario. Com’è a tutti noto, i principi del diritto comunitario, definiscono la cornice entro cui può esplicarsi la piena sovranità legislativa degli stati membri, i quali devono attuare le direttive comunitarie e non possono introdurre disposizioni di tutela “al ribasso” rispetto al livello imposto dall’Unione europea.

Della necessità di dettare disposizioni di tutela specifica per i lavoratori flessibili subordinati, il legislatore comunitario si era reso ben conto fin dal 1991, quando era riuscito non senza difficoltà ad approvare la direttiva CE n. 383/91. Tale direttiva, come recita il suo settimo considerando, assume la funzione di “normativa complementare” rispetto alle disposizioni della direttiva-quadro CE n. 391/89, essendo espressamente destinata a dettare una tutela ad hoc in grado di tener conto della particolarità dei rischi in caso di coinvolgimento di lavoratori assunti con contratto di durata determinata o con rapporto di lavoro interinale.

I contenuti di tutela differenziata espressamente previsti – soprattutto in tema di informazione, formazione e facoltà degli Stati membri di vietare o di sottoporre a sorveglianza speciale l’utilizzo di tali contratti per lavorazioni considerate pericolose – sono in concreto assai limitati. Alla direttiva CE n. 383/91, tuttavia, va almeno riconosciuto il merito di aver chiamato gli stati membri a prevedere misure aggiuntive per i lavoratori flessibili (subordinati) rispetto a quelle dettate per gli altri lavoratori.

In Italia, il recepimento della direttiva 383/91 è formalmente avvenuto con il d.lgs. n. 242 del 1996, il decreto che ha cercato di agevolare l’adempimento di alcuni obblighi di sicurezza per le piccole e medie imprese. In concreto, però, soltanto con l’emanazione della l. n. 196 del 1997, il nostro legislatore si è davvero assunto il compito di dettare norme per assicurare specifiche misure di tutela prevenzionistica dei lavoratori flessibili.

Soltanto con le norme di tutela della salute e sicurezza per i lavoratori flessibili contenute nel d.lgs. n. 276 del 2003 di attuazione della legge n. 30/03, la c.d. Legge Biagi, si realizza un corpus di disposizioni più compiuto ed efficace per i lavoratori assunti con contratti di lavoro flessibile, anche di natura autonoma, su cui avremo ampiamente modo di ritornare.

Per quanto riguarda il tema della salute e sicurezza del lavoro autonomo nell’ordinamento comunitario, mi limiterei qui soltanto a segnalare la direttiva 92/57/CE (richiamata, ma abbastanza impropriamente per i motivi che si diranno tra breve, anche nella Raccomandazione 2003/134/CE ), attuata nel nostro ordinamento dal d.lgs. n. 494 del 1996 sui cantieri temporanei e mobili di cui si è già detto.

Ad onor del vero, la ratio di tale direttiva non è tanto la tutela dell’integrità fisica dei prestatori d’opera autonomi, benché essa in concreto finisca con il produrre anche questo effetto, ma piuttosto l’esigenza di garantire le legittime aspettative di sicurezza e di salute dei lavoratori dipendenti, la cui attività può interferire con quella dei prestatori non subordinati presenti in cantiere. Meritevole di segnalazione è anche la Raccomandazione 2003/134/CE che, finalmente, si pone come suo obiettivo prioritario quello di definire misure di tutela che garantiscano la sicurezza del lavoro autonomo, evidentemente concepito non più quale mero fattore di rischio aggiuntivo per l’ambiente di lavoro, ma ritenuto meritevole di protezione ex se.


I. 3. I lavori flessibili prima e dopo l’emanazione del d. lgs. n. 81/2008. Qualche cenno alla forte vocazione “universalistica” della tutela prevenzionistica sui luoghi di lavoro nel nuovo TU

Come noto, il d. lgs. n. 276/03 ha introdotto molte nuove fattispecie di lavoro flessibile che sono andate ad aggiungersi alla tradizionale storica figura del contratto di lavoro a tempo determinato, in verità poco prima ridisciplinato dal d. lgs. n. 368/2001, in attuazione di una specifica direttiva comunitaria. Tra gli altri, il decreto 276 ha espressamente regolamentato il contratto di somministrazione a tempo determinato e a tempo indeterminato (abrogando il lavoro interinale introdotto nel 1997[3]), il contratto di lavoro intermittente[4], il lavoro a progetto[5] e il lavoro ripartito[6].

Non è questa la sede per esprimere valutazioni sulla politica del diritto attuata attraverso l’emanazione del d. lgs. n. 276/03, se non ricordando la critica diffusa avanzata dalla dottrina più autorevole in merito all’introduzione tanto massiccia di forme alternative di lavoro flessibile, in considerazione degli effetti in termini di precarizzazione economica e sociale che si sono poi concretamente prodotti.

Peraltro, a conferma della rilevanza di tali critiche, richiamo, soltanto o per completezza di informazione, che la legge n. 247/2007, in attuazione del Protocollo sul Welfare, è intervenuta pesantemente sul quadro degli istituti di flessibilità contrattuale delineato dal decreto n. 276/2003. Essa, infatti, ha abrogato interamente sia il contratto di somministrazione a tempo indeterminato, detto anche staff-leasing, sia il lavoro intermittente, consentendo al posto di quest’ultimo, mediante il ricorso alla contrattazione collettiva, la possibilità di stipulare specifici contratti a prestazioni discontinue soltanto per i settori dello spettacolo e del turismo. La legge n. 247/2007 è altresì intervenuta in modo rilevante sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato[7], non disciplinato nel decreto 276/03, rendendone più restrittivo ed oneroso l’utilizzo da parte delle imprese.

