Cassazione Civile, Sez. Lav., 18 settembre 2013, n. 21344 - Mobbing e necessità di un intento persecutorio


 

 

Presidente Ianniello – Relatore Tricomi

 

 

 

Fatto

 


1. La Corte d'appello di Firenze, con la sentenza n. 1292 del novembre 2009, decideva sull'impugnazione proposta da P.R. nei confronti della società Poste italiane spa, avverso la sentenza non definitiva emessa dal Tribunale di Pisa il 2 dicembre 2005 / 31 gennaio 2006, n. 933, che aveva escluso la sussistenza del mobbing, con il conseguente rigetto delle relative domande risarcitorie comprensive del danno esistenziale, e aveva limitato al 40 per cento il danno patrimoniale per la dequalificazione professionale.
Anche la società Poste italiane spa impugnava la suddetta sentenza del Tribunale, ed appellava anche la sentenza definitiva n. 1028 del 19 dicembre 2007 / 5 marzo 2008 resa tra le stesse parti, in ordine al riconoscimento del danno biologico e morale da demansionamento in favore del lavoratore.
2. Con la sentenza resa dalla Corte d'Appello, che decideva sulle suddette impugnazioni come riunite, veniva parzialmente accolto l'appello incidentale della società Poste italiane avverso la sentenza parziale, rigettata la domanda di P.R. per il risarcimento del danno patrimoniale da dequalificazione e rigettato l'appello principale proposto da P.R. avverso la stessa sentenza. La sentenza del Tribunale veniva confermata nel resto.
Veniva, altresì, rigettato l'appello proposto dalla società Poste italiane avverso la sentenza definitiva del Tribunale di Pisa n. 1028 sopra richiamata.
Venivano compensate, per un mezzo, tra le parti, le spese del grado di appello, mentre P.R. veniva condannato a rifondere alla società Poste italiane la rimanente metà, come liquidata.
3. Il P. , dipendente della società Poste italiane, inquadrato in Q1, aveva adito il Tribunale lamentando di aver subito nell'ambiente di lavoro, a partire dal 2001 e ad opera di colleghi e superiori, un'azione di mobbing comprensiva di demansionamento, iniziato nel gennaio 2003, ed aveva quindi chiesto la reintegrazione in mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte, con il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale, nonché, per quanto attiene al solo demansionamento, pure di quello patrimoniale per la lesione della professionalità.
In particolare, all'esito della istruttoria testimoniale, il Tribunale con la suddetta sentenza parziale aveva escluso la sussistenza di un'ipotesi di mobbing, mentre aveva ravvisato il demansionamento, in relazione al quale aveva ordinato alla società datrice di lavoro di riassegnare al P. le mansioni in precedenza svolte o altre equivalenti, condannandola, altresì, a risarcirgli il danno patrimoniale, liquidato, in via equitativa, nella misura del 40 per cento della retribuzione globale di fatto per tutto il periodo del demansionamento fino alla predetta rassegnazione.
Il Tribunale, quindi, disponeva la prosecuzione del giudizio per l'accertamento degli eventuali ulteriori danni ed espletata CTU medico-legale, la quale evidenziava un danno biologico pari ad una menomazione dell'integrità psico-fisica in misura del 5 per cento, con la sentenza definitiva liquidava, in favore del lavoratore, la complessiva somma di Euro 5.722,59 a titolo di un danno biologico (Euro 4.292,00) e morale (Euro 1.430,59), mentre rigettava la domanda per danno esistenziale.
4. Per la cassazione delle suddetta sentenza resa in grado di appello ricorre P.R. , prospettando quattro motivi di ricorso.
5. Resiste con controricorso e ricorso incidentale, articolato in due motivi Poste italiane spa.
6. Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell'udienza pubblica.

