SICUREZZA E SALUTE DEI LAVORATORI:
posizioni di garanzia, obblighi, controlli alla luce del d.lgs 81/08
di Vania Contrafatto
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo
Palermo 4 Ottobre 2008
PREMESSA: IGIENE E SICUREZZA DEL LAVORO
Dopo oltre trenta anni dall' annuncio del testo unico in materia di sicurezza e salute dei lavoratori il legislatore del 2008 ha emanato il 1 maggio 2008 il decreto legislativo n. 81 ( pubblicato nel supplemento n. 108/L alla G.U. n 101 del 30 aprile 2008 entrato in vigore il 15.05.2008).
Il nuovo testo legislativo si evidenzia per avere riorganizzato il complesso sistema di norme che hanno regolamentato per oltre sessant’anni la materia prevenzional – antinfortunistica in un’unica legge.
Porta invece poche innovazioni al preesistente sistema, e si risolve prevalentemente in una “rinumerazione” degli articoli di legge già esistenti: i titoli in cui si compone ricalcano infatti quasi integralmente il testo del d.lgs 626/94, del DPR 303/56, del dpr 547/55 , del dlgs 494/96 , abrogandone le relative norme.
Il titolo I del decreto si apre con l’enucleazione delle definizioni sia dei soggetti destinatari delle posizioni di garanzia, sia degli altri soggetti coinvolti nell’organizzazione del lavoro chiamati ad interagire in tema di sicurezza (art. 2).
Il brevissimo titolo II si occupa dei luoghi di lavoro, il Titolo III disciplina l’uso delle attrezzature di lavoro, l’uso dei dispositivi di protezione individuale, l’uso degli impianti ed apparecchiature elettriche.
Il Titolo IV reca misure per la salute e sicurezza nei dei cantieri temporanei o mobili” misure per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota.
Il Titoli V disciplina le prescrizioni minime per la segnaletica di sicurezza e salute sul luogo di lavoro, ed i restanti Titoli fino all’XI affrontano tutte le misure per assicurare la sicurezza in presenza di determinate condizioni di lavoro: la movimentazione manuale dei carichi, le sostanze pericolose, gli agenti biologici, le atmosfere esplosive.
Restano dunque vigenti, poiché trasfusi nel testo unico, i principi consacrati dal D.P.R. n. 547/55 sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e il d.p.r. n.303/1956 sull’igiene sul lavoro, che contenevano una disciplina basata su norme specifiche di natura tecnica che imponevano a pena di sanzione penale, l’adozione di determinati accorgimenti.
Gli obblighi fondamentali previsti erano tre:
1. obbligo di imporre ai lavoratori l’uso di mezzi personali di protezione
2. obbligo di controllo sanitario
3. obbligo di fornire una informazione specifica ai lavoratori e sui rischi del lavoro e sulle misure preventive da adottare nello svolgimento dello stesso.
Il D.lgs 626/1994 nel suo insieme comportò modifiche limitate alla precedente normativa, in quanto era finalizzato ad una diversa impostazione del modo di affrontare le problematiche sulla sicurezza del lavoro:
le innovazioni infatti , volevano istituire nell’azienda un sistema di gestione permanente e organico diretto alla individuazione, valutazione, riduzione e controllo costante dei fattori di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori,mediante:
• programmazione delle attività di prevenzione,
• informazione , formazione e consultazione dei lavoratori e dei loro rappresentati
• organizzazione di un servizio di prevenzione i cui compiti sono espletati da una o più persone designate dal datore di lavoro.
La normativa sopra individuata era poi completata da una serie di disposizioni che imponevano al datore di lavoro obblighi e/o divieti in ragione dell’età o del sesso del lavoratore ovvero in ragione delle attività dallo stesso svolte.
Si ricordano, sinteticamente, le normative di maggior rilievo:
- La L. 977/1967, sulla tutela del lavoro dei fanciulli e adolescenti, stabilisce l’età minima di 15 anni per l’ammissione al lavoro, ad eccezione del settore dell’agricoltura e dei servizi familiari in cui l’età minima è fissata in 14 anni compiuti, specificando che tale attività deve essere, in ogni caso, compatibile con le esigenze particolari di tutela della salute e non deve determinare la trasgressione dell’obbligo scolastico. Nelle attività a carattere non industriale i fanciulli di età non inferiore a 14 anni possono essere occupati in lavori leggeri compatibili con le particolari esigenze di tutela della salute e non comportanti trasgressione dell’obbligo scolastico e sempre che non siano adibiti al lavoro durante la notte e i giorni festivi. L’Ispettorato provinciale del lavoro (oggi divenuta Direzione Provinciale del lavoro), poi, su conforme parere del Prefetto, può autorizzare, quando vi sia l’assenso scritto del genitore o del tutore, la partecipazione del minore di età inferiore ai 15 anni, e fino al compimento dei 18 anni, nella preparazione o rappresentazione di spettacoli o a riprese cinematografiche, sempre che non si tratti di lavoro pericoloso e non si protragga oltre le 24 ore. In ogni caso, i fanciulli e adolescenti di età inferiore a 16 anni non possono essere adibiti a lavori pericolosi, faticosi e insalubri, a lavori di pulizia e servizio dei motori e degli organi di trasmissione delle macchine in moto, a lavori nei sotterranei, cave e miniere, al sollevamento e trasporto di pesi su carriole e su carretti a braccia e a due ruote ecc.
- La L. 1204/1971, sulla tutela delle lavoratrici madri, vieta di adibire al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché ai lavori pericolosi, faticosi e insalubri, le lavoratrici durante il periodo di gestazione e fino a 7 mesi dopo il parto. Le lavoratrici saranno adibite ad altre mansioni per il periodo in cui sussiste il divieto. La Direzione Provinciale del lavoro può disporre l’anticipata interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza quando le condizioni di lavoro ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino: è stato il D.P.R. 1026/1976 ad indicare i lavori pericolosi, faticosi e insalubri cui non possono essere adibite le lavoratrici madri.
- La L. 877/1973, sulla tutela del lavoro a domicilio, non ammette l’esecuzione di lavoro a domicilio per attività comportanti l’uso di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute o l’incolumità del lavoratore e dei suoi familiari.
- La L. 903/1977, concernente la parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro, vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso nell’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e in qualunque settore o ramo d’attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale, consentendo eventuali deroghe solo per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva. Nelle aziende artigianali e manifatturiere non si possono adibire le donne al lavoro dalle ore 24 alle ore 6, a meno che la contrattazione collettiva, anche aziendale, non disponga diversamente, in relazione a particolari esigenze della produzione e tenendo conto delle condizioni ambientali del lavoro e dell’organizzazione dei servizi.
Una normativa specifica è dettata in tema di malattie professionali, con particolare riguardo alle procedure di accertamento e denuncia. Il D.P.R. 1124/1965 obbliga ogni medico, che ne conosca l’esistenza, a denunciare le malattie professionali all’Ispettorato del lavoro competente per territorio e prescrive che i lavoratori, prima di essere adibiti alle lavorazioni comportanti il rischio della silicosi e dell’asbestosi, siano sottoposti, a cura e spese del datore di lavoro, a visita medica, per accertarne l’idoneità fisica alle lavorazioni suddette, imponendo la ripetizione degli accertamenti ad intervalli non superiori ad 1 anno.
POSIZIONI DI GARANZIA
Soggetti obbligati al rispetto della normativa antinfortunistica, e dunque responsabili in caso di violazione, sono tutti coloro che intervengono nel processo produttivo.
La prevenzione infortuni ha inizio prima che si costituisca il rapporto contrattuale con il datore di lavoro e quindi con la predisposizione degli ambienti di lavoro, della costruzione delle macchine e delle attrezzature, della confezione degli abiti idonei al particolare al tipo di lavoro.
Sono quindi potenzialmente responsabili in caso di infortunio sul lavoro, anche i progettisti, i costruttori, i venditori di materiali e macchinari pericolosi.
Nello svolgimento del rapporto contrattuale-lavorativo sono responsabili: gli imprenditori, i dirigenti , i preposti, i soci delle cooperative di lavoro, gli organi pubblici.
DATORE DI LAVORO:
Il d.lgs 81/2008 definisce il datore di lavoro come “ il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o comunque con il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa o dell’unità produttiva...in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente la qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”.Ai sensi del combinato disposto dell’art. 2087 c.c., art.4 D.P.R. 547/55, 9 L. 300/70, il datore di lavoro ha l’obbligo giuridico di tutelare l’integrità psico-fisica dei dipendenti mediante adozione e il mantenimento in efficienza dei presidi antinfortunistici atti a preservare i lavoratori dai rischi delle attività lavorative svolte.
È il diretto ed esclusivo destinatario di tutte quelle norme antinfortunistiche la cui osservanza non è delegabile
Il datore di lavoro ha, rispetto agli obblighi di sicurezza stabiliti dalla normativa de qua, una posizione del tutto peculiare, consistente nella diretta e immediata imputazione della posizione debitoria fondamentale: il datore è il primo garante della sicurezza in azienda.
Le norme penali frequentemente fanno uso della dizione “datore di lavoro” per individuare il destinatario della responsabilità per le inadempienze agli obblighi penali, ma l’identificazione concreta di tale soggetto è resa difficile dalla variegata e imprecisa terminologia utilizzata dalla legislazione vigente.
Infatti la legge talvolta indica espressamente come soggetto attivo del reato “l’imprenditore”, altre volte identifica il destinatario della sanzione penale nel “titolare dei redditi d’impresa”, ed ancora, in altre fattispecie criminose, si parla come responsabile del “datore di lavoro”.
A fronte di tale varietà terminologica, un ausilio all’interprete lo fornisce il codice civile, il quale agli artt.2082-2083 definisce le figure dell’imprenditore e del piccolo imprenditore.
Peraltro, la nozione codicistica di imprenditore (che fa riferimento all’esercizio professionale di una attività economica diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi) è ancora troppo ristretta rispetto alla categoria più ampia di datore di lavoro. Infatti, non tutti i datori di lavoro rivestono la qualifica di imprenditori, poiché ogni soggetto di diritto che svolga attività in campo economico e sociale può assumere la veste di datore di lavoro, indipendentemente dal fatto che eserciti professionalmente una attività economica diretta alla produzione o scambio di beni o servizi (ad esempio è datore di lavoro chi offre ad altri occasioni di lavoro domestico, agricolo, presso studi professionali ecc.).
Il secondo, non facile, problema è quello relativo alla individuazione della persona fisica alla quale addossare l’effettivo status di datore di lavoro, e dunque di soggetto penalmente responsabile, potendo tale qualifica essere ricoperta, sotto il profilo civilistico, tanto da persone fisiche che da persone giuridiche.
Tali difficoltà derivano, fondamentalmente, dalla ripartizione di funzioni tra più soggetti di una organizzazione complessa che determina, quale conseguenza necessaria, la scissione fra la responsabilità per gli atti di indirizzo della politica imprenditoriale e la responsabilità per gli atti di gestione corrente dell’azienda o dell’unità produttiva.
In questo senso, l’individuazione della persona fisica responsabile (basata sul principio della colpevolezza, o comunque dell’imputazione soggettiva del fatto all’agente) non può prescindere dalla natura plurisoggettiva della fattispecie e dalle regole dell’organizzazione aziendale, la quale ha raggiunto una tale complessità da non potersi ragionevolmente pretendere che il datore di lavoro assuma personalmente l’intera serie delle funzioni da cui può derivare responsabilità penale.
Appare inevitabile l’intervento di collaboratori cui sono delegati, dall’ordinamento interno dell’organizzazione, i compiti amministrativi intimamente connessi all’adempimento di precetti penalmente sanzionati.
In tal senso la giurisprudenza ha elaborato un metodo più adeguato di individuazione della responsabilità nelle organizzazioni complesse, giungendo a considerare penalmente responsabili quei soggetti che, in relazione ai vari obblighi posti dalla legislazione a carico dei datori di lavoro, risultano effettivamente muniti non solo del dovere ma anche del potere di darvi adempimento.
In sostanza il responsabile sarebbe colui che, avendo un dovere da adempiere, ha anche il relativo potere per farlo, essendo titolare di una reale, e non solo formale, attribuzione di funzioni e di una altrettanto reale autonomia decisionale.
L’art. 2 lett. b del D.Lgs 81/08 definisce il datore di lavoro come .
Tale definizione prende atto della prassi corrente per cui, sovente, si assiste ad una scissione fra il soggetto titolare dei rapporti relativi all’esercizio dell’impresa e dei poteri di indirizzo e di politica aziendale (che resta il vero datore di lavoro) ed il soggetto che, autonomamente, gestisce ed amministra, pur sempre, soltanto una porzione dei poteri e doveri spettanti, anche nell’unità produttiva, comunque al titolare dell’impresa.
In questo modo si prospetterebbe di diritto l’ipotesi di più datori di lavoro presenti in una stessa impresa che sia articolata in diverse unità produttive: un datore di lavoro titolare dei poteri e doveri inerenti alla regolamentazione generale del rapporto di lavoro, ed un datore di lavoro, ulteriore e diverso, titolare dei poteri e doveri inerenti alla tutela delle condizioni di lavoro.
L’ammissione di una pluralità di datori di lavoro ha come inevitabile conseguenza che i datori di lavoro, in caso di articolazione dell’impresa, possono essere impersonati dai dirigenti, purché vi sia un inscindibile collegamento tra l’effettivo esercizio di una posizione gerarchicamente sovraordinata, dotata di autonomia operativa e finanziaria, e lo specifico settore della predisposizione ed organizzazione delle misure di sicurezza complessivamente considerate. In questo modo, soltanto agli esclusivi fini della sicurezza sul lavoro, il responsabile sarà chi, gerarchicamente sovraordinato e dotato di autonomia tecnico-funzionale e finanziaria, gestisce lo stabilimento o la struttura finalizzata alla produzione di beni o servizi.
Per ciò stesso, il dirigente posto a capo dello stabilimento o dell’unità produttiva, decentrati rispetto alla sede dell’impresa o dell’ente, e che siano dotati di autonomia tecnico-funzionale e finanziaria e, quindi, dei poteri decisionali e di spesa, sarà considerato, ai fini prevenzionali, datore di lavoro.
Questa tendenza, da un lato facilita l’individuazione della persona fisica responsabile delle contravvenzioni alle norme di sicurezza in una struttura organizzativa complessa, d’altra parte favorisce il preoccupante fenomeno di una circolazione e slittamento verso il basso della qualifica datoriale, con il risultato di frammentare e disperdere l’unitarietà delle scelte di politica prevenzionale nell’ambito di una stessa azienda, e di “deresponsabilizzare” i vertici aziendali, determinando, inoltre, il rischio di vanificare la riserva di intrasferibilità di alcuni compiti primari che il legislatore ha voluto espressamente riservare al solo datore di lavoro: la valutazione dei rischi, l’elaborazione del relativo documento, il costante aggiornamento di esso, la designazione del responsabile del servizio aziendale di protezione e prevenzione.
Conclusivamente, alla luce della definizione di cui all’art. 2 lett. b), un soggetto titolare dei poteri decisionali e di spesa potrà assumere, nell’ambito della medesima impresa, la qualifica, ai fini prevenzionali, di datore di lavoro, in aggiunta a quella attribuita al titolare dei rapporti di lavoro con i dipendenti, solo in quanto la filiale dell’azienda o una sua separata unità produttiva godano di effettiva autonomia finanziaria e tecnico – funzionale.