Nonostante sia intervenuta così fortemente sul decreto 276/03, la legge 247/07 non ha invece detto alcunché sui profili strettamente inerenti la salute e sicurezza dei lavoratori, ma, a ben vedere, sarebbe stato irragionevole attendersi un qualche intervento in tal senso, essendo già allora vigente la legge n. 123/2007, che aveva dato delega al governo di emanare i decreti legislativi inerenti il c.d. “Testo unico” della sicurezza sul lavoro.

Non vi sorprenda l’insistenza con cui chiamo in causa il decreto legislativo 276/03. E’ vero che siamo qui convenuti per analizzare le nuove misure introdotte dal d. lgs. n. 81/2008; tuttavia, tra queste e le disposizioni contenute nel 276/03, i legami sono molto stretti, più di quanto sarebbe possibile a prima vista pensare, come sarà ben dimostrato in seguito.

Peraltro, prima di passare al una pur molto sommaria valutazione delle nuove misure adottate per la tutela del lavoro flessibile, per comprendere davvero il tipo di attenzione che il nuovo d. lgs. n. 81/2008 riserva a questa complessa e delicata problematica, occorre richiamare alcuni principi già illustrati dal prof. Paolo Pascucci. Mi riferisco a due aspetti determinanti e tra loro strettamente collegati. Il primo attiene al c.d. campo di applicazione soggettiva delle norme nuove, vale a dire a chi si applicano le nuove norme; il secondo alla “nuova” più ampia definizione” di lavoratore. Su entrambi i temi ho il piacere di segnalarvi l’ampio studio, a firma del prof. Pascucci, che è pubblicato anche su Olympus (www.uniur.it/olympus) – l’Osservatorio sulla legislazione e sulla giurisprudenza sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro istituito presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” – dal quale ho recuperato molti spunti relativi ad aspetti e riflessioni che andremo qui a condividere.

Per il primo aspetto, il campo di applicazione soggettiva, occorre prendere in considerazione l’art. 3 del decreto, combinandone peraltro la lettura con parte dell’art. 2 e con l’art. 4.

Ricordo che sull’ampliamento del campo di applicazione delle nuove norme molto aveva insistito l’art. 1 della l. n. 123 del 2007, sia al primo comma, là dove si evocano le “differenze di genere” e la “condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”, sia nel secondo comma, quando nell’indicare i criteri di delega, si chiede di applicare il TU “a tutti i lavoratori e lavoratrici, autonomi e subordinati, nonché ai soggetti ad essi equiparati, prevedendo misure di particolare tutela per determinate categorie di lavoratori e lavoratrici e per specifiche tipologie di lavoro o settori di attività, ma anche adeguati strumenti per i lavoratori autonomi, in relazione ai rischi propri delle attività svolte e secondo i principi della raccomandazione 2003/134/CE del Consiglio, del 18 febbraio 2003”.

Questi principi direttivi sembrano essere stati correttamente recepiti nell’art. 1, comma 1 del d. lgs. n. 81/2008 (dove, oltre alle “differenze di genere” ed alla “condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”, si richiama l’“età”) e nell’art. 3, espressamente dedicato al campo di applicazione del decreto. Per il vero possono essere richiamate anche alcune disposizioni più specifiche, quali: l’art. 21, dedicato alla protezione dei componenti dell’impresa familiare e dei lavoratori autonomi (art. 230 bis c.c.); l’art. 28, là dove prevede che la valutazione dei rischi deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi; gli artt. 36 (informazione dei lavoratori), comma 4, e 37 (Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti), comma 13, i quali, per quanto concerne l’informazione e la formazione dei lavoratori immigrati, sottolineano l’esigenza della previa verifica della comprensione e conoscenza della lingua utilizzata.

Peraltro, e vengo così ad affrontare il secondo aspetto, la vocazione universalistica della nuove norme, si coglie nella stessa definizione di lavoratore contenuta nell’art. 2, lett. a), secondo cui è lavoratore la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari.

Un concetto, quindi, ben più ampio sia di quello espresso dall’art. 2, lett. a, del d.lgs. n. 626 del 1994, che si riferiva alla persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro con rapporto di lavoro subordinato anche speciale, sia di quello contenuto nell’art. 3 della Direttiva n. 89/391/CEE che, riferendosi a qualsiasi persona impiegata da un datore di lavoro, sembrerebbe limitarsi al solo lavoro subordinato.

La scelta compiuta dal legislatore delegato è pienamente condivisibile. In materia di sicurezza del lavoro, il lavoratore non rappresenta soltanto il soggetto destinatario della tutela, ma è anche colui sul quale gravano responsabilità presidiate da sanzioni, anche di tipo penale. Nella nozione di “lavoratore” devono dunque potersi riconoscere tutti i soggetti che il datore di lavoro coinvolge funzionalmente nel proprio ambito organizzativo, e di cui egli utilizza le prestazioni lavorative per il perseguimento dei propri scopi. Fatta eccezione per il lavoro domestico[8], vengono dunque presi in considerazione non soltanto i lavoratori subordinati - al di là delle varie tipologie di contratto di lavoro subordinato stipulato: contratto a termine, lavoro ripartito, lavoro a chiamata, lavoro - , ma anche i lavoratori che, pur non essendo formalmente dipendenti, siano tuttavia assoggettati al potere direttivo (come nel caso dei lavoratori somministrati), nonché i lavoratori che abbiano sì stipulato un contratto di lavoro autonomo, ma la cui prestazione lavorativa, inserita nell’organizzazione datoriale, li espone potenzialmente ai rischi per la loro salute e sicurezza derivanti dall’attività svolta dal datore di lavoro (come avviene nell’ipoteso del lavoro a progetto).

Al lavoratore come individuato, la legge equipara una lunga serie di figure, estendone anche ad esse le tutele: il socio lavoratore di cooperativa o di società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e dell’ente stesso, nonché l’associato in partecipazione di cui all’art. 2549 c.c.; il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all’art. 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196 e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro; l’allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, nonché le apparecchiature fornite di videoterminali e precisandosi che l’equiparazione vale limitatamente ai periodi in cui l’allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione; il “volontario”, ex l. 1 agosto 1991, n. 266, quello del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco e della protezione civile, quello che effettua il c.d. servizio civile, nonché i lavoratori socialmente utili.