 

Diritto

 


1. In via preliminare, deve essere disposta la riunione dei giudizi, sussistendone le previste condizioni.
2. Con il primo motivo di impugnazione è dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 cc (anche in riferimento a quanto previsto dall'art. 41 Cost.), per erronea ricognizione della fattispecie astratta di mobbing effettuata sulla base della ritenuta necessità di individuazione in concreto dell’animus nocendi (intento persecutorio). Il ricorrente censura la statuizione della sentenza d'appello con la quale si affermava che il mobbing non è solo un fenomeno medico-legale e, soprattutto, occorre che presenti profili di illegittima violazione di norme poste dall'ordinamento a tutela della dignità del lavoratore (art. 41, Cost., art. 2087 cc) per trovare un'autonoma rilevanza nell'assetto dei contrapposti obblighi delle parti nascenti dal rapporto di lavoro. In particolare, prosegue, la sentenza d'appello, non è sufficiente un soggettivo apprezzamento, da parte del lavoratore, quali vessatori e finalizzati ad estrometterlo da un determinato contesto lavorativo dei comportamenti posti in essere da superiori e colleghi, ma occorre che tali elementi di valutazione trovino oggettivo riscontro in fratti che manifestino ne comunque dimostrino l'intento persecutorio.
Ad avviso del P. , tale principio non trova riscontro nella giurisprudenza di legittimità (è citata la sentenza n. 12735 del 2008) secondo la quale la lettura dell'art. 2087 cc, ai fini dell'individuazione della fattispecie astratta di mobbing, non comporta, ed anzi esclude, la necessità di rinvenire nella fattispecie un "intento persecutorio".
3. Con il secondo motivo d'impugnazione è dedotta insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa il fatto controverso e decisivo della esistenza nel caso di specie di un'ipotesi di mobbing; erronea e carente ricognizione della fattispecie concreta, anche con riferimento alla sussistenza o meno di un "intento persecutorio".
I giudici di appello, pur avendo accertato la sussistenza di un grave caso di dequalificazione escludevano tale dato dalla valutazione di merito relativa alla esistenza o meno di un'ipotesi di mobbing, senza operare la necessaria valutazione complessiva della fattispecie.
Peraltro, i fatti prospettati nel ricorso introduttivo, antecedenti alla dequalificazione, consistenti in attacchi alla persona, attacchi alla situazione lavorativa già sostanziavano elementi identificatici di una condotta di mobbing, senza che di ciò si desse conto nella sentenza impugnata.
Ciò, nonostante la documentazione medica, nonché la CTU evidenziassero le difficoltà relazionali e l'ostilità originate nell'ambiente di lavoro.
4. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.
Occorre premettere che la sentenza richiamata dal ricorrente n. 12735 del 2008, afferma che “ritenendo il mobbing un fenomeno unitario caratterizzato dalla reiterazione e dalla sistematicità delle condotte lesive e dalla intenzionalità delle stesse in direzione del risultato perseguito di isolamento ed espulsione della vittima dal gruppo in cui è inserito, la Corte territoriale ne ha infatti escluso la ricorrenza per l'assenza di tali caratteristiche di reiterazione, sistematicità e intenzionalità delle condotte denunciate.
Senonché, il nostro Ordinamento giuridico non prevede una definizione nei termini indicati di condotte rappresentative del fenomeno mobbing, come un fatto pertanto tipico, a cui connettere conseguenze giuridiche anch'esse previste in maniera tipicizzata. Ciò che pertanto il ricorrente con l'espressione riassuntiva di mobbing riferita alle condotte del datore di lavoro poste in essere nei suoi confronti aveva sottoposto alla valutazione dei giudici di merito, ai fini del richiesto risarcimento dei danni, era la violazione da parte di tali condotte, considerate singolarmente e nel loro complesso, degli obblighi gravanti sull'imprenditore a norma dell'art. 2087 c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite per il relativo inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla necessaria presenza del dolo.
Con l'erronea motivazione adottata, la Corte territoriale ha pertanto omesso di valutare correttamente i fatti accertati, tra quelli denunciati dal dirigente, nell'ambito della fattispecie ipotizzata di inadempimento agli obblighi contrattuali stabiliti dall'art. 2087 c.c.”.