Non sarà sufficiente, quindi, che il dirigente responsabile di tali unità sia provvisto, come un qualsiasi altro delegato, di una autonomia decisionale e di spesa proporzionata all’entità dell’incarico ricevuto, ma occorrerà, perché si possa assumere anche la veste di datore di lavoro, che l’organismo da lui diretto, pur restando un’emanazione della stessa impresa, abbia una sua fisionomia distinta, presenti un proprio bilancio e possa deliberare, in condizioni di relativa indipendenza, il riparto delle risorse disponibili, operando così le scelte organizzative ritenute più confacenti alle proprie caratteristiche funzionali e produttive.
Inoltre, tale autonomia finanziaria e tecnico – funzionale dello stabilimento o dell’unità produttiva decentrati dovrà risultare consacrata statutariamente, a seguito di una scelta organizzativa di vertice adottata in via generale e non di volta in volta, e dovrà, quindi, risultare da un atto formale antecedente il conferimento dei compiti gestionali al dirigente dell’unità dislocata.
Il datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni
L’art. 2, lett. b), prosegue: “Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, esso è individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa.”
Tuttavia, in concreto, l’individuazione del soggetto direttamente ed immediatamente responsabile è tutt’altro che facile, alla luce della frammentazione e della ripartizione di competenze fra organi di indirizzo politico e organi di gestione amministrativa.
La formulazione legislativa di cui all’art. 2, lett. b), viene, infatti, a determinare l’esplicita identificazione del datore di lavoro, nel settore pubblico, con il dirigente, ovvero con la persona fisica che si immedesima con l’organo di governo o di gestione dell’ente pubblico.
La giurisprudenza si è, per lungo tempo, basata sul criterio dell’effettività dei poteri e delle funzioni esercitate in tema di sicurezza sul lavoro, considerando penalmente responsabili quei soggetti che, in relazione ai vari obblighi posti dalla legislazione a carico dei datori di lavoro, risultassero effettivamente muniti non solo del dovere, ma anche del potere di darvi adempimento, essendo titolari di una reale (e, quindi, non solo formale) attribuzione di funzioni e di una altrettanto reale autonomia decisionale.
Tuttavia, ancor di più in ambito pubblico si assiste ad una divaricazione dei due elementi fondamentali per la definizione di datore di lavoro soggetto agli obblighi prevenzionali: la titolarità del rapporto di lavoro con il dipendente e la responsabilità dell’impresa, dello stabilimento o dell’ufficio.
Ed infatti, all’interno delle amministrazioni pubbliche, il titolare del rapporto di lavoro con i dipendenti non è l’organo di vertice dell’ente pubblico, ma l’ente stesso, in quanto il rapporto di lavoro intercorre tra l’ente persona giuridica pubblica ed il lavoratore.
All’opposto, il riferimento alla responsabilità dell’impresa o dello stabilimento presuppone il riferimento ad una persona fisica, che normalmente sì identifica, per la sua posizione di vertice, con l’organo di governo dell’ente.
Del resto l’art. 3 del D.Lgs. 29/1993 (come modificato dal D.Lgs. n. 80/98) di riforma del lavoro pubblico distingue nettamente tra organo di governo dell’ente (od organo « politico » in senso lato) cui spetta la fissazione degli obiettivi dell’ente, dei programmi da attuare per il raggiungimento di tali obiettivi, e il controllo sui risultati della gestione, e l’organo amministrativo, identificabile con il dirigente, cui compete l’attività gestionale dell’ente sotto il profilo finanziario, tecnico ed amministrativo.
In realtà, è l’intero sistema, anche alla luce della pluralità di interventi normativi che si sono succeduti negli ultimi anni, a deporre nel senso di una stretta distinzione nel rapporto tra politica ed amministrazione, tra gestione corrente ed indirizzo politico, e nella conseguente attribuzione al dirigente dei compiti e delle responsabilità connessi alla figura del datore di lavoro.
A conferma di tale volontà legislativa può rilevarsi che l’art. 30, del D.Lgs. 242/96 prevede che siano «gli organi di direzione politica o, comunque, di vertice» delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. 29/93 a procedere all’individuazione dei soggetti ai quali riconoscere la qualifica di datore di lavoro a norma dell’art. 2, lett. b), del D.Lgs. 81/08, tenendo conto «dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività».
In pratica, spetterà a ciascuna amministrazione modellare la propria struttura organizzativa alla definizione legislativa determinando o il soggetto con qualifica dirigenziale al quale conferire «poteri di gestione» ovvero un funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto a un ufficio avente autonomia gestionale.
Qualora l’individuazione del datore di lavoro avvenga al di fuori di questi requisiti dovrà essere considerata invalida con riguardo ai profili di responsabilità disciplinare, civile e amministrativa, ed inutile sotto il profilo della responsabilità penale, per cui sarà chiamato a rispondere di eventuali violazioni, sempre il soggetto che ha i requisiti indicati dalla legge.
In sintesi, ai fini della sicurezza del lavoro, il legislatore vuole che nelle pubbliche amministrazioni il responsabile sia individuato in un soggetto che abbia una qualifica dirigenziale e sia inquadrato all’interno della funzione amministrativa di direzione, gestione ed organizzazione del lavoro, escludendo ogni residuale forma di responsabilità in capo agli «organi di direzione politica o, comunque, di vertice» delle amministrazioni pubbliche.
Prosegue e si conclude il disposto della lettera b) recitando: “In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo”
A titolo esemplificativo, ministri, sindaci, assessori, presidenti di giunte provinciali o regionali, presidenti di enti pubblici di nomina politica, rettori delle università, presidi delle facoltà ecc. possono essere chiamati a rivestire la qualifica di datori di lavoro, con ciò cristallizzando quella giurisprudenza che aveva individuato in tema di sicurezza e salute dei lavoratori anche una responsabilità dell'organo elettivo.
La suprema corte riteneva infatti che in quanto titolare di una “posizione di garanzia” l’organo elettivo di un ente vada esente da responsabilità penale “solo se incolpevolmente estraneo alle inadempienze del dirigente o del funzionario avente qualifica dirigenziale”.
La delega di funzioni
Stabiliti, quindi, ruoli e sanzioni il problema si sposta sul piano pratico nella concreta individuazione della persona fisica che all’interno dell’azienda rivesta tali incarico di datore di lavoro.
Come sopra evidenziato, se nelle imprese organizzate in modo individuale o in un solo stabilimento, la titolarità dell’impresa coincide anche con l’esercizio di tutti i poteri ad essa inerenti, ( non v’è difficoltà ad individuare chi sia materialmente il datore di lavoro), non è lo stesso a dirsi per le imprese di grosse dimensioni in cui l’imprenditore - titolare della “ditta” – non può materialmente esercitare tutti i poteri direttivi e gestionali, dovendo delegare ad altri “per necessità” porzioni dell’esercizio dell’impresa.
In tali casi può essere non di pronta soluzione individuare chi sia “datore di lavoro a fini prevenzionali” : così il legislatore del 2008, al pari del dlgs 626/94, fornisce all’art. 2 la definizione di datore di lavoro ai fini prevenzionali, stabilisce quali siano i suoi obblighi, quali tra questi non possa delegare e quali possa invece delegare ad altro soggetto, che assumerà quindi la qualifica di “datore di lavoro delegato” ai soli fini prevenzionali.
La giurisprudenza già prima dell’entrata in vigore del d.lgs 626/94 aveva elaborato i criteri per l'attribuzione di responsabilità o corresponsabilità in tema di infortuni sul lavoro, stabilendo i requisiti di validità delle delega:
1) la delega da parte dell'imprenditore deve essere vera ed effettiva, tale da comportare il trasferimento di tutti i poteri dell'imprenditore e deve riguardare un intero settore o unità produttiva;
2) la delega deve essere tale da escludere una effettiva partecipazione dell'imprenditore all'organizzazione del lavoro;
3) la delega deve essere fatta a persona qualificata, idonea e competente;
4) l'imprenditore non deve essere comunque a conoscenza della mancata osservanza delle misure antinfortunistiche nel settore affidato ad altri;
Il d.lgs 81/08, fa propri questi criteri, cristallizzandoli all’art. 16 che recita:
La delega di funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e condizioni:
a) che essa risulti da atto scritto recante data certa;
b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
d) che essa attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate.
2. Alla delega di cui al comma 1 deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità.
3. La delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. La vigilanza si esplica anche attraverso i sistemi di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4.
La delega è dunque l’istituto che riguarda la relazione tra imprenditore e datore di lavoro: quindi l’imprenditore potrà delegare i suoi obblighi ad un dirigente, e se le delega rivestirà tutti i requisiti previsti dall’art. 16 , il dirigente assumerà la qualifica di “datore di lavoro a fini prevenzionali”.
DIRIGENTE:
Dirigente ai sensi della lettera d) dell’art. 2 dlgs 81/08 è “persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa”.La responsabilità prevenzionale del dirigente, pertanto, sarà individuabile non solo e non tanto in conseguenza di una nomina dirigenziale, bensì in conseguenza dell’esercizio degli effettivi poteri di organizzazione, gestione, realizzazione delle strategie di impresa, comportanti o meno obblighi prevenzionali.
È affidata al dirigente la direzione tecnico-amministrativa di una azienda o di un reparto di essa con la diretta responsabilità dell’andamento dei servizi.
È il diretto ed esclusivo destinatario delle norme antinfortunistiche la cui osservanza non può essere demandata ad altri.
Può rivestire una posizione analoga a quella del datore di lavoro ed essere quindi destinatario di precetti derivanti dalla normativa prevenzionistica, nell’ambito delle rispettive attribuzioni ha principalmente l’onere di organizzare in maniera adeguata le strutture e i mezzi messi a disposizione del datore di lavoro, ma deve osservare le norme di legge la cui contravvenzione è sanzionata da pene allo stesso espressamente riferite, la sua autonomia persiste anche in caso di contrasti con il datore di lavoro, perchè deve adempiere al debito di sicurezza indipendentemente dagli ordini del superiore.
Ha poi l’obbligo di tenere costantemente informato il datore dei rischi che possono crearsi segnalando le eventuali carenze nel sistema di prevenzione e protezione.
La responsabilità prevenzionale del dirigente, pertanto, sarà individuabile non solo e non tanto in conseguenza di una nomina dirigenziale, bensì in conseguenza dell’esercizio degli effettivi poteri di organizzazione, gestione, realizzazione delle strategie di impresa, comportanti o meno obblighi prevenzionali.
E’ il caso delle qualifiche dirigenziali convenzionali che, pur in presenza del riconoscimento formale ed economico connesso alla categoria, ma in assenza dell’effettività di esercizio dei poteri che si accompagnano alla figura, non possono determinare una automatica responsabilità per l’adempimento degli obblighi di sicurezza.
All’opposto è rilevante, ai fini della responsabilità prevenzionale, l’effettività di esercizio dei poteri in assenza dell’inquadramento formale.
Si pone il problema di come valutare la responsabilità dei dirigenti, nel campo della sicurezza, nel caso in cui costoro, ravvisata la necessità di adottare certe misure prevenzionali il cui impiego comporti una spesa eccedente le facoltà decisionali loro assegnate, abbiano provveduto ad avvisare chi di competenza e questi sia rimasto inerte alla richiesta.
Secondo alcuni dalla acquiescenza ad una situazione siffatta non potrebbe derivare alcuna forma di responsabilità, poiché un tale comportamento non è giuridicamente censurabile, mancando nel nostro ordinamento una norma che imponga al privato di impedire l’altrui commissione di reati, salvo che non vi sia uno specifico obbligo in tal senso.
La Cassazione, tuttavia, in alcune pronunce ha espresso un orientamento di segno opposto, sostenendo che .
Recita l’art 18 , rubricato “obblighi del datore di lavoro e del dirigente”:
1. Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3 e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono:
a) nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal presente decreto legislativo.
b) designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza;
c) nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza;
d) fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, ove presente;
e) prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico;
f) richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione;
g) richiedere al medico competente l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel presente decreto;
h) adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;
i) informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;
l) adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37;
m) astenersi, salvo eccezione debitamente motivata da esigenze di tutela della salute e sicurezza, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave e immediato;
n) consentire ai lavoratori di verificare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, l’applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute;
o) consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera q);
p) elaborare il documento di cui all’articolo 26, comma 3, e, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, consegnarne tempestivamente copia ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
q) prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno verificando periodicamente la perdurante assenza di rischio;
r) comunicare all’INAIL, o all’IPSEMA, in relazione alle rispettive competenze, a fini statistici e informativi, i dati relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento e, a fini assicurativi, le informazioni relative agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni;
s) consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50;
t) adottare le misure necessarie ai fini della prevenzione incendi e dell’evacuazione dei luoghi di lavoro, nonché per il caso di pericolo grave e immediato, secondo le disposizioni di cui all’articolo 43. Tali misure devono essere adeguate alla natura dell’attività, alle dimensioni dell’azienda o dell’unità produttiva, e al numero delle persone presenti;
u) nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto e di subappalto, munire i lavoratori di apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro;
v) nelle unità produttive con più di 15 lavoratori, convocare la riunione periodica di cui all’articolo 35;
z) aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione;
aa) comunicare annualmente all’INAIL i nominativi dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.
Tali obblighi, propri del dirigente in quanto titolare delle attribuzioni e delle competenze necessarie, dovranno essere adempiuti sia direttamente che attraverso la collaborazione di preposti, ovvero capi intermedi incaricati di sorvegliare lo svolgimento del lavoro e l’attuazione delle misure di sicurezza predisposte dal datore di lavoro ed organizzate dal dirigente.
PREPOSTI:
Ai sensi della lettera e) dell’art. 2 del d.lgs 81/08 è preposto la “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa”È quindi il soggetto cui è affidato il controllo immediato sulla esecuzione dell’opera o del lavoro , è cioè chiunque abbia assunto una posizione di preminenza rispetto ad altri lavoratori così da poter impartire loro ordini, istruzioni, direttive sul lavoro.
È dunque tenuto a vigilare sulla corretta osservanza da parte dei lavoratori delle misure e procedure di sicurezza predisposte dai vertici aziendali e riferire ad essi sulle eventuali carenze di misure di prevenzione riscontrate nei luoghi di lavoro. È escluso quindi da obblighi di organizzazione e predisposizione di misure protettive, però ha l’obbligo di segnalare ai superiori comportamenti scorretti o disfunzioni del sistema di prevenzione.
Anche l’individuazione, ai fini prevenzionali, della figura del preposto si presenta particolarmente complessa in considerazione dell’impossibilità di ricondurlo, in qualità di soggetto passivo del debito di sicurezza, in una delle categorie di lavoratori di cui all’art. 2095 c.c..
Infatti, nel concetto di preposto nella prassi rientrano tutta una serie di gerarchie aziendali che si pongono fra il dirigente ed il lavoratore.
Tuttavia, già l’art. 4 del DPR 547/55 e gli artt.1, comma 4 bis e 4 del D.Lgs. 626/94, prevedevano la figura del preposto quale ultimo gradino della gerarchia delle responsabilità prevenzionali (in tale categoria rientrano, in genere, il ruolo di capo cantiere, di assistente edile di capo squadra, di capo turno, di capo ufficio, nonché di altre innumerevoli funzioni svolte in termini di costante e continua sorveglianza delle attività lavorative anche al fine di prevenire infortuni).
La figura legislativa di preposto mette un particolare accento sull’attività del “sovraintendere”, in cui rientra l’attività di controllo del lavoro altrui, con il correlativo potere di impartire ordini e istruzioni per regolarne l’esecuzione.
E’ comunque consolidato l’orientamento secondo cui, per svolgere le funzioni di sorveglianza e di controllo dell’attività, al preposto non può, comunque, essere negato un certo margine di autonomia e di potere nell’impartire ordini e nel dare istruzioni al personale durante l’esecuzione del lavoro.