 

PARTE II. La specifica tutela del lavoro flessibile. La valutazione dei rischi per l’assunzione di lavoratori flessibili e le misure di tutela contrattualmente previste.

II.1. Premessa

Come si è avuto modo di chiarire, in buona sostanza, mediante l’ampia nozione di lavoratore e tramite la tecnica delle equiparazioni, si arriva a comprendere nell’ambito di applicazione del decreto tutte le tipologie contrattuali autonome o subordinate, atipiche e flessibili, nonché del lavoro “fuori mercato” (cosiddetto “non lavoro”), ivi compreso il “volontariato”.

L’applicazione a tali soggetti, senza distinzione di genere, risulta poi confermata nell’art. 3, comma 4, del d. lgs. n. 81/2008, relativo al campo di applicazione, peraltro nel rispetto di quanto previsto nei suoi successivi commi.

Per quanto concerne le tipologie contrattuali flessibili che a noi interessa qui analizzare, il decreto delegato, purtroppo, pare aver seguito una soluzione minimalista; infatti, esso estende (e non sempre in toto) alle tipologie contrattuali flessibili le tutele previste per il lavoro subordinato a tempo indeterminato e full time, laddove sarebbe stato più opportuno prevedere specifiche misure di protezione in ragione della discontinuità e della frammentazione che caratterizza i cosiddetti “nuovi lavori”.

In verità, ad una lettura più attenta si possono ricavare indicazioni più puntuali a proposito delle misure di protezione previste per tali fattispecie. Vorrei provare a sviluppare questa lettura attraverso due distinti percorsi di approfondimento. Il primo percorso riguarda il tema dei divieti di utilizzazione dei lavoratori flessibili per mancata effettuazione della valutazione dei rischi; il secondo percorso riguarda le singole figure di lavori flessibili, rispetto alle quali cercherò di illustrare sommariamente alcune delle principali misure di protezione previste dal d. lgs. n. 81/2008.

 

II. 2. Tutela della salute e “nuovo” mercato del lavoro. Prima del d. lgs. n. 81/2008. I divieti di utilizzazione dei lavoratori flessibili per mancata effettuazione della valutazione dei rischi

Dei nessi che legano le norme del mercato del lavoro – rappresentate in particolare, dal d. lgs. n. 276/03, ma anche dal d. lgs. n. 368/01 in tema di contratto di lavoro a tempo determinato - e la specifica disciplina di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, prima dettata dal decreto 626/04 e ora dal d. lgs. n. 81/2008, forse il più significativo è rappresentato dal divieto di utilizzare lavoratori flessibili (già disposto dall’art. 1, comma 4, lett. e, della l. n. 196/97, per il contratto di lavoro interinale) per tutte le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.

L’obiettivo perseguito dal legislatore con l’introduzione di tale divieto è sicuramente quello di cercare di inserire il lavoratore flessibile, di per sé ancora più svantaggiato sotto il profilo della tutela della salute e sicurezza, in un contesto produttivo e organizzativo affidabile. Un giudizio di “affidabilità” dell’ambiente in cui si svolge la prestazione di lavoro che viene strettamente posto in relazione all’adempimento dell’obbligo che è il vero pilastro su cui ruota l’intera gestione della salute e sicurezza in azienda, e cioè la valutazione dei rischi.

La valutazione dei rischi è, infatti, l’adempimento che più di ogni altro rappresenta, già nel d. lgs. 626/94, il fulcro su cui ruota il sistema di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro: soltanto grazie ad un costante monitoraggio delle condizioni aziendali, possono essere individuate le azioni di prevenzione da utilizzare e può esserne adeguatamente pianificata l’attuazione. Come tutti ben sapete, si tratta di una valutazione non astratta che deve tradursi in un documento scritto in cui si programmano le misure di intervento più opportune: un documento da conservare in azienda, da aggiornare a fronte di significative modifiche del processo produttivo e, soprattutto, da integrare con l’eventuale documentazione attestante la valutazione di rischi particolari (lavoratrici madri, giovani lavoratori, lavoro ai videoterminali, protezione da agenti chimici).

Valutazione dei rischi e documento di valutazione, almeno funzionalmente, si configurano come momenti inscindibili di un unico fondamentale obbligo cui il datore di lavoro è tenuto, obbligo che può essere realmente assolto soltanto attraverso il coinvolgimento e la collaborazione di tutte le figure aziendali che svolgono un ruolo determinante nell’ambito del sistema prevenzionale, come oggi prevedono puntualmente e dettagliatamente gli artt. 28 e ss. del decreto n. 81/2008.

Per quanto riguarda i lavoratori flessibili, ma ciò vale per tutti i c.d. “gruppi sensibili di lavoratori soggetti a rischi specifici (donne, lavoratori minorenni), per poter superare legittimamente un tale divieto, l’attività di valutazione che il datore dovrà compiere richiede un’attenta indagine dei rischi specifici che vi sono connessi, distinti per tipologia contrattuale, contestualizzati alle caratteristiche dimensionali ed organizzative dell’ambiente di lavoro ed all’attività produttiva che vi si svolge. Tale indagine dovrà essere poi integrata dall’individuazione delle concrete misure di prevenzione e protezione che le risultanze della valutazione abbiano indicato come necessarie. In quanto valutazione specifica di rischio, gli esiti della stessa dovranno adeguatamente risultare nel documento di valutazione, sia come puntuale attestazione dell’ attività effettivamente svolta, sia come individuazione delle misure e della loro attuazione programmata.

Insomma, il datore di lavoro deve, in relazione alla natura dell’attività dell’azienda, valutare tutti i rischi per la sicurezza dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, dunque anche i lavoratori flessibili; una valutazione completa ed adeguata che deve risultare da un documento di valutazione articolato e completo.