Il tenore di detta pronuncia può essere meglio chiarito richiamando al recente sentenza n. 18927 del 2012, che ha affermato: “fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate rientra il mobbing che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di questa Corte, designa (essendo stato mutuato da una branca dell'etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003).
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi: Cass. 21 maggio 2011 n. 12048; Cass. 26/3/2010 n. 7382).
Alla base della responsabilità per mobbing lavorativo si pone normalmente l'art. 2087 cod. civ., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
D'altra parte, come risulta dalla stessa definizione del fenomeno, se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accumunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati, di cui si è detto (arg. ex Cass. sez. 6 pen. 8 marzo 2006 n. 31413)”.
5. Alla luce delle argomentazioni delle sentenze richiamate, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, si può rilevare come non sia fondata la prospettazione del ricorrente, atteso che, nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale -pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.
6. Tanto premesso, va rilevato che la Corte d'Appello affermava da un lato che non poteva essere presa in considerazione la valutazione dei riflessi soggettivi dei fatti operata dal CTU, quali riferiti dal P. a cui tale valutazione non competeva, né poteva assumere rilievo la qualificazione giuridica che poteva ravvisarsi nelle indicazioni del CTU medesimo, dall'altro la mancanza dell'intento persecutorio, nei termini anzidetti; dall'altro, in aderenza alla giurisprudenza sopra richiamata, riteneva di condividere la compiuta disamina, effettuata dal Tribunale, dei singoli episodi di mobbing lamentati dal P. , perché finalizzata a valutare la sussistenza dell'intento discriminatorio, sia pure in rapporto ad un loro complessivo apprezzamento, che restava escluso dalle considerazioni riportate nella sentenza impugnata in ordine a detti episodi.
Dunque, la Corte d'Appello applicava i principi sopra richiamati nella loro completezza e cioè verificando la sussistenza della fattispecie di mobbing non solo in una visione unitaria del fenomeno connotato da un complessivo intento persecutorio ma con riguardo ai singoli episodi.
7. Con il terzo motivo di ricorso, è dedotta la nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115, cpc, con riferimento alla ritenuta decisiva pretesa allegazione di circostanze di fatto dalle quali ricavare l'esistenza di un danno patrimoniale conseguente alla dequalificazione. Omessa motivazione sulla idoneità dei fatti allegati ai fini della determinazione del danno patrimoniale da dequalificazione.
Assume il ricorrente che la Corte d'appello accoglieva l'impugnazione limitatamente alla statuizione inerente il riconoscimento e la liquidazione del danno patrimoniale determinato dal demansionamento.
I giudici di appello ritenevano di dover riformare la sentenza di primo grado in quanto il danno professionale sarebbe stato ravvisato ingiustamente - a fronte del solo demansionamento ed in assenza di ogni allegazione, da parte del lavoratore interessato, lì di specifiche circostanze di fatto da cui poterlo desumere.
Ad avviso del P. , invece, da una più attenta disamina dei fatti di causa, la Corte d'appello avrebbe potuto ricavare indicazioni ed elementi sufficienti al fine di riconoscere la sussistenza e l'entità del danno professionale in esame.
Da ciò la violazione delle regole processuali contenute nelle disposizioni richiamate, “corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato” e “giudizio iuxta alligata e probata partis”.
Ricorda, quindi, di aver analiticamente allegato ed elencato le variazioni e i comportamenti che avevano ridotto se non del tutto annullato la sua professionalità e immagine aziendale, riportando passi del ricorso stesso e che nel corso del giudizio di appello aveva ribadito quanto sopra.
8. Con il quarto motivo d'impugnazione è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cc, anche in relazione con quanto previsto dall'art. 2103 cc, per non avere dato attuazione alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità sul potere dovere del giudice, al cospetto di un accertato demansionamento, di presumere la esistenza di un danno patrimoniale da fatti allegati e dalle deduzioni contenute negli atti difensivi.