In questo senso, la differenza intercorrente fra gli obblighi di sicurezza di dirigente e preposto consiste nel fatto che a quest’ultimo non è affidato il compito di adottare le necessarie misure di prevenzione, bensì solo quello, tenuto conto delle sue capacità tecniche e della sua limitata autonomia decisionale, di farle osservare.
Solo quando tutte le misure prevenzionali siano state predisposte e siano stati impartiti gli ordini dagli organi competenti (datore di lavoro e dirigenti), spetterà al preposto far fronte alle particolari situazioni che si verificheranno nel corso dell’esecuzione dell’attività lavorativa.
Ne consegue che è esclusivamente sulla base del documento di valutazione dei rischi, dell’individuazione delle misure e dei mezzi di prevenzione e protezione collettivi, dei dispositivi di protezione individuale, dell’informazione e della formazione e di ogni altro strumento, attrezzatura o presidio di sicurezza esigibile nei limiti della norma e del tecnologicamente fattibile, l’attuazione dei quali spetta al datore di lavoro, che il preposto, gerarchicamente sovraordinato ai lavoratori, sarà tenuto ad impartire gli ordini necessari ed a provvedere direttamente alle diverse situazioni di lavoro, anche contro l’indifferenza o il parere contrario dei prestatori di lavoro.
Alla luce di ciò, parrebbe potersi normativamente escludere una responsabilità del preposto allorché l’infortunio sia dipeso non da omessa o insufficiente vigilanza nel senso suddetto, bensì dalla mancanza degli strumenti, misure, cautele e accorgimenti antinfortunistici, la cui predisposizione ed attuazione spetta soltanto al datore di lavoro o al soggetto specificamente competente cui quest’ultimo abbia conferito apposita ed espressa delega .
Un problema di rilievo che si era posto in giurisprudenza era quello relativo al presupposto formale dell’esercizio delle funzioni di preposto e, in particolare, se la predetta funzione possa essere esercitata per facta concludentia, senza alcuna formale investitura.
La Corte di Cassazione, in tema di sicurezza sul lavoro, ha ritenuto che potrà essere attribuita la responsabilità del tipica del preposto a chiunque, indipendentemente dalla formale qualifica o dal titolo professionale, svolga un lavoro avente contenuti di coordinamento e direzione di altri lavoratori: la formale attribuzione della qualifica, pur mantenendo la sua rilevanza ai fini degli schemi di organizzazione e ripartizione aziendale, non è assolutamente sufficiente per una sua pari traslazione nell’ambito degli obblighi prevenzionali per la sicurezza.
Infatti, le funzioni del preposto non possono essere determinate in modo aprioristico, ma devono essere valutate all’interno di ogni singola realtà aziendale, avendo riguardo alla specializzazione, alla competenza, all’ambito di discrezionalità ed alla posizione gerarchica cosicché, come il dirigente, anche il preposto risponderà degli obblighi collegati alla sua funzione indipendentemente dalla formalizzazione dell’incarico, ma conseguentemente all’esercizio delle mansioni effettivamente poste in essere.
Il problema è oggi superato con la cristallizazione all’art. 299 del T.U. del principio di effettività: per cui la responsabilità non deriva da una mera attribuzione formale, ma richiede l’effettivo svolgimento di compiti e prerogative propri di una data funzione.
È possibile affermare che il preposto, al pari del dirigente, è qualificabile come tale solo in virtù delle mansioni effettivamente affidategli, non essendo sufficiente né la categoria di inquadramento lavorativo né un incarico formale in tal senso.
RESPONSABILE DEL SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE
Il Servizio di Prevenzione e Protezione costituisce la figura maggiormente innovativa introdotta dal D.Lgs. 626/1994 in materia di sicurezza dei lavoratori sul posto di lavoro, viene ribadito del d.lgs 81/08 che all’art. 2 lett. f) definisce il responsabile del servizio di prevenzione e protezione come. “persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi” e alla lett. g) l’addetto al servizio di prevenzione e protezione , come: “persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32, facente parte del servizio di cui alla lettera l) del presente articolo”. Dalla lettera della legge possiamo distinguere tre tipologie di servizio:
il primo costituito dal datore di lavoro attraverso la designazione, all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, di una o più persone da lui dipendenti;( art. 31 prima proposizione)
il secondo scelto all’esterno dell’impresa nel caso in cui non vi siano professionalità adeguate all’interno dell’azienda e ricorrano certe condizioni di legge ( art. 31 seconda proposizione);
il terzo svolto personalmente dal datore di lavoro,(art. 34) in un numero limitato di casi e in particolari condizioni previste dall’allegato 2 D.Lgs81/08: deve trattarsi di una azienda artigiana o industriale con non più di 30 dipendenti ovvero di una azienda agricola o zootecnica fino a 10 dipendenti assunti a tempo indeterminato o di una azienda ittica fino a 20 dipendenti o infine di altra azienda, di tipo commerciale, turistico, di servizi ecc. con personale fino a 200 dipendenti.
Nel caso in cui, poi, il datore voglia svolgere personalmente i compiti del servizio di prevenzione aziendale deve darne preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, deve frequentare un apposito corso di formazione, promosso eventualmente dalle associazioni di categoria.
Un favor legislativo sembra darsi al servizio di prevenzione e protezione interno all’azienda, che deve obbligatoriamente essere istituito, ai sensi del comma 6 dell’art. 31 “a) nelle aziende industriali di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, soggette all’obbligo di notifica o rapporto, ai sensi degli articoli 6 e 8 del medesimo decreto;
b) nelle centrali termoelettriche;
c) negli impianti ed installazioni di cui agli articoli 7, 28 e 33 del decreto legislativo 19 marzo 1995, n. 230, e successive modificazioni;
d) nelle aziende per la fabbricazione ed il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni;
e) nelle aziende industriali con oltre 200 lavoratori;
f) nelle industrie estrattive con oltre 50 lavoratori;
g) nelle strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori”
recita poi il comma 3 dell’art. 31. “Il ricorso a persone o servizi esterni è obbligatorio in assenza di dipendenti che, all’interno dell’azienda ovvero dell’unità produttiva, siano in possesso dei requisiti di cui all’articolo 32.”
Affinché il servizio di prevenzione e protezione possa svolgere i compiti a lui affidati, il datore deve fornirgli informazioni in merito a:
- natura dei rischi
- organizzazione del lavoro, programmazione e attuazione delle misure preventive e protettive
- descrizione degli impianti e dei processi produttivi
- dati del registro degli infortuni e delle malattie professionali
- prescrizioni degli organi di vigilanza.
Sulla base di tali informazioni il responsabile del servizio deve, comunque, provvedere:
a) alla individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale;
b) ad elaborare, le misure preventive e protettive e i sistemi di cui all’art. 28 comma 2 lett. b) e i sistemi di controllo di tali misure;
c) ad elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;
d) a proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
e) a partecipare alle consultazioni in materia di tutela della salute e di sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica di cui all’art.35;
f) a fornire ai lavoratori le informazioni di cui all’art. 36.
Il responsabile del servizio prevenzione e protezione dai rischi è collaboratore del datore di lavoro il quale concorre, sia esercitando la libera professione, sia in qualità di lavoratore subordinato, alla realizzazione dei provvedimenti di organizzazione, di procedura e di carattere tecnico in materia di sicurezza sul lavoro.
Questa attività configura una responsabilità per colpa speciale ex art. 43 c.p. non essendo previste contravvenzioni a carico del soggetto in questione.
Tuttavia, in base al “principio di effettività”, va escluso che il servizio, interno o esterno, possa godere di una assoluta impunità e di un totale esonero da ogni responsabilità penale di fronte ad infortuni e malattie professionali, poiché è possibile che quest’ultima sia configurabile proprio a seguito dell’errato svolgimento di uno dei compiti di cui all’art. 33.
Sebbene il D.Lgs. 81/08 al pari del d.lgs 626/94 abbia escluso la responsabilità penale del responsabile del servizio di protezione e prevenzione, questi non può ritenersi esente dalla stessa quando il suo errore valutativo abbia determinato, non la creazione di un semplice stato di pericolo, ma la produzione di un evento lesivo del bene costituente oggetto della tutela penale.
Al riguardo è necessario operare una netta distinzione, fra il piano delle responsabilità prevenzionali derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo, e quello delle responsabilità per reati colposi di evento, quando cioè si siano verificati infortuni sul lavoro o tecnopatie.
Sotto il primo profilo, in forza del potere discrezionale di scelta attribuito al datore di lavoro, e poiché in materia di contravvenzioni, si è chiamati a rispondere anche per colpa lievissima (che può assumere i contorni della culpa in eligendo e/o della culpa in vigilando), si può affermare che il datore deve essere ritenuto responsabile, anche quando la violazione è dipesa da un errore valutativo commesso dal consulente, e nella misura in cui quell’errore sarebbe risultato evitabile con una maggiore oculatezza nella scelta dell’esperto o con una maggiore diligenza nella sorveglianza del suo operato.
Al contrario, allorché l’errore valutativo del consulente abbia provocato un evento lesivo dell’incolumità o salute di un terzo, si è in presenza di un reato comune di danno, e la ricerca delle responsabilità va, quindi, compiuta alla stregua del normale criterio secondo cui ogni comportamento colposo abbia contribuito a produrre l’evento lesivo, nella misura in cui tale condotta si inserisca eziologicamente nel determinismo causale, genera in chi l’ha posto in essere la responsabilità per ciò che è accaduto. Pertanto anche il consulente che, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza, o inosservanza di leggi o discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale, risponderà, insieme a questi, dell’evento di danno derivatone, essendo a lui imputabile a titolo di colpa professionale.
In ordine alla responsabilità relativa alla ripartizione degli obblighi di sicurezza, deve essere ribadito che la posizione del responsabile del servizio di protezione e prevenzione esterno all’azienda non può essere equiparata a quella del responsabile che sia anche dipendente dell’azienda stessa. Infatti in quest’ultimo caso il responsabile del servizio assumerà, a seconda delle competenze attribuitegli, connaturate allo svolgimento delle mansioni per le quali è stato assunto, l’eventuale responsabilità per la posizione di garanzia propria del dirigente o del preposto, e, per ciò stesso, sarà tenuto all’adempimento degli obblighi discendenti dalla sua posizione gerarchica, fra i quali particolare importanza assumono quelli di vigilanza e controllo.
MEDICO COMPETENTE:
La lettera h) dell’art. 2 lo definisce come “medico in possesso di uno dei titoli e dei requisiti formativi e professionali di cui all’articolo 38, che collabora, secondo quanto previsto all’articolo 29, comma 1, con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti di cui al presente decreto”.
E’ il sanitario incaricato dal datore di lavoro di sorvegliare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori, effettuando accertamenti sanitari preventivi e periodici al fine di accertare o confermare l’idoneità di ciascun lavoratore in relazione alle mansioni effettivamente svolte.
Ai sensi dell’art. 38 del D.lgs 81/08 deve essere in possesso di uno dei seguenti titoli:
• specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica .
• docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia e igiene sul lavoro o in clinica del lavoro
• autorizzazione di cui all’art. 55 del D.lgs 277/1991
• specializzazione in igiene e medicina preventiva o in medicina legale.
Il medico competente svolge la propria opera in qualità di dipendente di una struttura privata o pubblica convenzionata con il datore di lavoro , il libero professionista, dipendente del datore di lavoro. (art. 39)
Il medico competente accerta a spese del datore di lavoro, lo stato di salute dei lavoratori esposti ad agenti nocivi, esprime giudizi di idoneità specifica dei lavoratori istituendo all’uopo per ogni lavoratore la cartella sanitaria e di rischio che va aggiornata sotto la sua responsabilità.
Fornisce poi informazioni ai lavoratori sul significato dei controlli sanitari cui sono sottoposti , i risultati del controllo e degli esami biologici relativi alla esposizione relativi alla persona.
L’art. 41 e il successivo titolo V si occupano della sorveglianza sanitaria che è la principale attività del medico competente, e comprende la visita medica preventiva, che ha lo scopo di constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato una visita periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica, una visita medica su richiesta del lavoratore, qualora sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi professionali o alle sue condizioni di salute, suscettibili di peggioramento a causa dell’attività lavorativa svolta, al fine di esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica e una visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l’idoneità alla mansione specifica.
Lo scopo è quello di verificare che la mansione specifica svolta dal lavoratore non lo faccia ammalare, in virtù dell’art. 32 della Costituzione, e non per controllare la idoneità del lavoratore in vista della migliore produzione aziendale.
Tant’è che viene previsto all’art. 42 che nel caso di inidoneità alla mansione specifica: “Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute; e Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute”.
Deve , poi redigere la cartella sanitaria e di rischio i cui requisiti minimi sono indicati nell’allegato 3°, che ricalca in grande misura quella delineatasi dal 1991per i rischi da radiazioni ionizzanti.
In particolare, la dottrina si è interrogata se detta cartella, debba annoverare o meno gli specifici rischi lavorativi ai quali il lavoratore è stato esposto.
La Suprema Corte ha ritenuto che la cartella sanitaria deve essere completa e deve in particolare contenere l’attestazione dei rischi lavorativi ai quali il dipendente è stato esposto anche al fine di consentirgli di controllare le possibili ricadute; “In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la cartella sanitaria che il medico competente redige su ogni soggetto sottoposto alla sua sorveglianza ai sensi dell'art. 17, comma primo, lett. d) (la cui violazione è sanzionata dall'art. 92, comma primo, lett. a), D.Lgs. n. 626 del 1994), deve contenere i rischi specifici ai quali sono esposti i lavoratori e deve essere completa, in quanto deve fornire all'interessato una documentazione sanitaria esaustiva che attesti i rischi lavorativi ai quali è stato esposto, al fine di poterne controllare le possibili ricadute negative anche sul lungo termine; né tale contenuto può essere superato dalla esistenza della relazione sulla valutazione dei rischi, effettuata ai sensi dell'art. 4, comma secondo, D.Lgs. n. 626 del 1994 custodita presso l'azienda, in quanto a differenza di quest'ultima la cartella può essere sempre richiesta dal dipendente e, comunque, gli viene consegnata al momento della risoluzione del rapporto lavorativo”.
E’ il sanitario incaricato dal datore di lavoro di sorvegliare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori, effettuando accertamenti sanitari preventivi e periodici al fine di accertare o confermare l’idoneità di ciascun lavoratore in relazione alle mansioni effettivamente svolte.
Ai sensi dell’art. 38 del D.lgs 81/08 deve essere in possesso di uno dei seguenti titoli:
• specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica .
• docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia e igiene sul lavoro o in clinica del lavoro
• autorizzazione di cui all’art. 55 del D.lgs 277/1991
• specializzazione in igiene e medicina preventiva o in medicina legale.
Il medico competente svolge la propria opera in qualità di dipendente di una struttura privata o pubblica convenzionata con il datore di lavoro , il libero professionista, dipendente del datore di lavoro. (art. 39)
Il medico competente accerta a spese del datore di lavoro, lo stato di salute dei lavoratori esposti ad agenti nocivi, esprime giudizi di idoneità specifica dei lavoratori istituendo all’uopo per ogni lavoratore la cartella sanitaria e di rischio che va aggiornata sotto la sua responsabilità.
Fornisce poi informazioni ai lavoratori sul significato dei controlli sanitari cui sono sottoposti , i risultati del controllo e degli esami biologici relativi alla esposizione relativi alla persona.