Purtroppo, sotto l’egida del d.lgs. n. 626/94, l’effettività e l’efficacia del modello prevenzionale appena descritto, imperniato sulla valutazione dei rischi, sono state compromesse da due misure che intervengono a ridurre la portata dei descritti obblighi.

La prima misura riguarda le aziende familiari e le piccolissime imprese che hanno fino a dieci dipendenti, non sono soggette a particolari fattori di rischio; esse possono evitare la redazione del documento di valutazione del rischio mediante una autocertificazione nella quale attestare di aver effettuato la valutazione dei rischi. La seconda misura concerne le piccole e medie imprese che, in base al decreto ministeriale 5 dicembre 1996, possono elaborare un documento di valutazione dei rischi secondo procedure standardizzate e semplificate.

L’effetto combinato di queste disposizioni di alleggerimento degli obblighi documentali dei datori di lavoro, calate su un sistema produttivo composto prevalentemente di medie, piccole e piccolissime imprese, purtroppo non governato da una rete efficiente di servizi di vigilanza e di controllo, è stato quello di trasformare gli obblighi di valutazione dei rischi e di redazione dei relativi documenti in meri oneri burocratici di redazione di un modulo o, peggio ancora, nella predisposizione di una semplice formale autocertificazione.

Viene pertanto da chiedersi che tipo di effettività possano avere i divieti di assumere lavoratori flessibili per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi previsto dal d.lgs. n. 276 del 2003 e, ancora, come possa in concreto accertarsi che l’eventuale valutazione sia stata svolta in modo completo ed adeguato rispetto a questo specifico profilo di rischio.

Fino all’emanazione del decreto 81/2008, dunque, per quanto riguarda l’aspetto prevenzionale, l’impatto dei divieti di assumere lavoratori flessibili subordinati in mancanza di una idonea valutazione dei rischi è stato pressoché irrilevante, non essendo operante alcun meccanismo di controllo di tipo “istituzionale” che, prima che i lavoratori flessibili siano inseriti nell’ambiente di lavoro, preveda una qualche forma di verifica e di controllo effettivo del sistema di sicurezza aziendale.

Ma è cambiato qualcosa sulla questione illustrata con l’entrata in vigore del d. lgs. n. 81/2008?

Il d. lgs. 81/2008 disciplina la valutazione dei rischi la Sezione II del Capo III, nella quale si disciplinano in dettaglio le modalità e il contenuto. L’art. 28 disciplina l’oggetto della valutazione dei rischi, riferendosi anche ai gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui quelli collegati allo stress lavoro-correlato, quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 151 del 2001, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi. Purtroppo, non si fa alcuna menzione ai rischi particolari connessi alle tipologie negoziali flessibili, che potrebbero forse essere “recuperati” grazie alla previsione di cui allo stesso art. 28, comma 2, lett. f, ai sensi della quale si richiede che la valutazione contenga l’individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione ed addestramento.

A ben vedere, tuttavia, anche tale disposto si rivela non pienamente soddisfacente. Come si è già avuto modo di sostenere, il maggior rischio per il lavoratore flessibile non deriva tanto dal tipo di attività effettivamente svolta, ma dalla natura stessa del contratto, che determina un inserimento soltanto temporaneo nei luoghi di lavoro, con limiti evidenti di conoscenza del modello organizzativo e delle necessarie sinergie con gli altri lavoratori presenti. Ovviamente, se l’interpretazione della citata disposizione fosse quella di ritenere che in dette mansioni, quelle cioè che espongono a rischi specifici non va consentita l’assunzione di lavoratori flessibili, di certo la portata della norma sarebbe di forte impatto, alla stregua di quanto aveva fatto già il legislatore del c.d. Pacchetto Treu nel 1997, vietando l’assunzione di lavoratori interinali in mansioni pericolose soggette a sorveglianza sanitaria o individuate come tali dalla contrattazione collettiva.

Peraltro, nonostante il mancato esplicito riferimento normativo ai lavoratori flessibili, nessun dubbio avrei nel sostenere che, vista l’assoluta centralità che la valutazione dei rischi continua a rivestire nel modello prevenzionale del decreto n. 81/2008 e l’allargamento incontestabile dell’ambito di applicazione delle nuove norme, la completezza e l’adeguatezza della valutazione dei rischi esigano, a pena di sanzione, che si debbano apprezzare con assoluto rigore tutti i maggiori rischi derivanti dall’assunzione dei lavoratori flessibili e si definiscano le misure atte a contenerli.

E per quanto riguarda la criticità relativa alle imprese di minori dimensioni, per le quali il d. lgs. 626/94 consentiva di autocertificare l’assolvimento dell’obbligo della valutazione dei rischi, che è successo con il d. lgs. n. 81/2008?

Pur compromissoria, la soluzione accolta dal legislatore del 2008 per i datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori costituisce un passo in avanti: lascia sopravvivere la procedura autocertificatoria ma solo temporaneamente, vale a dire fino a che non siano disponibili procedure standardizzate di valutazione dei rischi. Tali procedure standardizzate dovranno essere elaborate dalla Commissione consultiva permanente tenendo conto dei profili di rischio e degli indici infortunistici di settore e recepite in decreti ministeriali. Fino ad allora, i datori di lavoro che occupano fino a 10 dipendenti potranno continuare ad autocertificare l’avvenuto adempimento del loro obbligo prevenzionale (ma non oltre il 2012). Dunque, salvo improbabili ripensamenti, almeno per un bel po’ di anni, anche da questo punto di vista, tutto resta immutato.

Questa previsione, tuttavia, non si applica per alcune attività connotate da particolare pericolosità, in piena attuazione dei criteri di delega (art. 1, comma 2, lett. c, n. 1, della l. n. 123 del 2007) che chiedevano misure di particolare tutela per determinate categorie di lavoratori e lavoratrici e per specifiche tipologie di lavoro o settori di attività.