Ricorda il ricorrente come la prova del danno da demansionamento può essere fornita, anche ai sensi degli artt. 2727 e 2729, attraverso la deduzione di elementi di giudizio dai quali si possa presumere l'esistenza in concreto del suddetto danno. E, in tal senso, il Tribunale di Pisa, lungi dal ritenere la sussistenza del danno in re ipsa, aveva ritenuto provata, sia pure in via presuntiva, il suddetto danno. Analogamente, la Corte d'appello avrebbe dovuto attribuire rilievo ad una serie di circostanze (quali la durata del demansionamento, il tipo di professionalità colpita, le responsabilità sottratte, la posizione gerarchica persa, la perdita di premi ed incentivi, la mancata possibilità di carriera) dando atto di tali aspetti.
9. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.
Come si è accennato, il ricorrente, dopo avere riportato passi del ricorso introduttivo del giudizio (pag. 27-29), inseriva in ricorso (alle pagg. 29 - 32), un lungo scritto, a carattere e spaziatura ridotta rispetto alle altre parti del ricorso, a cui premette “Nel corso del giudizio di appello R..P. aveva ribadito quanto sopra, specificando quanto segue”.
In proposito va osservato, che come questa Corte ha già avuto modo di affermare, in tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all'art. 366 cpc, n. 3, la pedissequa riproduzione dell'intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso (Cass. n. 17168 del 2012; Cass., S.U., n. 56989 del 2012).
Tale principio trova applicazione nel caso di specie, ove, in particolare, il ricorrente si duole della ritenuta assenza, da parte della Corte d'appello (terzo motivo), di ogni allegazione di specifiche circostanze di fatto, e, dunque, non può essere rimessa a questa Corte la suddetta scelta, come consegue alle modalità di formulazione del motivo.
La Corte d'Appello, con giudizio di merito a lei riservato, ha ritenuto generiche le deduzioni del ricorrente e tale giudizio non è efficacemente contrastato da quest'ultimo, con la riproduzioni di parti dell'atto di appello.
Infine, in particolare, si osserva che con il quarto motivo, il ricorrente richiama in modo generico una serie di circostanze a proprio avviso rilevanti, di cui non precisa la concreta allegazione, né, per le ragioni anzidette, soccorre a ciò il terzo motivo di ricorso.
10. Il ricorso principale deve essere rigettato.
11. Deve, quindi, passarsi all'esame dei motivi del ricorso incidentale.
12. Con il primo motivo del ricorso incidentale è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 cc, nonché dell'art. 1362 e ss. cc. Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione ai sensi dell'art. 360, n. 3 e n. 5 cpc..
La società Poste italiane censura la statuizione con la quale la Corte d'appello ha riconosciuto la sussistenza del demansionamento.
Erroneamente, con motivazione apparente, la Corte d'appello di Firenze riteneva che: “il Tribunale ha infatti correttamente e condivisibilmente ravvisato tale demansionamento a fronte di quanto emerso dall'istruttoria testimoniale circa la sostanziale inconsistenza dell'incarico di cassiere provinciale conferito al P. dal gennaio 2003 - con la privazione di quello precedente comportante la preposizione ad un servizio di rilevante importanza - e protrattosi sino all'ottobre dello stesso anno quando tale cassa fu definitivamente soppressa, come già previsto da alcuni anni, in quanto le operazioni per il passaggio delle relative funzioni al servizio sportelli in cui confluirono richiesero un complessivo intervento di circa una settimana per poche ore di lavoro al giorno. Al riguardo ha anche sottolineato, rilevandolo esattamente e puntualmente dall'istruttoria esperita, che l'odierno appellante principale rimase poi sostanzialmente privo di mansioni sino al gennaio 2004, quando gli fu conferito l'incarico di coordinare le sezioni titoli e conti correnti: attività anch'essa dequalificante, precedentemente affidata ad un dipendente di area operativa e quindi con inquadramento inferiore a quello apicale dell'area quadri da lui posseduto”.
Espone la ricorrente incidentale, in particolare, che la sentenza sarebbe in contrasto con le risultanze istruttorie, laddove afferma che il P. sarebbe rimasto privo di mansioni fino al gennaio 2004, in quanto in tale periodo lo stesso si era occupato del passaggio delle consegne tra la Cassa provinciale ed il servizio sportelli, provvedendo ad illustrare agli impiegati le modalità esecutive, come confermato dalle deposizioni testimoniali dei testi R. e L.M. .
La sentenza sarebbe altresì erronea laddove non ha verificato se l'incarico di coordinare la sezione titoli e conti correnti fosse un incarico ascrivibile all'area professionale di quadro posseduto dal P. . Il P. aveva svolto, durante tutto il rapporto di lavoro con essa società, mansioni di responsabilità, anche a volere prescindere da un giudizio di equivalenza.