L’art. 41 e il successivo titolo V si occupano della sorveglianza sanitaria che è la principale attività del medico competente, e comprende la visita medica preventiva, che ha lo scopo di constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato una visita periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica, una visita medica su richiesta del lavoratore, qualora sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi professionali o alle sue condizioni di salute, suscettibili di peggioramento a causa dell’attività lavorativa svolta, al fine di esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica e una visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l’idoneità alla mansione specifica.
Lo scopo è quello di verificare che la mansione specifica svolta dal lavoratore non lo faccia ammalare, in virtù dell’art. 32 della Costituzione, e non per controllare la idoneità del lavoratore in vista della migliore produzione aziendale.
Tant’è che viene previsto all’art. 42 che nel caso di inidoneità alla mansione specifica: “Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute; e Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute”.
Deve , poi redigere la cartella sanitaria e di rischio i cui requisiti minimi sono indicati nell’allegato 3°, che ricalca in grande misura quella delineatasi dal 1991per i rischi da radiazioni ionizzanti.
In particolare, la dottrina si è interrogata se detta cartella, debba annoverare o meno gli specifici rischi lavorativi ai quali il lavoratore è stato esposto.
La Suprema Corte ha ritenuto che la cartella sanitaria deve essere completa e deve in particolare contenere l’attestazione dei rischi lavorativi ai quali il dipendente è stato esposto anche al fine di consentirgli di controllare le possibili ricadute; “In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la cartella sanitaria che il medico competente redige su ogni soggetto sottoposto alla sua sorveglianza ai sensi dell'art. 17, comma primo, lett. d) (la cui violazione è sanzionata dall'art. 92, comma primo, lett. a), D.Lgs. n. 626 del 1994), deve contenere i rischi specifici ai quali sono esposti i lavoratori e deve essere completa, in quanto deve fornire all'interessato una documentazione sanitaria esaustiva che attesti i rischi lavorativi ai quali è stato esposto, al fine di poterne controllare le possibili ricadute negative anche sul lungo termine; né tale contenuto può essere superato dalla esistenza della relazione sulla valutazione dei rischi, effettuata ai sensi dell'art. 4, comma secondo, D.Lgs. n. 626 del 1994 custodita presso l'azienda, in quanto a differenza di quest'ultima la cartella può essere sempre richiesta dal dipendente e, comunque, gli viene consegnata al momento della risoluzione del rapporto lavorativo”.
RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA:
Viene definito dalla lett. i) dell’art.2 come persona, eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro.
Le sue attribuzioni sono indicate nell’art. 50 , sono diritti di consultazione, informazione, documentazione e partecipazione ,che però non si traduce in una responsabilizzazione soggettiva del rappresentante e dunque il RLS non soggiace a sanzioni penali o amministrative.
a) Accede ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni
b) è consultato preventivamente e tempestivamente in ordina alla valutazione dei rischi, all’individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nell’azienda o unità produttiva
c) è consultato sulla designazione degli addetti al servizio di prevenzione, all’attività di prevenzione incendi, al pronto soccorso, alla evacuazione dei lavoratori
d) è consultato in merito all’organizzazione e formazione dei lavoratori
e) riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le relative misure di preventive, nonchè inerenti le sostanze, i preparati pericolosi, le macchine, gli impianti, l’organizzazione degli ambienti di lavoro, gli infortuni e le malattie professionali,
f) riceve le informazioni proveniente dai servizi di vigilanza
g) riceve una formazione adeguata e, comunque, non inferiore a quella prevista dall’articolo 37
h) promuove l’elaborazione, l’individuazione e l’attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori
i) formula osservazioni in occasioni di visite e verifiche effettuate dalle autorità competenti
• partecipa alle riunioni periodiche per discutere i problemi attinenti alla prevenzione e protezione rischi
• l) fa proposte in merito all’attività
• m) avverte il responsabile dell’azienda dei rischi individuati nel corso della sua attività
• n) può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro e i mezzi impiegati per attuarle, non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro.
Ad eccezione della figura datoriale, gli altri soggetti rivestono, al contempo, una posizione attiva e passiva in rapporto all’obbligazione di sicurezza.
La lett. a) dell’art. 2 da la definizione di lavoratore , e la legge dispone poi in base all’art. 20 del D.Lgs. 81/08 anche i lavoratori sono titolari di un obbligo di sicurezza e quindi responsabili per la loro eventuale violazione. Il primo comma stabilisce, infatti, che .
Il secondo comma aggiunge che << i lavoratori devono in particolare:
a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro
b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale
c) utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e, nonché i dispositivi di sicurezza
d) utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione
e) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi di cui alle lettere c) e d), nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità e fatto salvo l’obbligo di cui alla successiva lettera f) per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
f) non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo
g) non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori
h) partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro
i) sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente
Alla luce delle superiori disposizioni, la duplice ottica del lavoratore come oggetto/soggetto dell’obbligo di sicurezza trova una piena e concreta attuazione.
Anche nella disciplina antecedente al D.Lgs. 626/94 si delineavano degli obblighi di sicurezza in capo ai lavoratori, laddove l’art. 6 del DPR 547/55 (e l’art. 5 del DPR 303/56 per quanto riguarda le norme di igiene del lavoro), prevedevano espressamente una rubrica “doveri dei lavoratori”. E del resto, imporre particolari doveri proprio a color che sono, in primo luogo, beneficiari della tutela conferma che l’ordinamento, in materia di sicurezza, ha di mira la protezione dell’interesse di carattere generale rappresentato dal bene-salute, fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost.). Inoltre, con l’introduzione di specifici obblighi posti a carico dei lavoratori, il legislatore ha voluto difendere il lavoratore anche contro la sua stessa imprudenza, ovvero impedire che la temerarietà di alcuni lavoratori possa mettere in pericolo l’incolumità dei compagni di lavoro o di terzi estranei all’attività lavorativa.
In forza del disposto dell’art. 20 D.Lgs. 81/08 gli obblighi di sicurezza gravanti sul lavoratore si precisano, concretizzandosi nella costituzione di una vera e propria “posizione di garanzia” avente ad oggetto la tutela dell’incolumità dei propri colleghi, specificata negli otto punti di cui al secondo comma della medesima norma. Tale posizione obbligatoria potrà rendere il lavoratore subordinato responsabile per l’infortunio occorso a terzi, non solo nel caso di fattispecie commissive, ma anche nel caso di fattispecie omissive improprie, ovvero nel caso in cui egli abbia cagionato un danno a terzi in conseguenza di una mancata azione che aveva il dovere di compiere.
Infatti, l’esistenza in capo ad un soggetto dell’obbligo di tutelare determinati beni giuridici da ogni tipo di lesione e dell’obbligo di sorveglianza di una fonte di pericolo derivante da un potere di organizzazione o di disposizione su cose o situazioni potenzialmente pericolose (ovvero una posizione che comporta obblighi di protezione ed obblighi di controllo) determina che l’omissione delle stesse azioni, necessarie alla tutela del bene da salvaguardare, viene normativamente equiparata, nel caso si verifichi l’evento vietato, alla causazione dell’evento stesso.
Tuttavia l’obbligo giuridico posto in capo al lavoratore trova una forte delimitazione nel 2° comma, lett. g), dello stesso articolo, laddove il legislatore sottolinea come l’obbligo di cooperazione del prestatore di lavoro nell’adozione delle misure di sicurezza, seppure posto sullo stesso piano di quello dei soggetti tradizionalmente ritenuti destinatari della normativa antinfortunistica e investiti del ruolo di “garanti” del bene tutelato, deve essere esaminato alla luce dei limiti ed in base ai compiti propri di ogni specifica figura.
Non sarebbe pensabile, infatti, che, il contributo del lavoratore all’adempimento, insieme ai soggetti dell’organizzazione aziendale, delle prescrizioni prevenzionali, possa configurarsi come un dovere di intervento in supplenza delle eventuali inerzie od incurie dei principali destinatari dei precetti in questione.
E’ ovvio che ciò presupporrebbe l’attribuzione di poteri decisionali ed organizzativi di cui il lavoratore, per definizione, non dispone. Egli, pertanto, è tenuto ad adoperarsi direttamente per eliminare o ridurre deficienze di protezione o pericoli emergenti solo nei casi di urgenza e con tempestivo avviso al rappresentante per la sicurezza.
Nella prassi, peraltro, poiché la violazione di regole prevenzionali da parte del lavoratore emerge generalmente in occasione di un infortunio, si è avuta la tendenza ad escludere la contestazione di reati contravvenzionali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro ai prestatori.
Con riguardo al dovere di diligenza, in linea generale può affermarsi che il lavoratore pone in essere una prestazione diligente se osserva le regole di tecnica e di esperienza connaturate al tipo di mansione, ovvero al tipo di prestazione lavorativa dovuta.
In tale osservanza rientrano anche gli obblighi prevenzionali posti dalla legislazione e le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, il datore di lavoro predispone, in base all’art. 2087 c.c., al fine di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Infatti, l’obbligo di diligenza imposto al lavoratore dall’art. 2104 c.c. (in base al quale, ad esempio, il lavoratore che sia addetto al funzionamento di impianti o apparecchiature complessi o pericolosi, deve usare una diligenza più intensa di quella che si richiede ad un lavoratore addetto a mansioni ripetitive o elementari) comporta, necessariamente, l’assolvimento degli obblighi relativi alla prevenzione degli infortuni, sia per quelli che possono riguardare il destinatario immediato del precetto che per quelli che possano coinvolgere gli altri lavoratori presenti sui luoghi di lavoro.
In tal senso, poiché inabilità, imperizia o scarso rendimento configurano una mancanza di diligenza, e quindi possono dare luogo all’inadempimento della prestazione, in base all’art. 2106 c.c. la violazione delle misure di sicurezza previste dal legislatore o dal datore di lavoro, dà luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari commisurate alla gravità dell’infrazione
Insieme all’obbligo di diligenza l’art. 2104 c.c. pone al lavoratore, come ulteriore requisito della prestazione lavorativa, l’obbligo di obbedienza, che si sostanzia nel dovere di osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo, dai quali gerarchicamente dipende il prestatore di lavoro, e che configura il lato attivo della subordinazione, derivante dalla facoltà riconosciuta contrattualmente all’imprenditore di determinare le norme tecnico-organizzative cui il lavoratore deve attenersi per adempiere alla sua prestazione.
Nell’ottica antinfortunistica, tale obbligo determina in capo al lavoratore il dovere di osservare, oltre alle norme di legge poste dal legislatore a tutela dell’interesse generale della salute e della sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro, anche le misure, tanto individuali che collettive, disposte dal datore di lavoro per finalità prevenzionali. In base all’art. 2087 c.c., tali misure potranno essere anche quelle che il datore di lavoro pone in essere sulla scorta delle proprie esperienze o delle conoscenze acquisite in altre realtà, e che a suo giudizio integrano e migliorano le condizioni minime previste dalle norme di legge.
Il potere di direzione di cui è investito il datore di lavoro implica un vero e proprio potere normativo generale il quale determina una potestà esecutiva di predeterminazione e conformazione oltre che una potestà di controllo ed una potestà disciplinare.
La prima manifestazione del potere direttivo consiste nella facoltà dell’imprenditore di prestabilire una determinata disciplina afferente l’organizzazione del lavoro ed il sistema delle lavorazioni, gli orari ed i turni, le prescrizioni generali riguardanti l’ordinamento tecnico del lavoro.
La seconda manifestazione del potere direttivo è relativa alla preordinazione tecnica delle varie prestazioni lavorative ed implica, da parte dei dipendenti, l’aderenza all’organizzazione di lavoro ed ai suoi procedimenti tecnici, nonché la collaborazione nel raggiungimento dei fini che il datore di lavoro ha indicato e persegue. Tale manifestazione si estrinseca nel c.d. potere di conformazione che si esplica mediante ordini interni di servizio che indicano, di volta in volta, al singolo lavoratore, il contenuto della sua prestazione, in relazione al suo posto di lavoro.
La terza manifestazione del potere direttivo è il c.d. potere di controllo che rappresenta un potere derivato da quello normativo e da quello di conformazione. In questo senso, affinché l’esecuzione del lavoro avvenga secondo le prescrizioni e le modalità tecniche stabilite dal datore di lavoro, è necessario che questi accerti l’avvenuto adempimento o l’inadempimento dell’obbligazione del prestatore di lavoro.
La quarta manifestazione del potere direttivo del datore di lavoro è il potere disciplinare, logica conseguenza del potere di controllo. L’equilibrio del rapporto di lavoro si basa sul presupposto della soggezione del lavoratore nei confronti dei poteri organizzativi e direttivi del datore di lavoro. Con il comportamento inadempiente del lavoratore ex art. 2104 c.c., si determina una sottrazione della posizione direttiva del datore di lavoro e l’equilibrio giuridico tra i due soggetti del rapporto viene meno. Il potere disciplinare del datore di lavoro ha, dunque, la funzione di restituire efficacia immediata all’autorità direttiva dell’imprenditore e, contemporaneamente, costituire il presupposto per l’irrogazione di una sanzione per la violazione degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro.
Con riguardo alla normativa antinfortunistica, lo strumento disciplinare attribuito al datore di lavoro è espressione della “posizione di garanzia”, gravante sullo stesso, del bene dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro, da cui derivano l’obbligo di eliminazione o riduzione dei rischi alla fonte, l’obbligo del continuo aggiornamento delle misure di prevenzione in conseguenza dell’evoluzione tecnologica e l’obbligo di vigilanza dei lavoratori affinché osservino le norme di sicurezza e di igiene ed usino i mezzi di protezione collettivi ed individuali messi a loro disposizione .
In base all’art. 20, 1° comma, D.Lgs. 81/08, la possibilità di pretendere dal lavoratore l’adempimento dell’obbligo di prendersi cura della propria sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, è subordinata . Anche sulla base dell’elaborazione penalistica un comportamento è rimproverabile al suo autore solo in quanto da lui poteva pretendersi l’osservanza delle regole di condotta impeditive dello stesso.
Alla luce della nuova normativa il lavoratore, in tanto può essere chiamato a rispondere di inosservanza degli obblighi dalla legge posti a suo carico, in quanto egli sia stato effettivamente posto, dal datore di lavoro e/o dai collaboratori di quest’ultimo, nelle condizioni di poterli adempiere, essendo stato provvisto dei prescritti congegni e dispositivi di protezione in perfetta regola e contemporaneamente di adeguate istruzioni sulle modalità e sulla necessità dei loro corretto impiego. Pertanto, condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione della sanzione disciplinare, o per la configurabilità della responsabilità penale nei confronti del lavoratore inadempiente agli obblighi di sicurezza, è che il datore di lavoro abbia, a sua volta, adempiuto agli obblighi, soggettivi ed oggettivi, nei confronti dello stesso
Conclusivamente, la violazione degli obblighi di cui all’art. 20 D.Lgs. 81/08 (fra i quali, in via esemplificativa, rientrano: l’utilizzazione corretta dei macchinari, delle apparecchiature, degli utensili, delle sostanze e dei preparati pericolosi, dei mezzi di trasporto, delle attrezzature di lavoro; l’utilizzazione dei dispositivi di protezione; la segnalazione delle deficienze dei mezzi, dei dispositivi e delle condizioni di pericolo; la rimozione o modificazione senza autorizzazione dei dispositivi di sicurezza o di segnalazione e controllo, l’esecuzione di operazioni o manovre non di loro competenza, la sottoposizione ai controlli sanitari previsti nei loro confronti; la sottoposizione ai programmi informativo/formativi ecc.) oltre ad essere soggetta a sanzioni penali (art. 59 D.Lgs. 81/08: arresto fino ad 1 mese o ammenda da 200 a 600 Euro per ogni inadempienza), potrebbe costituire un’infrazione disciplinare tale da giustificare anche il licenziamento.