 

II. 3. Sulle specifiche figure di lavoro flessibile. La somministrazione, il distacco e il lavoro ripartito

Passiamo ora al secondo percorso di approfondimento, quello relativo alle specifiche misure di tutela previste per i principali contratti flessibili, iniziando dalla somministrazione di lavoro[9].

Relativamente a questa tipologia contrattuale, il d.lgs. n. 81/2008 recupera la disciplina dettata dal d.lgs. n. 276 del 2003. Infatti, il comma 5 dell’art. 3, dopo aver confermato quanto specificamente previsto dall’art. 23, comma 5, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276[10], stabilisce che tutti gli obblighi di prevenzione e protezione previsti dal d.lgs. n. 81 del 2008 siano a carico dell’utilizzatore.

La norma del 2003 già accollava all’utilizzatore tutti gli obblighi di protezione previsti per i propri dipendenti, pur lasciando al somministratore quello di informazione sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale, nonché quello di formazione e addestramento all’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa, obbligo che può essere adempiuto anche dall’utilizzatore se lo prevede il contratto.

Dato che l’art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 276/2003 è fatto salvo dalla nuova disposizione del decreto 81/2008, che pone tutti gli obblighi di prevenzione a carico dell’utilizzatore, essa rischia di non produrre effetti, visto che l’art. 5 del decreto 276/03 consente la ripartizione di tali obblighi con il somministratore soltanto attraverso una disposizione contrattuale.

A ben vedere però, anche se il contratto di somministrazione non dovesse disporre alcunché in merito all’imputazione dell’obbligo di formazione e addestramento a carico dell’utilizzatore, parrebbe corretto ritenere che l’attività del somministratore non possa spingersi al di là di una informazione di carattere generale e di una formazione ed addestramento relativi soltanto all’uso delle attrezzature necessarie allo svolgimento della prestazione contrattuale.

Posto che la formazione e l’addestramento risulteranno più effettivi se impartiti dall’utilizzatore, la loro effettuazione da parte del somministratore non può esonerare l’utilizzatore da quanto previsto negli artt. 36 (informazione ai lavoratori) e 37 (formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti) del d.lgs. n. 81/2008.

Non si deve poi trascurare che l’art. 37, comma 5, del d.lgs. n. 81 del 2008 impone che l’addestramento venga effettuato da persona esperta (che certamente non può essere il somministratore) e sul luogo di lavoro (dell’utilizzatore); inoltre, ai sensi del comma 4, lett. a, seconda parte, della stessa norma, in caso di somministrazione di lavoro, la formazione e l’addestramento specifico (ove previsto) devono avvenire in occasione dell’inizio dell’utilizzazione. Dalla lettura combinata delle due norme emerge non soltanto che in capo all’utilizzatore continueranno a gravare gli obblighi di informazione e formazione per tutto quanto non richiamato dall’art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003, ma anche che soltanto a lui potrà competere l’effettuazione dell’addestramento all’uso delle attrezzature di lavoro.

A ben vedere, gli obblighi che l’art. 23, comma 5 del d.lgs. n. 276 del 2003 configura in capo al somministratore non sono altro che obblighi di sicurezza che si aggiungono a quelli propri relativi al rapporto tra lavoratore somministrato ed utilizzatore, il coinvolgimento dell’Agenzia di somministrazione non può mai sovvertire la posizione debitoria costruita in capo all’utilizzatore, ma soltanto supportarla in ragione delle specificità della fattispecie.

Il legislatore delegato non ha invece ritenuto opportuno reintrodurre il divieto previsto dall’art 1, comma 4, lett. f, della l. 24 giugno 1997, n. 196 abrogato dal d. lgs. n. 276/03, previsto a proposito della fornitura del lavoro temporaneo per le lavorazioni richiedenti sorveglianza medica speciale e per lavori particolarmente pericolosi, ferma ovviamente restando la possibilità di una eventuale introduzione di tale divieto da parte della contrattazione collettiva[11].

Peraltro, sempre nel silenzio del d. lgs. n. 81/2008, resta pienamente in vigore la previsione di cui all’art. 21, comma 1, lett. d, del d.lgs. n. 276 del 2003 che, fra gli elementi essenziali del contenuto del contratto di somministrazione, richiama anche la presenza di eventuali rischi per l’integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate, in base a quanto disposto nei contratti collettivi (art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003), dovendo i rischi e le relative misure essere comunicati per iscritto al lavoratore da parte del somministratore all’atto della stipulazione del contratto di lavoro, ovvero all’atto dell’invio presso l’utilizzatore (art. 21, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003).

Il comma 6 dell’art. 3 del d. lgs. 81/2008, fa riferimento ad un’altra fattispecie disciplinata dal d.lgs. n. 276 del 2003, e cioè al distacco[12], legificando quanto poteva già sostenersi in via interpretativa, nonostante qualche contrasto. Poiché l’art. 30 del d. lgs. n. 276/03 non prevede nulla a proposito della sicurezza del lavoratore distaccato, la nuova disposizione, riproducendo i principi prevenzionistici applicati alla somministrazione, conferma l’imposizione di obblighi di prevenzione e protezione in capo al distaccatario, fatto salvo l’obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato.

Nessuna disposizione il d.lgs. n. 81 del 2008 detta in merito al lavoro ripartito di cui all’art. 41 ss. del d.lgs. n. 276 del 2003[13]. Nel silenzio del legislatore, devono dunque considerarsi confermate le norme speciali (v. l’art. 42, comma 1, lett. c), del predetto decreto 276/03, ai sensi del quale le eventuali misure di sicurezza specifiche necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto debbono essere riportate in forma scritta nel contratto di lavoro a fini probatori.

