Cassazione Civile, 05 novembre 2013, n. 24775 - Trasferimento del dipendente disabile e mobbing - Non sussiste




 

 

Fatto





La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 28 giugno - 15 settembre 2011, ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta da F.L. nei confronti dell’Ente per il Diritto allo Studio Universitario di Pavia (E.D.I.S.U.), osservando che nel comportamento dell’Ente non erano ravvisabili atti persecutori né, tanto meno, la fattispecie del mobbing e che la destinazione della predetta dipendente, addetta alla reception, in altro luogo di lavoro non era stata dettata da intenti punitivi o discriminatori ma da incompatibilità ambientale derivante dalla situazione di contrasto con gli altri colleghi di lavoro. Peraltro, ha aggiunto, non si trattava di trasferimento, ma di un mero spostamento nell’ambito dello stesso Comune, onde non poteva la lavoratrice invocare la normativa a tutela del trasferimento dei disabili.

Non poteva infine essere riconosciuto alla lavoratrice il danno biologico da costei lamentato, non essendo esso imputabile al datore di lavoro.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la lavoratrice sulla base di due motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ. L’ente datore di lavoro non ha svolto attività difensiva.


Diritto





1. Con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 33, commi 5 e 6, della legge n. 104/92.

Deduce che, a norma dell’art. 2103 cod. civ., il lavoratore non può essere trasferito in altra sede se non in presenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive. Inoltre, ove si tratti di soggetto disabile il trasferimento non può avvenire senza il suo consenso, ai sensi dell’art. 33, comma 6, della legge 104/92.

Nella specie non ricorrevano le suddette condizioni, onde il trasferimento era illegittimo, tenuto conto peraltro delle sue precarie condizioni di salute e che il nuovo posto di lavoro, pur trovandosi nello stesso Comune, non era facilmente raggiungibile, "essendo collocato dalla parte opposta della città di Pavia".

Inoltre era stata relegata in un ufficio buio, dove si sentiva "isolata emarginata ed inutile".

2. Con il secondo motivo, denunziando vizio di motivazione circa un punto decisivo della controversia, la ricorrente rileva che la sentenza impugnata da un lato ha escluso la presenza di comportamenti vessatori nei suoi confronti, dall’altro ha ritenuto che il trasferimento fosse giustificato da incompatibilità ambientale.

Tale motivazione è contraddittoria, tenuto conto peraltro che la incompatibilità ambientale per giustificare il trasferimento deve essere gravissima, situazione questa implicitamente esclusa dal giudice d’appello per non avere ritenuto la sussistenza di comportamenti vessatori.

Del tutto insufficiente, poi, ad avviso della ricorrente, è la sentenza impugnata laddove ha escluso il nesso causale tra il danno biologico ed il trasferimento, risultando viceversa dalla consulenza tecnica di parte che le alterazioni psico-fisiche da lei subite erano ricollegabili al trasferimento.

3. Il primo motivo non è fondato.

E’ principio consolidato di questa Corte che l’art. 2103 cod. civ., nel subordinare la legittimità del trasferimento del lavoratore alla sussistenza di comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive, non si riferisce soltanto a situazioni oggettive, ma consente la valutazione anche di situazioni soggettive, purché valutate secondo un criterio obiettivo, quale è quella delle ragioni di incompatibilità createsi tra un dipendente ed i suoi immediati collaboratori, che si riflettano sul normale svolgimento dell’attività dell’impresa (Cass. 15 dicembre 1987 n. 9276; Cass. 16 aprile 1992 n. 4655; Cass. 28 settembre 1995 n. 10252; Cass. 9 marzo 2001 n. 3525; Cass. 12 dicembre 2002 n. 17786; Cass. 23 febbraio 2007 n. 4265).

Nella specie la Corte di merito ha accertato che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il trasferimento della lavoratrice, nell’ambito dello stesso Comune, presso un’altra struttura dell’Ente, non fu dettato da intento discriminatorio e punitivo, ma fu giustificato dal clima di tensione nei rapporti personali e dai contrasti creatisi nell’ambiente di lavoro, ciò che aveva reso incompatibile la presenza della lavoratrice nell’originaria sede, riflettendosi sul normale svolgimento dell’attività lavorativa.

Trattandosi di valutazioni di merito supportate da una motivazione adeguata, logica e non contraddittoria, esse non sono suscettibili di sindacato in questa sede, non essendo consentito al giudice di legittimità di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logica-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva, di valutare le prove e di controllarne la concludenza.

3.1. La ricorrente, sotto un diverso profilo, rileva che, trattandosi di un soggetto disabile, il trasferimento non poteva avvenire senza il suo consenso, a norma della legge n. 104 del 1992, art. 33, comma 6.

Anche questo motivo deve essere rigettato, ma la motivazione della sentenza impugnata deve sul punto essere corretta a norma dell’art. 384, comma 4, cod. proc. civ., non comportando tale correzione indagini e valutazioni di fatto né violazione del principio dispositivo.

La Corte territoriale ha ritenuto che non potesse applicarsi alla ricorrente la normativa posta a tutela dei portatori di handicap, trovandosi la nuova sede di lavoro nell’ambito dello stesso Comune ed essendo "equidistante" dalla sua residenza.

Tale motivazione è erronea, posto che la nozione di trasferimento del lavoratore, che comporta il mutamento definitivo del luogo geografico di esecuzione della prestazione, è configurabile anche nell’ipotesi in cui lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva, quando questa comprenda uffici - come nella specie - notevolmente distanti tra loro e, per di più, coinvolga soggetti portatori di handicap.