La mancata reazione disciplinare del datore di lavoro di fronte alle inadempienze di cui sopra, espressione dell’obbligo di diligenza e di obbedienza del lavoratore, comportando una sostanziale tolleranza ed inerzia, integra una vera e propria omissione colposa, valutabile ai fini della responsabilità nell’ipotesi in cui si realizzino infortuni causalmente collegati all’inosservanza della regola disattesa. Tale responsabilità si configurerà tanto nel caso in cui vittima dell’infortunio sia stato lo stesso lavoratore negligente, quanto nel caso in cui la parte lesa sia un altro lavoratore danneggiato dall’inosservanza della regola antinfortunistica violata.
In conclusione è possibile affermare che il lavoratore, non essendo più un semplice destinatario delle norme di sicurezza, ma essendo chiamato in prima persona, nel sistema previsto dal D.Lgs. 81/08, ad applicarle è, per ciò stesso, tenuto a comportamenti avveduti, accorti, prudenti ed all’osservanza delle norme poste dal legislatore ed eventualmente dal datore di lavoro, al fine di tutelare il bene della salute della collettività dei lavoratori.
Questo, tuttavia, non significa che possa andare esente da responsabilità il datore di lavoro o il suo delegato che abbia provveduto a predisporre le misure e ad impartire all’inizio le informazioni e le direttive necessarie, omettendo in seguito di curarne l’osservanza e tollerando, in particolare, l’instaurarsi di prassi irregolari ed imprudenti. All’opposto, in un luogo di lavoro attrezzato nel rispetto delle misure di sicurezza ed al cospetto di un lavoratore “formato”, il datore di lavoro si potrà, dunque, legittimamente attendere che quelle istruzioni, qualificabili come ordini di servizio, siano da quest’ultimo rispettate e, in caso contrario, sia lo stesso lavoratore a sopportarne le conseguenze anche penali. Nella ripartizione e nell’accertamento della responsabilità colposa fra i destinatari degli obblighi di sicurezza, infatti, il c.d. “principio di affidamento”, secondo cui ognuno dei destinatari dei diversi doveri di diligenza fra loro interferenti allo scopo di debellare i pericoli originari da una data situazione, può legittimamente confidare sul fatto che gli altri soggetti si conformino alle diverse richieste comportamentali loro singolarmente rivolte, assume particolare rilievo.
• l'associato in partecipazione di cui all'articolo 2549 e seguenti del codice civile;
• il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196 e di cui
a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro;
• l'allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi
di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le pparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l'allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione;
• il volontario, come definito dalla legge 1 agosto 1991, n. 266;
• i volontari del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco e della protezione civile;
• il volontario che effettua il servizio civile;
• il lavoratore di cui al decreto legislativo 1°dicembre 1997, n. 468 e successive modificazioni e integrazioni;
A livello legislativo, discendente dai principi costituzionali ed a specificazione degli stessi, la principale fonte diretta del dovere di sicurezza, posto a capo del datore di lavoro, è individuabile nel già più volte richiamato art. 2087 c.c., il quale pur rivolgendosi, specificamente, solo all’imprenditore, è, in realtà, esteso di diritto a tutti i datori di lavoro, i quali sono chiamati, non solo a tutelare direttamente il singolo o i singoli che prestano l’attività alle loro dipendenze, ma anche a collaborare con lo Stato nella funzione di prevenzione e di tutela dell’integrità fisica e della personalità umana.
Il legislatore, impone, pertanto, al datore di lavoro, l’adozione di tutte le misure, le procedure organizzative ed i mezzi tecnici idonei a prevenire gli infortuni, sia in quanto previsti obbligatoriamente dalla legislazione speciale di prevenzione e protezione sia in quanto necessarie alla stregua dei dati di comune esperienza, prudenza, diligenza, prevedibilità in relazione all’attività svolta.
Il datore di lavoro tenuto quindi a impartire direttive e istruzioni idonee a rendere edotti i dipendenti sui rischi connessi alla mancata attuazione dei presidi e delle disposizioni, vigilando con prudente e continua attenzione affinchè i mezzi di tutela vengano effettivamente attuati.
Suddetto principio espresso dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, più volte, è stato profuso nel decreto legislativo 81/08 che impone al datore di lavoro qualunque sia il tipo di lavoro che andranno a svolgere i suoi dipendenti e qualunque sia la dimensione dell’azienda tre ordini di obblighi:
1. valutazione dei rischi inerenti al tipo di lavoro svolto nell’azienda
2. individuazione di un soggetto responsabile per la sicurezza e sua formazione
3. formazione e informazione sui rischi ai lavoratori .
Spetta cioè al datore di lavoro il ruolo principale nella gestione della sicurezza, con l’osservanza delle misure generali di protezione, con la scelta delle attrezzature di lavoro, delle sostanze e dei prodotti chimici impiegati, con la sistemazione dei luoghi di lavoro e, infine, con la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, analizzando tutte le situazioni anche quelle relative a singole figure o a singoli gruppi. Connesso a tale ruolo è, ovviamente, la predisposizione dell’onere finanziario derivante dall’adozione delle misure di sicurezza.
Obblighi delegabili e obblighi non delegabili
Sebbene il principale responsabile per l’adempimento delle misure di sicurezza e di igiene del lavoro sia il soggetto qualificabile come datore di lavoro, alla luce della necessaria suddivisione delle funzioni e dei poteri direttivi all’interno dell’impresa, anche le relative responsabilità potranno essere, e normalmente verranno, ripartite di conseguenza.
Ovviamente, la ripartizione degli obblighi di sicurezza si potrà realizzare anche in base ad uno specifico documento di delega con il quale, indipendentemente dalle funzioni relative alla propria mansione, ad un soggetto vengono attribuiti funzioni, poteri connessi e responsabilità normalmente ricadenti su altri.
Tale delega, di cui si è detto, non potrà mai avere ad oggetto gli obblighi di cui all’art. 17 T.U. , vale a dire :
1) valutazione di tutti i rischi con la conseguente adozione dei documenti previsti dall’articolo 28
2) la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.
Del responsabile del servizio di prevenzione e protezione si è già detto, pertanto con riferimento all’obbligo della valutazione dei rischi, si dirà che principio fondamentale da cui muove tale obbligo è che ogni lavoro presenta un potenziale di rischio per la salute e la sicurezza sul lavoro in tutti mi settori di attività sia pubblici che privati.
La valutazione dei rischi serve per individuare quale siano le misure di prevenzione più adeguate per evitare l’infortunio o la malattia professionale.
In ossequio al principio della piena collaborazione tra i soggetti interessati alla sicurezza, per il suo adempimento il datore di lavoro può farsi coadiuvare dal medico competente, dal responsabile del servizio di protezione e prevenzione e dal rappresentante per la sicurezza e qualora l’adempimento dell’obbligo di valutazione dei rischi richieda delle competenze professionali specialistiche il datore di lavoro può farsi cooperare anche da uno staff di tecnici esterno all’azienda.
Nella formulazione del d.lgs 626/94 si limitava a precisare che il giudizio di valutazione dovesse riguardare “tutti i rischi”.
Tale impostazione però è stata oggetto di critica da parte di autorevole dottrina , che aveva evidenziato suddetta previsione, non imponendo alcun parametro, alcuna indicazione o alcun limite alla modalità di valutazione del rischio, si ispiri al concetto della norma penale in bianco, con la particolarità che nella materia in esame il vuoto lasciato dal legislatore viene riempito dalla discrezionalità del privato.
Nel tentativo di superare questo empasse il legislatore del 2008, all’art. 28 recita “la valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi”.
Devono cioè essere oggetto di valutazione tutti i rischi connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa, che devono essere valutati con riferimento a ciascuna mansione o a ciascun lavoratore.
Occorre esaminare sistematicamente tutti gli aspetti del lavoro per definire quali siano le cause probabili di lesioni o di danni per eliminarle o prendere idonee misure protettive, poiché dalla valutazione dei rischi discenderanno tutte le ulteriori misure (tecniche e procedurali) alla cui programmazione ed attuazione la valutazione stessa è finalizzata
Suddetto procedimento troverà poi sua formalizzazione nella elaborazione del Documento di Valutazione dei rischi, che è punto di riferimento per il datore di lavoro e per tutti coloro che intervengono nelle attività rivolte alla sicurezza.
Tale documento deve essere redatto dal datore di lavoro che intraprende una nuova attività entro tre mesi dall’effettivo inizio delle stessa e deve contenere:
a) relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa;
b) individuazione delle misure di prevenzione e protezione e dei dispositivi di protezione individuale
c) programma delle misure ritenute opportune per garantire nel tempo il miglioramento dei livelli di sicurezza.
Il documento va conservato nell’azienda ed esibito agli organi ispettivi per consentire l’attività di vigilanza. Va poi rielaborato in occasione delle modifiche del processo produttivo che possano incidere in maniera significativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori.
Accanto al documento di valutazione dei rischi deve essere poi redatto e tenuto costantemente aggiornato il PIANO DI EMERGENZA, che contiene la programmazione di azioni ed interventi da effettuare qualora possano realizzarsi pericoli gravi e immediati, piano che ha lo scopo di minimizzare le conseguenze dannose per i lavoratori e gli altri soggetti presenti sul luogo del lavoro. Occorre quindi individuare le misure di emergenza da attuare in caso di pronto soccorso, incendio, evacuazione dei lavoratori in caso di pericolo grave ed immediato.
Infine il datore di lavoro di concerto con i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, deve individuare i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di lotta antincendio, pronto soccorso, evacuazione dei lavoratori e gestione delle emergenze.
la regola della massima sicurezza tecnologicamente fattibile
la lett. c) dell’art. 15 stabilisce che costituisce “misura generale” di sicurezza la l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico
A differenza del legislatore comunitario, il quale limita la responsabilità del datore di lavoro alla soglia della “ragionevole praticabilità delle misure di sicurezza adottande”, il legislatore del 2008 ha ribadito il principio della “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”, il quale impegna il datore di lavoro ad una continua ricerca e ad un progressivo ammodernamento delle misure di sicurezza per tenere conto delle modifiche intervenute nell’organizzazione del lavoro, con il solo limite che i dati utilizzabili in ragione della esperienza e della tecnica sono, esclusivamente, quelli acquisiti al comune patrimonio tecnico e scientifico (in altre parole, le tecnologie disponibili sul mercato).
Al fine di evitare una eccessiva discrezionalità dell’organo giudicante chiamato a valutare il rispetto del predetto principio, lo stesso è stato interpretato nel senso di rendere obbligatorie le tecnologie e gli accorgimenti organizzativi generalmente praticati, in modo da ritenere penalmente sanzionabile soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento delle diverse attività produttive. Al giudice, pertanto, spetterà di valutare non tanto se una certa misura sia compresa nel patrimonio di conoscenza di diversi settori, ma se essa sia accolta negli standard di produzione industriale, o comunque specificamente prescritta.
l’obbligo di informazione e formazione dei lavoratori (sezione IV titoloI)
Mentre l’obbligo di valutazione del rischio unitamente alla designazione del responsabile del servizio di prevenzione è proprio del solo datore di lavoro, gli obblighi di formazione ed informazione gravano anche sui dirigenti e sui preposti: prevede la legge che i lavoratori devono essere informati e formati sui rischi per la salute e la sicurezza connessi all’attività dell’azienda, sulle misure e le attività di protezione e prevenzione adottate, sui rischi specifici cui sono esposti in relazione all’attività svolta, sulle normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia, sui pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi, sulle procedure che riguardano il pronto soccorso, la lotta antincendio e l’evacuazione.
Come ha sottolineato la Suprema Corte “il generico credito di sicurezza vantato dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro, o preposto, o delegato è stato concretato in credito di informazione e di formazione…” .
La formazione, che viene definita come “l’insieme di tutte le misure che forniscono le attitudini e le conoscenze necessarie allo svolgimento di una attività professionale qualificata e sicura”, segna a detta della dottrina il passaggio “da un sistema di prevenzione tecnologico, basato cioè sugli strumenti tecnici, sulla qualità degli attrezzi…ad un sistema di prevenzione incentrato sull’uomo” .
L’art. 37 del d.lgs 81/2008 precisa che accanto alla formazione ed informazione, può esservi anche l’addestramento specifico, che deve essere effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro.
Le informazioni, in quanto processo divulgativo di dati, notizie, nozioni, diretto alla indicazione dei rischi sul lavoro e delle modalità di prevenzione degli stessi, devono essere “comprensibili”, aspetto che assume sempre maggiore rilevanza se si considera il crescente impiego di lavoratori con lingua e cultura diversa da quella del datore di lavoro.
L’attività informativa deve rispondere, infatti, all’esigenza di far conoscere al singolo dipendente, in modo semplice, diretto ed operativo, tutti quegli elementi che, quotidianamente, possono servirgli per garantire, quale elemento di una struttura complessa, a sé stesso ed all’azienda, un lavoro più sicuro.
La giurisprudenza ha interpretato restrittivamente tale obbligo di informazione, ritenendo che “il dovere di informare il lavoratore concerne i rischi ai quali il medesimo è esposto nell’ambito delle specifiche mansioni ad esso attribuite, con esclusione di ogni altro settore estraneo a tale campo di azione nel quale si esplicano le mansioni di sua specifica competenza” .
Il datore di lavoro è tenuto a fornire ai suoi dipendenti informazioni riguardanti:
• i rischi per la salute e la sicurezza connessi all’attività dell’azienda
• le misure e le attività di protezione e prevenzione adottate
• i rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendale in materia
• i pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi
• le procedure che riguardano il pronto soccorso, la lotta antincendio, l’evacuazione dei lavoratore
• il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed il medico competente
• i nominativi dei lavori incaricati di applicare le misure previste in caso di incendio, evacuazione dal posto di lavoro e notizie per il caso di pronto soccorso e di assistenza medica di emergenza.
La formazione deve avvenire in occasione:
• dell’assunzione
• del trasferimento o cambiamento di mansioni
• dell’introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie di nuove sostanze e preparati pericolosi.
Naturalmente i contenuti della formazione devono essere commisurati alle risultanze della valutazione dei rischi e devono riguardare:
- i rischi riferiti al posto di lavoro e alle mansioni svolte, nonchè i possibili danni e le conseguenti procedure di prevenzione e protezione;
- nozioni relative ai diritti e doveri dei lavoratori in materia di sicurezza e salute sul posto di lavoro
- cenni di tecnica della comunicazione interpersonale in relazione al ruolo partecipativo.
Particolare informazione e formazione deve poi essere fornita ai lavoratori esposti a rischi specifici.
Aspetto fondamentale della sicurezza dell’ambiente di lavoro è rappresentato dalla tutela antincendio.
La sicurezza antincendio si sostanzia nell’insieme di misure idonee a prevenire ed estinguere incendi. Riguardano sia i mezzi in concreto da utilizzare che le persone che devono utilizzarli.
In attesa dell’adozione dei decreti da adottarsi di concerto del ministro dell’interno con quello del lavoro e previdenza sociali continua ad applicarsi il decreto ministeriale 10 marzo 1998 che, fissa i criteri generali della sicurezza antincendio e per la gestione dell’emergenza , cui il datore di lavoro deve attenersi :
1. criteri per la specifica valutazione del rischio di incendio
2. misure preventive, protettive e precauzionali di esercizio da adottare in base ai risultati della valutazione
3. interventi di controllo e manutenzione degli impianti e delle attrezzature antincendio
4. gestione del piano di emergenza in caso di incendio
5. designazione e formazione della cd. squadra antincendio addetti al servizio antincendio e la loro formazione.