 

II. 4. (segue:) Il lavoro parasubordinato e il lavoro autonomo, il lavoro occasionale e accessorio, il lavoro a domicilio

Il comma 7 dell’art. 3 del decreto n. 81/2008 si occupa dei c.d. lavoratori parasubordinati – intesi sia come lavoratori a progetto ex art. 61 e seguenti del d.lgs. n. 276 del 2003[14], sia come collaboratori coordinati e continuativi ex art. 409, n. 3, c.p.c. – nei confronti dei quali dispone l’applicabilità (integrale) delle sue norme, purché la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente.

Si tratta di una previsione che equipara agli effetti della sicurezza il lavoro subordinato a quello parasubordinato e che, in linea generale, va apprezzata perché riconosce un diritto fondamentale del lavoratore non condizionato dalla natura giuridica del suo rapporto di lavoro.

Non si tratta, tuttavia, di una disposizione particolarmente innovativa, poiché ripropone quanto previsto dall’art. 66, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003[15], che fra l’altro, dispone l’applicazione al lavoro a progetto delle norme sulla sicurezza e igiene del lavoro di cui al d.lgs. n. 626 del 1994 quando la prestazione lavorativa si svolge nei luoghi di lavoro del committente, in particolare per quanto concerne le tutele contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

L’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 81 del 2008 estende la tutela prevenzionistica anche alle collaborazioni coordinate e continuative non a progetto, le uniche possibili nell’ambito delle Pubbliche amministrazioni, dovendosi tra esse intendersi ricomprese anche le collaborazioni coordinate e continuative a carattere occasionale (di cui all’art. 61, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003[16].

Purtroppo, avendo il legislatore del decreto 81/2008 riproposto gli stessi contenuti già dettati dall’art. 66, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003 (v. art. 3, comma 7), esso non fa che confermare per un lavoratore sostanzialmente autonomo una normativa tarata sul lavoro subordinato, piuttosto che tentare, come sarebbe stato opportuno fare, di enucleare le disposizioni allo stesso rapporto realmente compatibili, attorno alle quali elaborare uno statuto protettivo ad hoc per il collaboratore a progetto”. Ovviamente, nulla esclude che, grazie anche al supporto della contrattazione collettiva si possa riuscire ad individuare una disciplina specifica, quale unica normativa nel caso in cui la prestazione del collaboratore a progetto non si svolga nei luoghi di lavoro del committente, e come normativa integrativa nel caso in cui la prestazione sia invece resa nei luoghi di lavoro del committente.

Resta certamente l’insoddisfazione per il mancato coraggio del legislatore di ricomprendere nella tutela prevenzionistica anche quei lavoratori parasubordinati, a progetto e non, che svolgano la prestazione in tutto o in parte al di fuori del luogo di lavoro del committente, un coraggio supportato da uno sforzo di elaborazione più articolato, da fondarsi non soltanto sulla nozione di luogo di lavoro, ma piuttosto sull’utilizzazione delle attrezzature fornite dal committente. E’ auspicabile che tale questione sia adeguatamente ripresa in sede di decretazione correttiva.

L’estensione del decreto al di fuori dei confini del lavoro subordinato non riguarda soltanto le varie forme di parasubordinazione, ma anche il lavoro autonomo tout court. L’art. 3, comma 11, del d. lgs. 81/2008, specifica che nei confronti dei lavoratori di cui all’art. 2222 c.c. si applicano le disposizioni di cui agli artt. 21 (Disposizioni relative ai componenti dell’impresa familiare e ai lavoratori autonomi) e 26 (Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione). Nella prima norma, il riferimento ha carattere generale; in base all’art. 3, comma 12, tutto ciò riguarda anche i componenti dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c., i piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c. ed i soci delle società semplici operanti nel settore agricolo. Nella seconda norma (l’art. 26), la tutela dei lavoratori autonomi ha carattere speciale in quanto si riferisce alle attività oggetto di contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione che vengono affidate ai lavoratori autonomi dal datore di lavoro all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa.

L’art. 3, comma 8, si occupa della tutela, in precedenza non contemplata, dei lavoratori che effettuano prestazioni occasionali di tipo accessorio, ex art. 70 ss. del d.lgs. n. 276 del 2003[17], nei confronti dei quali viene prevista l’applicazione delle norme del d.lgs. n. 81 del 2008 e di tutte le altre norme speciali vigenti in materia di sicurezza e tutela della salute. Restano esclusi i piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresi l’insegnamento privato supplementare, l’assistenza domiciliare ai bambini, agli anziani, agli ammalati e ai disabili (art. 70, comma 1, lett. a e b, del d.lgs. n. 276 del 2003).

Il legislatore delegato si è interessato anche ai lavoratori a domicilio di cui alla l. 18 dicembre 1973, n. 877 (nonché ai lavoratori che rientrano nel campo di applicazione del contratto collettivo dei proprietari di fabbricati), per i quali l’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 626 del 1994 prevedeva l’applicabilità delle proprie norme solo nei casi espressamente previsti (artt. 21 e 22))

La nuova previsione dell’art. 3, comma 9, del d.lgs. n. 81 del 2008, configurando in capo al datore di tali lavoratori gli obblighi di informazione e formazione di cui ai già citati artt. 36 e 37, ricalca quanto già previsto nel decreto n. 626/94. A ben vedere, però, il decreto n. 81/2008 impone al datore anche l’obbligo di fornire ai lavoratori a domicilio i necessari dispositivi di protezione individuali in relazione alle effettive mansioni assegnate, prevedendo che qualora fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo III. Questa previsione va salutata con favore: peraltro non va trascurato il fatto che, in materia di lavoro a domicilio, una più generale forma di tutela deriva dal divieto (di cui all’art. 2, comma 1, della l. n. 877 del 1973), relativo alle ipotesi di attività che comportino l’impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute e l’incolumità dei lavoratori e dei loro familiari.