Ciò posto, deve osservarsi che le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato il principio che in materia di assistenza alle persone handicappate, alla luce di una interpretazione dell’art. 33, comma 5, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, orientata dalla complessiva considerazione dei principi e dei valori costituzionali coinvolti (come delineati, in particolare, dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 406 del 1992 e n. 325 del 1996), il diritto del genitore o del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente od un affine entro il terzo grado handicappato, di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, se, da un lato, non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico produttive dell’azienda o della P.A., non è invece, attuabile ove sia accertata - in base ad una verifica rigorosa anche in sede giurisdizionale - l’incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro (Cass. Sez. Un. 9 luglio 2009 n. 16102).

Ed infatti la legge n. 104 del 1992, art. 33, non configura in generale, in capo ai soggetti ivi individuati, un diritto assoluto e illimitato, potendo questo essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento fra tutti gli implicati interessi costituzionalmente rilevanti, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive ed organizzative del datore di lavoro.

L’avere il legislatore previsto che la persona handicappata non può essere trasferita in altra sede senza il suo consenso (art. 33, comma 6), a differenza del genitore o del familiare lavoratore che assista con continuità il parente handicappato, il quale ha diritto, "ove possibile", a scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e a non essere trasferito senza il suo consenso (comma 5 dello stesso articolo), esprime, ad avviso delle Sezioni Unite, una diversa scelta di valori che significa soltanto che nella prima ipotesi l'interesse della persona handicappata, ponendosi come limite esterno del potere datoriale di trasferimento, quale disciplinato in via generale dall’art. 2103 c.c., prevale sulle ordinarie esigenze produttive e organizzative del datore di lavoro, ma non esclude che il medesimo interesse, pure prevalente rispetto alle predette esigenze, debba conciliarsi con altri rilevanti interessi, diversi da quelli sottesi alla ordinaria mobilità, che possono entrare in gioco nello svolgimento del rapporto di lavoro, pubblico o privato, così come avviene in altre ipotesi di divieto di trasferimento previste dall'ordinamento per le quali la considerazione dei principi costituzionali coinvolti può determinare, concretamente, un limite alla prescrizione di inamovibilità (cfr. L. n. 300 del 1970, art. 22, comma 2, del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 78, comma 6; della L. n. 1264 del 1971, art. 2, comma 6, introdotto dalla L. n. 53 del 2000, art. 17, comma 1).

La situazione di incompatibilità ambientale, se pure prescinde da ragioni punitive o disciplinari ed è riconducibile in via sistematica all'art. 2103 c.c., si distingue dalle ordinarie esigenze di assetto organizzativo in quanto costituisce essa stessa causa di disorganizzazione e disfunzione realizzando, di per sé, un'obiettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro (cfr. Cass. n. 4265 del 2007; id., 10252 del 1995).

Pertanto, la particolarità delle esigenze sottese a tale situazione, riconducibili a valori di rilievo costituzionale e allo stesso mantenimento dell’assistenza alle persone handicappate, determina la inapplicabilità, in caso di incompatibilità ambientale, della tutela di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 6.

Alla stregua dei principi sopra indicati, cui questo Collegio ritiene di prestare adesione, deve affermarsi che, alla luce di una interpretazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 6, orientata alla complessiva considerazione dei valori costituzionali coinvolti, il diritto della persona handicappata di non essere trasferita senza il suo consenso ad altra sede, mentre non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell’azienda, non è invece attuabile ove sia accertata la incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro.

Nella specie, avendo il giudice d’appello accertato - con valutazioni di merito non sindacabili in questa sede - che non poteva protrarsi la permanenza della odierna ricorrente nella sede di lavoro, in ragione delle tensioni e dei contrasti creatisi nell’ambiente di lavoro, con rilevanti ripercussioni sul regolare svolgimento dell'attività lavorativa, il trasferimento disposto nei confronti della medesima appare giustificato.

4. Anche il secondo motivo è infondato.

4.1. La Corte territoriale ha dato sufficientemente conto delle ragioni della statuizione censurata, con un percorso argomentativo logico e coerente che si sottrae alle critiche che le vengono mosse.

In particolare, non è ravvisabile contraddittorietà della motivazione nell’avere la sentenza impugnata escluso, da un lato, la presenza di comportamenti vessatori nei confronti della lavoratrice e, dall’altro, nell’avere ritenuto che il trasferimento fosse giustificato da incompatibilità ambientale.

La Corte di merito, infatti, ha ritenuto che nell’ambiente di lavoro si era comunque creato, per i contrasti sorti tra il personale dipendente, un clima di tensione costituente causa di disfunzione e disorganizzazione, non compatibile con il normale svolgimento dell’attività lavorativa.

4.2. Infondata è infine la censura relativa al danno biologico, che la Corte di merito ha escluso fosse riconducibile alla condotta del datore di lavoro.

Tale statuizione infatti costituisce una logica conseguenza della accertata esclusione della condotta vessatoria ad opera del datore di lavoro e della inidoneità quindi della stessa ad incidere sulle condizioni psico-fisiche della ricorrente, in ordine alle quali peraltro la medesima si è limitata a richiamare una relazione del consulente tecnico di parte, secondo cui il trasferimento della medesima in altro posto di lavoro avrebbe creato "dispiacere e disappunto con risvolti depressivi" imputabili al datore di lavoro.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese di questo giudizio, non avendo l’Ente convenuto svolto attività difensiva.



P.Q.M.




Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.