La valutazione del rischio di incendio mira sia alla identificazione dei fattori aziendali che possano accrescere la probabilità di incendio, quali materiali, lavorazioni, carenze costruttive e impiantistiche, carenze organizzativo- gestionali che possano accrescere la probabilità d’incendio , sia all’identificazione delle persone esposte al rischio di subire danni dal verificarsi di incendi. Individuati questi punti il datore di lavoro dovrà stabilire per ciascun fattore di rischio se può essere eliminato o ridotto allo scopo di stimare il livello complessivo di rischio di incendio del luogo di lavoro (rischio residuo) e verificare l’adeguatezza delle misure di sicurezza esistenti.
Deve poi redigere un documento che integrerà il piano aziendale di sicurezza, ove vengano individuate le misure per ridurre la probabilità dell’insorgenza di un incendio( impianti elettrici a regola d’arte, messa a terra di impianti) e per limitarne le conseguenze ( uscite di emergenza, misure per rapida segnalazione dell’incendio, estintori, impianti fissi), nonchè fissare le regole sulla sorveglianza, controllo periodico e manutenzione della attrezzatura.
Le attività di prevenzione debbono poi essere sottoposte ad una approvazione preventiva del Comando dei Vigili del fuoco e a lavori ultimati deve essere chiesta la visita di collaudo che in caso di esito positivo si concluderà con il rilascio del certificato di prevenzione incendi che ha validità dai 3 ai 6 anni a seconda della attività. Prima della scadenza deve esserne richiesto il rinnovo. Qualora si intenda modificare lo stato dei luoghi o processo produttivo occorre presentare al Comando dei vigili del fuoco un progetto di variante, nonchè comunicare per iscritto l’eventuale cessazione di attività.
Il datore di lavoro deve poi designare la squadra antincendio, cioè i lavoratori che dovranno attuare i mezzi di prevenzione e la lotta contro gli incendi, e redigere il piano di emergenza che va predisposto dopo una attenta analisi degli eventi accidentali che possono verosimilmente ipotizzarsi, con riferimento ai materiali utilizzati nelle lavorazioni, le macchine , i residui di lavorazione, il riscaldamento e l’areazione dell’ambiente. Il piano deve contenere in maniera chiara la descrizione delle operazioni da compiere e la successione temporale delle stesse, evacuazione dei luoghi di lavoro, le disposizioni e le modalità per chiedere l’intervento dei vigili del fuoco.
LUOGO DI LAVORO (titolo II)
L’art. 62 co.1 lett.a) del D.lgs 81/08 definisce i luoghi di lavoro come “i luoghi destinati a contenere i posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda ovvero dell’unità produttiva, nonchè ogni altro luogo nell’area della medesima azienda ovvero unità produttiva comunque accessibile per il lavoro”. L’art. 63 e 64 contengono prescrizioni di carattere generale miranti ad assicurare la fungibilità dei percorsi e passaggi di emergenza.
I requisiti specifici di sicurezza e salute dei luoghi di lavoro sono specificati nell’allegato IV
Vengono così definiti nel dettaglio i limiti di altezza, cubatura e superficie per i locali in cui si svolge il lavoro e per assicurare la purezza dell’aria, pulizia dei locali, temperatura, congrua disponibilità d’acqua e adeguata illuminazione, evitando buche e sporgenze pericolose nei pavimenti nonchè pulizia del luogo di lavoro.
I luoghi di lavoro devono essere strutturati tenendo conto degli eventuali portatori di handicap, con riferimento alle porte, vie di circolazione , scale, docce gabinetti nonchè i posti di lavoro utilizzati o occupati dai portatori di handicap
Le sue attribuzioni sono indicate nell’art. 50 , sono diritti di consultazione, informazione, documentazione e partecipazione ,che però non si traduce in una responsabilizzazione soggettiva del rappresentante e dunque il RLS non soggiace a sanzioni penali o amministrative.
a) Accede ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni
b) è consultato preventivamente e tempestivamente in ordina alla valutazione dei rischi, all’individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nell’azienda o unità produttiva
c) è consultato sulla designazione degli addetti al servizio di prevenzione, all’attività di prevenzione incendi, al pronto soccorso, alla evacuazione dei lavoratori
d) è consultato in merito all’organizzazione e formazione dei lavoratori
e) riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le relative misure di preventive, nonchè inerenti le sostanze, i preparati pericolosi, le macchine, gli impianti, l’organizzazione degli ambienti di lavoro, gli infortuni e le malattie professionali,
f) riceve le informazioni proveniente dai servizi di vigilanza
g) riceve una formazione adeguata e, comunque, non inferiore a quella prevista dall’articolo 37
h) promuove l’elaborazione, l’individuazione e l’attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori
i) formula osservazioni in occasioni di visite e verifiche effettuate dalle autorità competenti
• partecipa alle riunioni periodiche per discutere i problemi attinenti alla prevenzione e protezione rischi
• l) fa proposte in merito all’attività
• m) avverte il responsabile dell’azienda dei rischi individuati nel corso della sua attività
• n) può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro e i mezzi impiegati per attuarle, non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro.
I LAVORATORI
La normativa in tema di sicurezza del lavoro ha sempre avuto, come caratteristica principale, quella di prevedere una ripartizione dell’obbligo di sicurezza tra i soggetti operanti ai vari livelli all’interno dell’impresa, nell’ambito della tipica scansione gerarchica vertice-base, partendo dal datore di lavoro, passando per il dirigente ed il preposto e concludendo con il lavoratore.Ad eccezione della figura datoriale, gli altri soggetti rivestono, al contempo, una posizione attiva e passiva in rapporto all’obbligazione di sicurezza.
La lett. a) dell’art. 2 da la definizione di lavoratore , e la legge dispone poi in base all’art. 20 del D.Lgs. 81/08 anche i lavoratori sono titolari di un obbligo di sicurezza e quindi responsabili per la loro eventuale violazione. Il primo comma stabilisce, infatti, che .
Il secondo comma aggiunge che << i lavoratori devono in particolare:
a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro
b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale
c) utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e, nonché i dispositivi di sicurezza
d) utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione
e) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi di cui alle lettere c) e d), nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità e fatto salvo l’obbligo di cui alla successiva lettera f) per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
f) non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo
g) non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori
h) partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro
i) sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente
Alla luce delle superiori disposizioni, la duplice ottica del lavoratore come oggetto/soggetto dell’obbligo di sicurezza trova una piena e concreta attuazione.
Anche nella disciplina antecedente al D.Lgs. 626/94 si delineavano degli obblighi di sicurezza in capo ai lavoratori, laddove l’art. 6 del DPR 547/55 (e l’art. 5 del DPR 303/56 per quanto riguarda le norme di igiene del lavoro), prevedevano espressamente una rubrica “doveri dei lavoratori”. E del resto, imporre particolari doveri proprio a color che sono, in primo luogo, beneficiari della tutela conferma che l’ordinamento, in materia di sicurezza, ha di mira la protezione dell’interesse di carattere generale rappresentato dal bene-salute, fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost.). Inoltre, con l’introduzione di specifici obblighi posti a carico dei lavoratori, il legislatore ha voluto difendere il lavoratore anche contro la sua stessa imprudenza, ovvero impedire che la temerarietà di alcuni lavoratori possa mettere in pericolo l’incolumità dei compagni di lavoro o di terzi estranei all’attività lavorativa.
In forza del disposto dell’art. 20 D.Lgs. 81/08 gli obblighi di sicurezza gravanti sul lavoratore si precisano, concretizzandosi nella costituzione di una vera e propria “posizione di garanzia” avente ad oggetto la tutela dell’incolumità dei propri colleghi, specificata negli otto punti di cui al secondo comma della medesima norma. Tale posizione obbligatoria potrà rendere il lavoratore subordinato responsabile per l’infortunio occorso a terzi, non solo nel caso di fattispecie commissive, ma anche nel caso di fattispecie omissive improprie, ovvero nel caso in cui egli abbia cagionato un danno a terzi in conseguenza di una mancata azione che aveva il dovere di compiere.
Infatti, l’esistenza in capo ad un soggetto dell’obbligo di tutelare determinati beni giuridici da ogni tipo di lesione e dell’obbligo di sorveglianza di una fonte di pericolo derivante da un potere di organizzazione o di disposizione su cose o situazioni potenzialmente pericolose (ovvero una posizione che comporta obblighi di protezione ed obblighi di controllo) determina che l’omissione delle stesse azioni, necessarie alla tutela del bene da salvaguardare, viene normativamente equiparata, nel caso si verifichi l’evento vietato, alla causazione dell’evento stesso.
Tuttavia l’obbligo giuridico posto in capo al lavoratore trova una forte delimitazione nel 2° comma, lett. g), dello stesso articolo, laddove il legislatore sottolinea come l’obbligo di cooperazione del prestatore di lavoro nell’adozione delle misure di sicurezza, seppure posto sullo stesso piano di quello dei soggetti tradizionalmente ritenuti destinatari della normativa antinfortunistica e investiti del ruolo di “garanti” del bene tutelato, deve essere esaminato alla luce dei limiti ed in base ai compiti propri di ogni specifica figura.
Non sarebbe pensabile, infatti, che, il contributo del lavoratore all’adempimento, insieme ai soggetti dell’organizzazione aziendale, delle prescrizioni prevenzionali, possa configurarsi come un dovere di intervento in supplenza delle eventuali inerzie od incurie dei principali destinatari dei precetti in questione.
E’ ovvio che ciò presupporrebbe l’attribuzione di poteri decisionali ed organizzativi di cui il lavoratore, per definizione, non dispone. Egli, pertanto, è tenuto ad adoperarsi direttamente per eliminare o ridurre deficienze di protezione o pericoli emergenti solo nei casi di urgenza e con tempestivo avviso al rappresentante per la sicurezza.
Nella prassi, peraltro, poiché la violazione di regole prevenzionali da parte del lavoratore emerge generalmente in occasione di un infortunio, si è avuta la tendenza ad escludere la contestazione di reati contravvenzionali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro ai prestatori.
Con riguardo al dovere di diligenza, in linea generale può affermarsi che il lavoratore pone in essere una prestazione diligente se osserva le regole di tecnica e di esperienza connaturate al tipo di mansione, ovvero al tipo di prestazione lavorativa dovuta.
In tale osservanza rientrano anche gli obblighi prevenzionali posti dalla legislazione e le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, il datore di lavoro predispone, in base all’art. 2087 c.c., al fine di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Infatti, l’obbligo di diligenza imposto al lavoratore dall’art. 2104 c.c. (in base al quale, ad esempio, il lavoratore che sia addetto al funzionamento di impianti o apparecchiature complessi o pericolosi, deve usare una diligenza più intensa di quella che si richiede ad un lavoratore addetto a mansioni ripetitive o elementari) comporta, necessariamente, l’assolvimento degli obblighi relativi alla prevenzione degli infortuni, sia per quelli che possono riguardare il destinatario immediato del precetto che per quelli che possano coinvolgere gli altri lavoratori presenti sui luoghi di lavoro.
In tal senso, poiché inabilità, imperizia o scarso rendimento configurano una mancanza di diligenza, e quindi possono dare luogo all’inadempimento della prestazione, in base all’art. 2106 c.c. la violazione delle misure di sicurezza previste dal legislatore o dal datore di lavoro, dà luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari commisurate alla gravità dell’infrazione
Insieme all’obbligo di diligenza l’art. 2104 c.c. pone al lavoratore, come ulteriore requisito della prestazione lavorativa, l’obbligo di obbedienza, che si sostanzia nel dovere di osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo, dai quali gerarchicamente dipende il prestatore di lavoro, e che configura il lato attivo della subordinazione, derivante dalla facoltà riconosciuta contrattualmente all’imprenditore di determinare le norme tecnico-organizzative cui il lavoratore deve attenersi per adempiere alla sua prestazione.
Nell’ottica antinfortunistica, tale obbligo determina in capo al lavoratore il dovere di osservare, oltre alle norme di legge poste dal legislatore a tutela dell’interesse generale della salute e della sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro, anche le misure, tanto individuali che collettive, disposte dal datore di lavoro per finalità prevenzionali. In base all’art. 2087 c.c., tali misure potranno essere anche quelle che il datore di lavoro pone in essere sulla scorta delle proprie esperienze o delle conoscenze acquisite in altre realtà, e che a suo giudizio integrano e migliorano le condizioni minime previste dalle norme di legge.
Il potere di direzione di cui è investito il datore di lavoro implica un vero e proprio potere normativo generale il quale determina una potestà esecutiva di predeterminazione e conformazione oltre che una potestà di controllo ed una potestà disciplinare.
La prima manifestazione del potere direttivo consiste nella facoltà dell’imprenditore di prestabilire una determinata disciplina afferente l’organizzazione del lavoro ed il sistema delle lavorazioni, gli orari ed i turni, le prescrizioni generali riguardanti l’ordinamento tecnico del lavoro.
La seconda manifestazione del potere direttivo è relativa alla preordinazione tecnica delle varie prestazioni lavorative ed implica, da parte dei dipendenti, l’aderenza all’organizzazione di lavoro ed ai suoi procedimenti tecnici, nonché la collaborazione nel raggiungimento dei fini che il datore di lavoro ha indicato e persegue. Tale manifestazione si estrinseca nel c.d. potere di conformazione che si esplica mediante ordini interni di servizio che indicano, di volta in volta, al singolo lavoratore, il contenuto della sua prestazione, in relazione al suo posto di lavoro.
La terza manifestazione del potere direttivo è il c.d. potere di controllo che rappresenta un potere derivato da quello normativo e da quello di conformazione. In questo senso, affinché l’esecuzione del lavoro avvenga secondo le prescrizioni e le modalità tecniche stabilite dal datore di lavoro, è necessario che questi accerti l’avvenuto adempimento o l’inadempimento dell’obbligazione del prestatore di lavoro.
La quarta manifestazione del potere direttivo del datore di lavoro è il potere disciplinare, logica conseguenza del potere di controllo. L’equilibrio del rapporto di lavoro si basa sul presupposto della soggezione del lavoratore nei confronti dei poteri organizzativi e direttivi del datore di lavoro. Con il comportamento inadempiente del lavoratore ex art. 2104 c.c., si determina una sottrazione della posizione direttiva del datore di lavoro e l’equilibrio giuridico tra i due soggetti del rapporto viene meno. Il potere disciplinare del datore di lavoro ha, dunque, la funzione di restituire efficacia immediata all’autorità direttiva dell’imprenditore e, contemporaneamente, costituire il presupposto per l’irrogazione di una sanzione per la violazione degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro.
Con riguardo alla normativa antinfortunistica, lo strumento disciplinare attribuito al datore di lavoro è espressione della “posizione di garanzia”, gravante sullo stesso, del bene dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro, da cui derivano l’obbligo di eliminazione o riduzione dei rischi alla fonte, l’obbligo del continuo aggiornamento delle misure di prevenzione in conseguenza dell’evoluzione tecnologica e l’obbligo di vigilanza dei lavoratori affinché osservino le norme di sicurezza e di igiene ed usino i mezzi di protezione collettivi ed individuali messi a loro disposizione .
In base all’art. 20, 1° comma, D.Lgs. 81/08, la possibilità di pretendere dal lavoratore l’adempimento dell’obbligo di prendersi cura della propria sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, è subordinata . Anche sulla base dell’elaborazione penalistica un comportamento è rimproverabile al suo autore solo in quanto da lui poteva pretendersi l’osservanza delle regole di condotta impeditive dello stesso.