 

II.5. (segue:) Il telelavoro

Il legislatore delegato, nell’art. 3, comma 10, ha inserito un’apposita previsione per i telelavoratori subordinati pubblici e privati - che il decreto identifica come lavoratori a distanza - purché effettuino in modo continuativo una prestazione di lavoro a distanza, mediante collegamento informatico e telematico[18]. Nella definizione rientrano anche i telelavoratori che svolgono la prestazione nel proprio domicilio, sia nel caso in cui siano tecnicamente inquadrabili come lavoratori subordinati ex art. 2094 c.c. sia che siano considerati come veri e propri lavoratori a domicilio ex legge n. 877/1973.

In ogni caso, ai telelavoratori subordinati si applicano le disposizioni di cui al Titolo VII (attrezzature munite di videoterminali: artt. 172-179), indipendentemente dall’ambito in cui si svolge la prestazione stessa (e, quindi, anche nel caso di telelavoro svolto in centri remoti ecc.).

Il d. lgs. n. 81/2008 dispone che qualora il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo IX (evidentemente con particolare riferimento al Capo IV contenente prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all’esposizione dei lavoratori dai rischi derivanti dai campi elettromagnetici). Inoltre, i telelavoratori saranno informati dal datore di lavoro circa le politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in particolare in ordine alle esigenze relative ai videoterminali ed applicano correttamente le direttive aziendali di sicurezza.

Per quanto riguarda l’obbligo di formazione, pur mancando un’esplicita previsione, essa pare superabile in base alle previsioni generali contenute nell’art. 15, comma 1, lett. n, (Misure generali di tutela) nell’art. 18, comma 1, lett. l (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente), e nell’art. 37 (Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti), nonché nella previsione specifica dettata nell’art. 177 (cfr., Titolo VII, Attrezzature munite di videoterminali, Informazione e formazione), in base alla quale il datore di lavoro è tenuto a fornire ai lavoratori informazioni, soprattutto per quanto riguarda le misure applicabili al posto di lavoro, le modalità di svolgimento dell’attività e la protezione degli occhi e della vista e, dall’altro lato, assicura una formazione adeguata in particolare per quanto concerne le misure applicabili al posto di lavoro.

Per verificare che il telelavoratore attui correttamente la normativa in materia di tutela della salute e sicurezza, il datore di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori e le autorità competenti potranno accedere al luogo in cui viene svolto il lavoro nei limiti della normativa nazionale e dei contratti collettivi, dovendo tale accesso essere ovviamente subordinato al preavviso ed al consenso del lavoratore qualora la prestazione sia svolta presso il suo domicilio. Lo stesso telelavoratore può peraltro chiedere che si svolgano apposite visite per controllare le condizioni di effettivo svolgimento in sicurezza della prestazione lavorativa.

Infine, accogliendosi una nozione ampia di salute e sicurezza, il datore di lavoro è chiamato a garantire l’adozione di misure dirette a prevenire l’isolamento del lavoratore a distanza rispetto agli altri lavoratori interni all’azienda, permettendogli di incontrarsi con i colleghi e di accedere alle informazioni dell’azienda, nel rispetto di regolamenti o accordi aziendali.

Una lacuna da segnalare, che potrebbero essere sanata dai decreti correttivi, riguarda la mancata considerazione dei telelavoratori parasubordinati, rispetto ai quali non è dato sapere quale effettivamente sia la disciplina applicabile in materia di salute e sicurezza, visto che la limitata previsione dell’art. 3, comma 10 è estesa al solo lavoro subordinato e quella dell’art. 3, comma 7, riguarda soltanto i lavoratori parasubordinati che svolgano la prestazione nei luoghi di lavoro del committente.

Ad onor del vero, considerato che il telelavoratore parasubordinato è necessariamente un lavoratore “a progetto”, si potrebbero ritenere comunque applicabili le eventuali misure di sicurezza indicare nel contratto ex art. 62, comma 1, lett. e, del d.lgs. n. 276/2003. Purtroppo, tale normativa non può essere invocabile nel settore pubblico, nel quale le collaborazioni parasubordinate non sono disciplinate dal d.lgs. n. 276 del 2003 e la disciplina legislativa, regolamentare e contrattuale del telelavoro è formalmente destinata soltanto ai telelavoratori subordinati.

In ogni caso, gli effetti della mancata menzione dei telavoratori parasubordinati (privati e pubblici) nell’art. 3, comma 10, potrebbero essere almeno in parte ridimensionati, specie per quanto riguarda gli standard minimali di tutela, dalla applicazione delle disposizioni del Titolo VII sui videoterminali, disposizioni comunque applicabili in ragione dell’art. 172, il quale dispone in via del tutto generica l’applicazione del Titolo VII alle attività lavorative che comportano l’uso di attrezzature munite di videoterminali in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali, dedotte le interruzioni.


Per approfondire:

ANGELINI L., Lavori flessibili e sicurezza nei luoghi di lavoro: una criticità da governare, in PASCUCCI P. (a cura di), Il Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, Atti del Convegno di Urbino (4 maggio 2007), Roma 2007, pp. 103-109

BIAGI M., TIRABOSCHI M., Lavoro atipico: profili qualificatori e intensità dell’obbligo di sicurezza, in Diritto delle relazioni industriali, 1999, p. 59

DE MARCO C., La gestione della sicurezza nel contratto di somministrazione e nel contratto di lavoro a progetto, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 2006, I, p. 379

IORIO A.R., Riforma del mercato del lavoro, forme di lavoro atipico e tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, in TIRABOSCHI M. (a cura di), La riforma Biagi del mercato del lavoro, Milano, Giuffrè, 2004, p. 304

LAI M., Flessibilità e sicurezza del lavoro, Torino, Giappichelli, 2006

LAI M., La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, in RUSCIANO M., NATULLO G. (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro, Commentario di Diritto del lavoro diretto da Carinci F., Vol. VIII, Utet, 2007, pp. 365-380