Nessuna delle testimonianze faceva riferimento a una revoca espressa o tacita degli incarichi e delle mansioni in precedenza affidate al P. o su uno stato di inoperosità dello stesso, come si evinceva dalla testimonianza di M..L. e del teste R.F. .
Pertanto, erroneamente, la Corte d'appello aveva ritenuto sussistere la dequalificazione, atteso che, tra l'altro, il trasferimento del P. era determinato da una complessiva riorganizzazione del servizio.
13. Il motivo non è fondato.
Come questa Corte ha più volte affermato (ex multis, Cass., n. 6288 del 2011), il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.
In tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni. Né tale regola subisce eccezioni nel rito del lavoro, nel quale il giudice, all'udienza fissata ex art. 420 cod. proc. civ., può esercitare il suo potere valutativo, in ordine alla rilevanza o meno delle prove, invitando le parti alla discussione, così ritenendo la causa "matura per la decisione" ai sensi del quarto comma del richiamato articolo, e, quindi, implicitamente rigettando le istanze istruttorie formulate dalle parti (Cass.,n. 16499 del 2009).
Tanto premesso, occorre ricordare che in tema di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle di assunzione, l'equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento, in violazione dell'art. 2103 cod. civ., ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore (Cass., n. 1575 del 2010).
Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello "ius variandi” da parte del datore di lavoro deve essere valutata dal giudice di merito - con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato - la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta (Cass., n. 425 del 2006, n. 14426 del 2005).
Nella fattispecie in esame, la Corte d'appello, con motivazione congrua e logica ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi di diritto laddove ha ritenuto corretto quanto statuito dal Tribunale a fronte di quanto emerso dall'istruttoria testimoniale circa la sostanziale inconsistenza dell'incarico di cassiere provinciale conferito al P. dal gennaio 2003, con la privazione di quello precedente comportante la preposizione ad un servizio di rilevante importanza.
La Corte d'appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, ha espresso le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, evidenziando un percorso argomentativo corretto (cfr. Cass., n. 15483 del 2008).
Le censure della ricorrente tendono, dunque, ad una rivalutazione dei fatti processuali che non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità.
14. Con il secondo motivo del ricorso incidentale è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cpc, in relazione agli artt. 2103 e 2697 cc. Omessa insufficiente e contraddittori motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, cpc).
Assume la ricorrente incidentale che erroneamente e con scarna motivazione la Corte d'appello confermava la sentenza del Tribunale di Pisa, che aveva ritenuto sussistere anche il danno biologico ed il danno morale richiesto. Il giudice di appello, infatti riconosceva il danno biologico in re ipsa, non distinguendo tra inadempimento datoriale ed esistenza del danno biologico, mentre occorreva una specifica allegazione, nei ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.
15. Il motivo non è fondato.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio - dall'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cod. civ. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (Cass., n. 19785 del 2010).
Il giudice di secondo grado nell'esaminare il motivo di impugnazione relativo al danno biologico e a quello morale, ha fatto corretta applicazione di tale principio atteso che riteneva corretto quanto affermato dal Tribunale che aveva osservato come le conclusioni peritali in ordine all'esistenza di una patologia cronica (disturbi dell'adattamento), quale lesione del diritto primario alla salute, riscontrata a carico del P. ed alla sua derivazione causale con il demansionamento, trovava conferma nella documentazione in atti cui facevano puntuale riferimento, e dunque all'esito di uno specifico accertamento.
16. Il ricorso incidentale deve essere rigettato.
17. In ragione della reciproca soccombenza, devono essere compensate tra le parti le spese di giudizio.



P.Q.M.



La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Spese compensate.