Alla luce della nuova normativa il lavoratore, in tanto può essere chiamato a rispondere di inosservanza degli obblighi dalla legge posti a suo carico, in quanto egli sia stato effettivamente posto, dal datore di lavoro e/o dai collaboratori di quest’ultimo, nelle condizioni di poterli adempiere, essendo stato provvisto dei prescritti congegni e dispositivi di protezione in perfetta regola e contemporaneamente di adeguate istruzioni sulle modalità e sulla necessità dei loro corretto impiego. Pertanto, condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione della sanzione disciplinare, o per la configurabilità della responsabilità penale nei confronti del lavoratore inadempiente agli obblighi di sicurezza, è che il datore di lavoro abbia, a sua volta, adempiuto agli obblighi, soggettivi ed oggettivi, nei confronti dello stesso
Conclusivamente, la violazione degli obblighi di cui all’art. 20 D.Lgs. 81/08 (fra i quali, in via esemplificativa, rientrano: l’utilizzazione corretta dei macchinari, delle apparecchiature, degli utensili, delle sostanze e dei preparati pericolosi, dei mezzi di trasporto, delle attrezzature di lavoro; l’utilizzazione dei dispositivi di protezione; la segnalazione delle deficienze dei mezzi, dei dispositivi e delle condizioni di pericolo; la rimozione o modificazione senza autorizzazione dei dispositivi di sicurezza o di segnalazione e controllo, l’esecuzione di operazioni o manovre non di loro competenza, la sottoposizione ai controlli sanitari previsti nei loro confronti; la sottoposizione ai programmi informativo/formativi ecc.) oltre ad essere soggetta a sanzioni penali (art. 59 D.Lgs. 81/08: arresto fino ad 1 mese o ammenda da 200 a 600 Euro per ogni inadempienza), potrebbe costituire un’infrazione disciplinare tale da giustificare anche il licenziamento.
La mancata reazione disciplinare del datore di lavoro di fronte alle inadempienze di cui sopra, espressione dell’obbligo di diligenza e di obbedienza del lavoratore, comportando una sostanziale tolleranza ed inerzia, integra una vera e propria omissione colposa, valutabile ai fini della responsabilità nell’ipotesi in cui si realizzino infortuni causalmente collegati all’inosservanza della regola disattesa. Tale responsabilità si configurerà tanto nel caso in cui vittima dell’infortunio sia stato lo stesso lavoratore negligente, quanto nel caso in cui la parte lesa sia un altro lavoratore danneggiato dall’inosservanza della regola antinfortunistica violata.
In conclusione è possibile affermare che il lavoratore, non essendo più un semplice destinatario delle norme di sicurezza, ma essendo chiamato in prima persona, nel sistema previsto dal D.Lgs. 81/08, ad applicarle è, per ciò stesso, tenuto a comportamenti avveduti, accorti, prudenti ed all’osservanza delle norme poste dal legislatore ed eventualmente dal datore di lavoro, al fine di tutelare il bene della salute della collettività dei lavoratori.
Questo, tuttavia, non significa che possa andare esente da responsabilità il datore di lavoro o il suo delegato che abbia provveduto a predisporre le misure e ad impartire all’inizio le informazioni e le direttive necessarie, omettendo in seguito di curarne l’osservanza e tollerando, in particolare, l’instaurarsi di prassi irregolari ed imprudenti. All’opposto, in un luogo di lavoro attrezzato nel rispetto delle misure di sicurezza ed al cospetto di un lavoratore “formato”, il datore di lavoro si potrà, dunque, legittimamente attendere che quelle istruzioni, qualificabili come ordini di servizio, siano da quest’ultimo rispettate e, in caso contrario, sia lo stesso lavoratore a sopportarne le conseguenze anche penali. Nella ripartizione e nell’accertamento della responsabilità colposa fra i destinatari degli obblighi di sicurezza, infatti, il c.d. “principio di affidamento”, secondo cui ognuno dei destinatari dei diversi doveri di diligenza fra loro interferenti allo scopo di debellare i pericoli originari da una data situazione, può legittimamente confidare sul fatto che gli altri soggetti si conformino alle diverse richieste comportamentali loro singolarmente rivolte, assume particolare rilievo.
SOGGETTI EQUIPARATI ai lavoratori:
• il socio lavoratore di cooperativa o di società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e dell'ente stesso;• l'associato in partecipazione di cui all'articolo 2549 e seguenti del codice civile;
• il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196 e di cui
a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro;
• l'allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi
di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le pparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l'allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione;
• il volontario, come definito dalla legge 1 agosto 1991, n. 266;
• i volontari del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco e della protezione civile;
• il volontario che effettua il servizio civile;
• il lavoratore di cui al decreto legislativo 1°dicembre 1997, n. 468 e successive modificazioni e integrazioni;
OBBLIGHI :
L’origine del dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro è individuabile, in primo luogo, nella Costituzione, laddove l’art. 41 stabilisce che l’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.A livello legislativo, discendente dai principi costituzionali ed a specificazione degli stessi, la principale fonte diretta del dovere di sicurezza, posto a capo del datore di lavoro, è individuabile nel già più volte richiamato art. 2087 c.c., il quale pur rivolgendosi, specificamente, solo all’imprenditore, è, in realtà, esteso di diritto a tutti i datori di lavoro, i quali sono chiamati, non solo a tutelare direttamente il singolo o i singoli che prestano l’attività alle loro dipendenze, ma anche a collaborare con lo Stato nella funzione di prevenzione e di tutela dell’integrità fisica e della personalità umana.
Il legislatore, impone, pertanto, al datore di lavoro, l’adozione di tutte le misure, le procedure organizzative ed i mezzi tecnici idonei a prevenire gli infortuni, sia in quanto previsti obbligatoriamente dalla legislazione speciale di prevenzione e protezione sia in quanto necessarie alla stregua dei dati di comune esperienza, prudenza, diligenza, prevedibilità in relazione all’attività svolta.
Il datore di lavoro tenuto quindi a impartire direttive e istruzioni idonee a rendere edotti i dipendenti sui rischi connessi alla mancata attuazione dei presidi e delle disposizioni, vigilando con prudente e continua attenzione affinchè i mezzi di tutela vengano effettivamente attuati.
Suddetto principio espresso dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, più volte, è stato profuso nel decreto legislativo 81/08 che impone al datore di lavoro qualunque sia il tipo di lavoro che andranno a svolgere i suoi dipendenti e qualunque sia la dimensione dell’azienda tre ordini di obblighi:
1. valutazione dei rischi inerenti al tipo di lavoro svolto nell’azienda
2. individuazione di un soggetto responsabile per la sicurezza e sua formazione
3. formazione e informazione sui rischi ai lavoratori .
Spetta cioè al datore di lavoro il ruolo principale nella gestione della sicurezza, con l’osservanza delle misure generali di protezione, con la scelta delle attrezzature di lavoro, delle sostanze e dei prodotti chimici impiegati, con la sistemazione dei luoghi di lavoro e, infine, con la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, analizzando tutte le situazioni anche quelle relative a singole figure o a singoli gruppi. Connesso a tale ruolo è, ovviamente, la predisposizione dell’onere finanziario derivante dall’adozione delle misure di sicurezza.
Obblighi delegabili e obblighi non delegabili
Sebbene il principale responsabile per l’adempimento delle misure di sicurezza e di igiene del lavoro sia il soggetto qualificabile come datore di lavoro, alla luce della necessaria suddivisione delle funzioni e dei poteri direttivi all’interno dell’impresa, anche le relative responsabilità potranno essere, e normalmente verranno, ripartite di conseguenza.
Ovviamente, la ripartizione degli obblighi di sicurezza si potrà realizzare anche in base ad uno specifico documento di delega con il quale, indipendentemente dalle funzioni relative alla propria mansione, ad un soggetto vengono attribuiti funzioni, poteri connessi e responsabilità normalmente ricadenti su altri.
Tale delega, di cui si è detto, non potrà mai avere ad oggetto gli obblighi di cui all’art. 17 T.U. , vale a dire :
1) valutazione di tutti i rischi con la conseguente adozione dei documenti previsti dall’articolo 28
2) la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.
Del responsabile del servizio di prevenzione e protezione si è già detto, pertanto con riferimento all’obbligo della valutazione dei rischi, si dirà che principio fondamentale da cui muove tale obbligo è che ogni lavoro presenta un potenziale di rischio per la salute e la sicurezza sul lavoro in tutti mi settori di attività sia pubblici che privati.
La valutazione dei rischi serve per individuare quale siano le misure di prevenzione più adeguate per evitare l’infortunio o la malattia professionale.
In ossequio al principio della piena collaborazione tra i soggetti interessati alla sicurezza, per il suo adempimento il datore di lavoro può farsi coadiuvare dal medico competente, dal responsabile del servizio di protezione e prevenzione e dal rappresentante per la sicurezza e qualora l’adempimento dell’obbligo di valutazione dei rischi richieda delle competenze professionali specialistiche il datore di lavoro può farsi cooperare anche da uno staff di tecnici esterno all’azienda.
Nella formulazione del d.lgs 626/94 si limitava a precisare che il giudizio di valutazione dovesse riguardare “tutti i rischi”.
Tale impostazione però è stata oggetto di critica da parte di autorevole dottrina , che aveva evidenziato suddetta previsione, non imponendo alcun parametro, alcuna indicazione o alcun limite alla modalità di valutazione del rischio, si ispiri al concetto della norma penale in bianco, con la particolarità che nella materia in esame il vuoto lasciato dal legislatore viene riempito dalla discrezionalità del privato.
Nel tentativo di superare questo empasse il legislatore del 2008, all’art. 28 recita “la valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi”.
Devono cioè essere oggetto di valutazione tutti i rischi connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa, che devono essere valutati con riferimento a ciascuna mansione o a ciascun lavoratore.
Occorre esaminare sistematicamente tutti gli aspetti del lavoro per definire quali siano le cause probabili di lesioni o di danni per eliminarle o prendere idonee misure protettive, poiché dalla valutazione dei rischi discenderanno tutte le ulteriori misure (tecniche e procedurali) alla cui programmazione ed attuazione la valutazione stessa è finalizzata
Suddetto procedimento troverà poi sua formalizzazione nella elaborazione del Documento di Valutazione dei rischi, che è punto di riferimento per il datore di lavoro e per tutti coloro che intervengono nelle attività rivolte alla sicurezza.
Tale documento deve essere redatto dal datore di lavoro che intraprende una nuova attività entro tre mesi dall’effettivo inizio delle stessa e deve contenere:
a) relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa;
b) individuazione delle misure di prevenzione e protezione e dei dispositivi di protezione individuale
c) programma delle misure ritenute opportune per garantire nel tempo il miglioramento dei livelli di sicurezza.
Il documento va conservato nell’azienda ed esibito agli organi ispettivi per consentire l’attività di vigilanza. Va poi rielaborato in occasione delle modifiche del processo produttivo che possano incidere in maniera significativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori.
Accanto al documento di valutazione dei rischi deve essere poi redatto e tenuto costantemente aggiornato il PIANO DI EMERGENZA, che contiene la programmazione di azioni ed interventi da effettuare qualora possano realizzarsi pericoli gravi e immediati, piano che ha lo scopo di minimizzare le conseguenze dannose per i lavoratori e gli altri soggetti presenti sul luogo del lavoro. Occorre quindi individuare le misure di emergenza da attuare in caso di pronto soccorso, incendio, evacuazione dei lavoratori in caso di pericolo grave ed immediato.
Infine il datore di lavoro di concerto con i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, deve individuare i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di lotta antincendio, pronto soccorso, evacuazione dei lavoratori e gestione delle emergenze.
la regola della massima sicurezza tecnologicamente fattibile
la lett. c) dell’art. 15 stabilisce che costituisce “misura generale” di sicurezza la l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico
A differenza del legislatore comunitario, il quale limita la responsabilità del datore di lavoro alla soglia della “ragionevole praticabilità delle misure di sicurezza adottande”, il legislatore del 2008 ha ribadito il principio della “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”, il quale impegna il datore di lavoro ad una continua ricerca e ad un progressivo ammodernamento delle misure di sicurezza per tenere conto delle modifiche intervenute nell’organizzazione del lavoro, con il solo limite che i dati utilizzabili in ragione della esperienza e della tecnica sono, esclusivamente, quelli acquisiti al comune patrimonio tecnico e scientifico (in altre parole, le tecnologie disponibili sul mercato).
Al fine di evitare una eccessiva discrezionalità dell’organo giudicante chiamato a valutare il rispetto del predetto principio, lo stesso è stato interpretato nel senso di rendere obbligatorie le tecnologie e gli accorgimenti organizzativi generalmente praticati, in modo da ritenere penalmente sanzionabile soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento delle diverse attività produttive. Al giudice, pertanto, spetterà di valutare non tanto se una certa misura sia compresa nel patrimonio di conoscenza di diversi settori, ma se essa sia accolta negli standard di produzione industriale, o comunque specificamente prescritta.
l’obbligo di informazione e formazione dei lavoratori (sezione IV titoloI)
Mentre l’obbligo di valutazione del rischio unitamente alla designazione del responsabile del servizio di prevenzione è proprio del solo datore di lavoro, gli obblighi di formazione ed informazione gravano anche sui dirigenti e sui preposti: prevede la legge che i lavoratori devono essere informati e formati sui rischi per la salute e la sicurezza connessi all’attività dell’azienda, sulle misure e le attività di protezione e prevenzione adottate, sui rischi specifici cui sono esposti in relazione all’attività svolta, sulle normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia, sui pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi, sulle procedure che riguardano il pronto soccorso, la lotta antincendio e l’evacuazione.
Come ha sottolineato la Suprema Corte “il generico credito di sicurezza vantato dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro, o preposto, o delegato è stato concretato in credito di informazione e di formazione…” .
La formazione, che viene definita come “l’insieme di tutte le misure che forniscono le attitudini e le conoscenze necessarie allo svolgimento di una attività professionale qualificata e sicura”, segna a detta della dottrina il passaggio “da un sistema di prevenzione tecnologico, basato cioè sugli strumenti tecnici, sulla qualità degli attrezzi…ad un sistema di prevenzione incentrato sull’uomo” .
L’art. 37 del d.lgs 81/2008 precisa che accanto alla formazione ed informazione, può esservi anche l’addestramento specifico, che deve essere effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro.
Le informazioni, in quanto processo divulgativo di dati, notizie, nozioni, diretto alla indicazione dei rischi sul lavoro e delle modalità di prevenzione degli stessi, devono essere “comprensibili”, aspetto che assume sempre maggiore rilevanza se si considera il crescente impiego di lavoratori con lingua e cultura diversa da quella del datore di lavoro.
L’attività informativa deve rispondere, infatti, all’esigenza di far conoscere al singolo dipendente, in modo semplice, diretto ed operativo, tutti quegli elementi che, quotidianamente, possono servirgli per garantire, quale elemento di una struttura complessa, a sé stesso ed all’azienda, un lavoro più sicuro.
La giurisprudenza ha interpretato restrittivamente tale obbligo di informazione, ritenendo che “il dovere di informare il lavoratore concerne i rischi ai quali il medesimo è esposto nell’ambito delle specifiche mansioni ad esso attribuite, con esclusione di ogni altro settore estraneo a tale campo di azione nel quale si esplicano le mansioni di sua specifica competenza” .
Il datore di lavoro è tenuto a fornire ai suoi dipendenti informazioni riguardanti:
• i rischi per la salute e la sicurezza connessi all’attività dell’azienda
• le misure e le attività di protezione e prevenzione adottate
• i rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendale in materia
• i pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi
• le procedure che riguardano il pronto soccorso, la lotta antincendio, l’evacuazione dei lavoratore
• il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed il medico competente
• i nominativi dei lavori incaricati di applicare le misure previste in caso di incendio, evacuazione dal posto di lavoro e notizie per il caso di pronto soccorso e di assistenza medica di emergenza.