LAZZARI C., Brevi riflessioni in tema di tutela della salute e della sicurezza nel lavoro autonomo, in PASCUCCI P. (a cura di), Il Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, Atti del Convegno di Urbino (4 maggio 2007), Roma 2007, pp. 43-52

NATULLO G., Lavori temporanei e sicurezza del lavoro, in DE LUCA TAMAJO R., RUSCIANO M., ZOPPOLI L. (a cura di), Mercato del lavoro, riforma e vincoli di sistema, Napoli, Editoriale scien-tifica, 2004, p. 151

PASCUCCI P., Dopo la legge n. 123 del 2007. Prime osservazioni sul Titolo I del decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, in WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" .IT – 73/2008, ed anche in Olympus, olympus.uniurb.it;

PASCUCCI P. , Il rebus dell’effettività delle cosiddette “sanzioni civili indirette” in tema di sicurezza sul lavoro, in ID (a cura di), Il Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, Atti del Convegno di Urbino (4 maggio 2007), Roma 2007, pp. 43-52

SCIORTINO P., Flessibilità del lavoro e sicurezza sul lavoro: coesistenza o inconciliabilità?, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2002, p. 732

TIRABOSCHI M., Lavoro atipico e ambiente di lavoro: la trasposizione in Italia della Direttiva n. 91/383/CEE, in Diritto delle relazioni industriali, 1996, 3, p. 35


Note

1 E’ lavoro subordinato quello prestato dal lavoratore per conto e sotto la direzione del datore di lavoro dietro corrispettivo di una retribuzione, ex art. 2094 c.c.

2 Si ha lavoro autonomo quando una persona si obbliga a compiere, verso un corrispettivo, un’opera o un servizio, con lavoro proprio e senza vincoli di subordinazione, nei confronti di un determinato committente, art. 2222 c.c.

3 La somministrazione si realizza quando un qualsiasi soggetto economico, detto utilizzatore (datore individuale, impresa, ecc..) si rivolge ad un altro soggetto qualificato (agenzia di somministrazione) per la fornitura di determinate prestazioni di lavoro da dipendenti dello stesso somministratore, assunti a tempo determinato o a tempo indeterminato.

4 Col quale il lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro per il soddisfacimento di esigenze produttive di carattere discontinuo. Può essere stipulato a tempo determinato o indeterminato.

5 Il lavoratore a progetto (che è un lavoratore autonomo) assume l’obbligo di eseguire prestazioni di lavoro riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore (con attività continuativa, personale ed in assenza di subordinazione ex art. 409 n. 3 c.p.c.) in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.

6 E’ il contratto mediante il quale due o più lavoratori assumono in solido l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa. Ogni lavoratore è personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione: la ripartizione della stessa rileva soltanto nei loro rapporti interni.

7 Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato. E’ ammessa l’apposizione in forma scritta di un termine per far fronte ad esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

8 Trattasi di prestazione erogata per i bisogni personali e/o familiari del datore di lavoro, eseguita presso la sua abitazione, con vincolo di subordinazione e con controprestazioni fra le parti.

9 La somministrazione di lavoro si realizza quando un qualsiasi soggetto economico, detto utilizzatore (datore individuale, impresa, ecc..) si rivolge ad un altro soggetto qualificato (agenzia di somministrazione) per la fornitura di determinate prestazioni di lavoro, ora soltanto a tempo determinato, da dipendenti dello stesso somministratore.

10 Il somministratore informa i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale e li forma e addestra all'uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento della attività lavorativa per la quale essi vengono assunti in conformità alle disposizioni recate dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni ed integrazioni. Il contratto di somministrazione può prevedere che tale obbligo sia adempiuto dall'utilizzatore; in tale caso ne va fatta indicazione nel contratto con il lavoratore.

11 Nel caso in cui le mansioni cui e' adibito il prestatore di lavoro richiedano una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici, l'utilizzatore ne informa il lavoratore conformemente a quanto previsto dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni ed integrazioni. L'utilizzatore osserva altresì, nei confronti del medesimo prestatore, tutti gli obblighi di protezione previsti nei confronti dei propri dipendenti ed e' responsabile per la violazione degli obblighi di sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi.

12 Il distacco di lavoro si realizza quando un lavoratore, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. In tal caso, il datore di lavoro distaccante rimane comunque responsabile del trattamento economico e normativo del lavoratore.

13 Si ha lavoro ripartito quando il contratto prevede che due o più lavoratori assumino in solido l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa. Ogni lavoratore è personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione: la ripartizione della stessa rileva soltanto nei loro rapporti interni

14 Il lavoratore a progetto assume l’obbligo di eseguire prestazioni di lavoro riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore (con attività continuativa, personale ed in assenza di subordinazione ex art. 409 n. 3 c.p.c.) in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.

15 Per il quale, ai rapporti che rientrano nel campo di applicazione del presente capo si applicano le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modifiche e integrazioni, quando la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente, nonché le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

16 Per prestazioni occasionali, devono intendersi i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro.

17 Per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne, nell'ambito: a) dei piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa la assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap; b) dell'insegnamento privato supplementare; c) dei piccoli lavori di giardinaggio, nonche' di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti; d) della realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli; e) della collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà.

18 Il telelavoro è una forma di lavoro svolto a distanza, ovvero al di fuori dell’azienda e degli altri luoghi in cui tradizionalmente viene prestata l’attività lavorativa, ma, al contempo, funzionalmente e strutturalmente collegato ad essa grazie all’ausilio di strumenti di comunicazione informatici e telematici. Il telelavoro costituisce una particolare modalità di esecuzione della prestazione lavorativa nella quale, grazie al coordinamento informatico e telematico, la distanza con l’impresa madre è indifferente per la quantita e la qualità del lavoro prestata. Non configurandosi una tipologia contrattuale specifica, la qualificazione giuridica del telelavoro va dedotta di volta in volta a seconda del diverso contesto in cui viene a svolgersi il rapporto.