La formazione deve avvenire in occasione:
• dell’assunzione
• del trasferimento o cambiamento di mansioni
• dell’introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie di nuove sostanze e preparati pericolosi.
Naturalmente i contenuti della formazione devono essere commisurati alle risultanze della valutazione dei rischi e devono riguardare:
- i rischi riferiti al posto di lavoro e alle mansioni svolte, nonchè i possibili danni e le conseguenti procedure di prevenzione e protezione;
- nozioni relative ai diritti e doveri dei lavoratori in materia di sicurezza e salute sul posto di lavoro
- cenni di tecnica della comunicazione interpersonale in relazione al ruolo partecipativo.
Particolare informazione e formazione deve poi essere fornita ai lavoratori esposti a rischi specifici.
LA GESTIONE DELLE EMERGENZE (SEZIONE VI TITOLO I)
Aspetto fondamentale della sicurezza dell’ambiente di lavoro è rappresentato dalla tutela antincendio.
La sicurezza antincendio si sostanzia nell’insieme di misure idonee a prevenire ed estinguere incendi. Riguardano sia i mezzi in concreto da utilizzare che le persone che devono utilizzarli.
In attesa dell’adozione dei decreti da adottarsi di concerto del ministro dell’interno con quello del lavoro e previdenza sociali continua ad applicarsi il decreto ministeriale 10 marzo 1998 che, fissa i criteri generali della sicurezza antincendio e per la gestione dell’emergenza , cui il datore di lavoro deve attenersi :
1. criteri per la specifica valutazione del rischio di incendio
2. misure preventive, protettive e precauzionali di esercizio da adottare in base ai risultati della valutazione
3. interventi di controllo e manutenzione degli impianti e delle attrezzature antincendio
4. gestione del piano di emergenza in caso di incendio
5. designazione e formazione della cd. squadra antincendio addetti al servizio antincendio e la loro formazione.
La valutazione del rischio di incendio mira sia alla identificazione dei fattori aziendali che possano accrescere la probabilità di incendio, quali materiali, lavorazioni, carenze costruttive e impiantistiche, carenze organizzativo- gestionali che possano accrescere la probabilità d’incendio , sia all’identificazione delle persone esposte al rischio di subire danni dal verificarsi di incendi. Individuati questi punti il datore di lavoro dovrà stabilire per ciascun fattore di rischio se può essere eliminato o ridotto allo scopo di stimare il livello complessivo di rischio di incendio del luogo di lavoro (rischio residuo) e verificare l’adeguatezza delle misure di sicurezza esistenti.
Deve poi redigere un documento che integrerà il piano aziendale di sicurezza, ove vengano individuate le misure per ridurre la probabilità dell’insorgenza di un incendio( impianti elettrici a regola d’arte, messa a terra di impianti) e per limitarne le conseguenze ( uscite di emergenza, misure per rapida segnalazione dell’incendio, estintori, impianti fissi), nonchè fissare le regole sulla sorveglianza, controllo periodico e manutenzione della attrezzatura.
Le attività di prevenzione debbono poi essere sottoposte ad una approvazione preventiva del Comando dei Vigili del fuoco e a lavori ultimati deve essere chiesta la visita di collaudo che in caso di esito positivo si concluderà con il rilascio del certificato di prevenzione incendi che ha validità dai 3 ai 6 anni a seconda della attività. Prima della scadenza deve esserne richiesto il rinnovo. Qualora si intenda modificare lo stato dei luoghi o processo produttivo occorre presentare al Comando dei vigili del fuoco un progetto di variante, nonchè comunicare per iscritto l’eventuale cessazione di attività.
Il datore di lavoro deve poi designare la squadra antincendio, cioè i lavoratori che dovranno attuare i mezzi di prevenzione e la lotta contro gli incendi, e redigere il piano di emergenza che va predisposto dopo una attenta analisi degli eventi accidentali che possono verosimilmente ipotizzarsi, con riferimento ai materiali utilizzati nelle lavorazioni, le macchine , i residui di lavorazione, il riscaldamento e l’areazione dell’ambiente. Il piano deve contenere in maniera chiara la descrizione delle operazioni da compiere e la successione temporale delle stesse, evacuazione dei luoghi di lavoro, le disposizioni e le modalità per chiedere l’intervento dei vigili del fuoco.
LUOGO DI LAVORO (titolo II)
I requisiti specifici di sicurezza e salute dei luoghi di lavoro sono specificati nell’allegato IV
Vengono così definiti nel dettaglio i limiti di altezza, cubatura e superficie per i locali in cui si svolge il lavoro e per assicurare la purezza dell’aria, pulizia dei locali, temperatura, congrua disponibilità d’acqua e adeguata illuminazione, evitando buche e sporgenze pericolose nei pavimenti nonchè pulizia del luogo di lavoro.
I luoghi di lavoro devono essere strutturati tenendo conto degli eventuali portatori di handicap, con riferimento alle porte, vie di circolazione , scale, docce gabinetti nonchè i posti di lavoro utilizzati o occupati dai portatori di handicap
ATTREZZATURE DA LAVORO ( titolo III)
Il titolo III al capo I si occupa dell’uso delle attrezzature di lavoro , i cui rischi specifici vengono individuati dall’allegato VI, e che possono sintetizzarsi in:
• cesoiamento
• schiacciamento
• afferramento
• trascinamento
• taglio
• rottura
sono norme generali di protezione per ogni tipo di macchina, da applicare quando non vi siano disposizioni di legge specifiche per singole macchine:
a) è obbligatorio proteggere e segregare gli elementi pericolosi delle macchine per evitare i pericoli sopra elencati
b) è vietato rimuovere anche temporaneamente dispositivi di sicurezza e pulire, oliare, ingrassare e svolgere operazioni di registrazione e/o riparazione su organi in moto
c) occorre mantenere in efficienza le macchine
Tra le attrezzature di lavoro più usate troviamo gli attrezzi a mano, le attrezzature pneumatiche, le pistole sparachiodi, mole e trapani portatili, le cui norme di sicurezza fondamentali sono: .
- Devono essere selezionate circa l’idoneità del lavoro da svolgere
- Verifica costante dell’efficienza di funzionamento ed effettuazione della necessaria manutenzione al fine di conservarle in buono stato di manutenzione
- - Utilizzo corretto delle attrezzature
- - conservazione corretta degli attrezzi in modo appropriato e sicuro
- - proibizione di portare utensili a mano specie se taglienti in tasca e non lasciarli mai appoggiati sulle macchine.
- Previsioni specifiche sono poi dettate per macchine nella cui struttura stessa e per l’utilizzo si prestano a numerosi rischi per il lavoratore:
- Presse meccaniche, Presse idrauliche, Isole robotizzate
- Macchine a ciclo automatico, semiautomatico e manuale
- Mezzi di sollevamento e trasporto quali: argani, paranchi , gru carriponte organi di sospensione ed imbragatura dei carichi piattaforme di sollevamento, nastri trasportatori, ascensori, montacarichi, autogru, carrelli elevatori.
- Apparecchi a pressione ): Generatori di vapore, Recipienti di vapore, Recipienti a gas compressi, Generatori di recipienti di liquidi caldi sotto pressione, Forni di impianti per la lavorazione di oli minerali, Generatori di calore
- La normativa prevede un iter composto da dichiarazione di messa in servizio, controllo di messa in servizio, riqualificazione periodica, controllo dopo eventuale riparazione.
• cesoiamento
• schiacciamento
• afferramento
• trascinamento
• taglio
• rottura
sono norme generali di protezione per ogni tipo di macchina, da applicare quando non vi siano disposizioni di legge specifiche per singole macchine:
a) è obbligatorio proteggere e segregare gli elementi pericolosi delle macchine per evitare i pericoli sopra elencati
b) è vietato rimuovere anche temporaneamente dispositivi di sicurezza e pulire, oliare, ingrassare e svolgere operazioni di registrazione e/o riparazione su organi in moto
c) occorre mantenere in efficienza le macchine
Tra le attrezzature di lavoro più usate troviamo gli attrezzi a mano, le attrezzature pneumatiche, le pistole sparachiodi, mole e trapani portatili, le cui norme di sicurezza fondamentali sono: .
- Devono essere selezionate circa l’idoneità del lavoro da svolgere
- Verifica costante dell’efficienza di funzionamento ed effettuazione della necessaria manutenzione al fine di conservarle in buono stato di manutenzione
- - Utilizzo corretto delle attrezzature
- - conservazione corretta degli attrezzi in modo appropriato e sicuro
- - proibizione di portare utensili a mano specie se taglienti in tasca e non lasciarli mai appoggiati sulle macchine.
- Previsioni specifiche sono poi dettate per macchine nella cui struttura stessa e per l’utilizzo si prestano a numerosi rischi per il lavoratore:
- Presse meccaniche, Presse idrauliche, Isole robotizzate
- Macchine a ciclo automatico, semiautomatico e manuale
- Mezzi di sollevamento e trasporto quali: argani, paranchi , gru carriponte organi di sospensione ed imbragatura dei carichi piattaforme di sollevamento, nastri trasportatori, ascensori, montacarichi, autogru, carrelli elevatori.
- Apparecchi a pressione ): Generatori di vapore, Recipienti di vapore, Recipienti a gas compressi, Generatori di recipienti di liquidi caldi sotto pressione, Forni di impianti per la lavorazione di oli minerali, Generatori di calore
- La normativa prevede un iter composto da dichiarazione di messa in servizio, controllo di messa in servizio, riqualificazione periodica, controllo dopo eventuale riparazione.
DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALI
Il capo II del titolo III disciplina l’uso dei dispositivi di protezione individuale.
Il D.P.I. è qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciare la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonchè ogni complemento accessorio a tale scopo.
Tali dispositivi devono essere:
• Adeguati ai rischi da prevenire e tali da non comportare un rischio aggiuntivo, adeguati all’ambiente di lavoro
• Rispondenti alle esigenze ergonomiche del lavoratore
• In grado di poter essere adattati all’utilizzatore
• Compatibili tra loro in caso di rischi multipli che richiedano l’uso simultaneo dei dispositivi.
L’art. 75 , sull’obbligo di uso dei DPI, prevede che tali dispositivi debbano essere impiegati quando i rischi non possano essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione4 collettiva, da misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro.
L’art. 77 indica gli Obblighi del datore di lavoro in ordine alla scelta, all’utilizo e alla manutenzione dei dispositivi di protezione individuale, che deve altresì effettuare l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi e deve individuare le caratteristiche dei DPI affinchè siano adeguati ai rischi da evitare. Deve poi individuare le condizioni nelle quali un dispositivo deve essere usato ,e assicurare ai lavoratori una formazione adeguata circa l’uso corretto e l’utilizzo pratico dei dispositivi in uso.
I lavoratori devono invece ai sensi dell’art.78 sottoporsi al programma di formazione e addestramento organizzato dal datore di lavoro, e sono obbligati all’utilizzo di tali mezzi e deve segnalare al datore di lavoro, dirigente o preposto qualunque difetto rilevato e gli è fatto divieto esplicito di apportarvi modifiche.
I criteri per l’individuazione e l’uso dei dispositivi , le circostanze, le situazioni in cui se ne rende necessario l’impiego ai sensi dell’art.79 sono stabiliti nell’allegato VIII .
Il capo III dello stesso titolo si occupa degli impianti ed apparecchiature elettriche, e distingue i rischi di natura elettrica in rischi da contatto diretto, indiretto e da esplosione, prevedendo i vari tipi di protezione .
Così l’art. 90 del T.U. fornisce la definizione degli altri soggetti responsabili della sicurezza precisamente quelli in tema di appalti.
Una particolare enfatizzazione della posizione del COMMITTENTE, quale garante del rispetto della normativa prevenzionale, si era avuta nella normativa sui cantieri mobili o temporanei, che riprodotta pressocchè integralmente nel titolo IV del d.lgs 81/2008, prevedeva ulteriori soggetti obbligati (il responsabile dei lavori, alter ego per così dire tecnico del committente e suo delegato, ed i due coordinatori per la sicurezza nella fase della progettazione ed esecuzione i cui compiti appaiono particolarmente significativi ed incidenti, specie per il secondo, sul piano del concreto rispetto delle normative prevenzionali che devono essere analiticamente individuate nel Piano Operativo di Sicurezza) che possono (il responsabile) o devono (i coordinatori) essere nominati nei luoghi di lavoro nei quali essa è applicabile.
Per completezza, va ricordato che la normativa vigente consente l’affidamento a terzi di lavori, in via generale e quindi indipendentemente dalla loro natura, solo attraverso l’utilizzo del contratto di appalto (o del contratto d’opera) o del contratto di somministrazione di lavoro, così come rispettivamente disciplinati dagli artt. 1655 c.c., 2222 c.c., 20 e seguenti D. Lgs. 276/03.
Secondo la definizione del codice civile (art. 1655) l’appalto è il contratto con il quale una parte assume, con l’organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro.
Di norma, l’APPALTATORE è un soggetto qualificato e cioè un imprenditore ai sensi degli artt. 2082 e 2083 del codice civile.
Il DPR 547/55, già prima del dlgs 626/94 e del dlgs 494/96, si occupava della sicurezza degli appalti: infatti, l’art. 5 prevedeva che i datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti di parte committente fossero tenuti a rendere edotti i lavoratori autonomi dei rischi specifici presenti sul luogo di lavoro nel quale siano chiamati a prestare la loro opera.
Due i concetti sottolineati: in primo luogo, i rischi propri stanno in capo all’organizzazione imprenditoriale di riferimento; in secondo luogo, dei rischi occulti il committente deve rendere edotto l’appaltatore.
Ma il vero problema dell’appalto è il coordinamento quando ciò una data attività è posta in essere congiuntamente da più imprese.
Così il legislatore del 1994 prima e quello del 1996 dopo, introdussero due principi fondamentali:
il datore di lavoro- appaltatore, il datore di lavoro-subappaltatore e il datore di lavoro – committente
a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro, incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto;
b) coordinano gli interventi di prevenzione e protezione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare i rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva.
E proprio il concetto di interferenza viene sottolineato e evidenziato dal legislatore del 2008 che all’art. 26 del decreto in commento, dispone che “quando il datore di lavoro intenda appaltare una o più fasi dell’attività produttiva ad imprese esterne o lavoratori autonomi deve effettuare la cd. Analisi delle interferenze, analizzando le concomitanze, le sovrapposizioni o le amplificazioni dei rischi, derivanti non solo dal lavoro in concreto da effettuarsi, ma anche dalle situazioni ambientali, e indi redigere un unico documento di valutazione dei rischi, ove indichi le misure adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi da interferenza”.
Documento che deve essere allegato al contratto di appalto.
Si comprende allora l’enfatizzazione del ruolo del committente, al quale la legge affida il compito di promuovere la cooperazione e il coordinamento, poiché il contesto produttivo attuale vede un sempre maggiore e più diffuso ricorso agli appalti sia endoaziendali che esterni, con una conseguente divisione delle attività produttive fra imprese (o addirittura fra soggetti singoli) almeno formalmente diverse, spesso di ridotte o ridottissime dimensioni – quali le micro imprese tanto presenti in edilizia -, a volte purtroppo senza alcuna reale attività imprenditoriale svolta precedentemente in proprio, frequentemente con poca o nessuna effettiva professionalità.
Prevede la legge che, ai fini della progettazione o della esecuzione o del controllo dell’esecuzione dell’opera, il committente possa nominare un responsabile dei lavori al quale delegare gli obblighi sulla sicurezza (ad eccezione naturalmente della valutazione dei rischi e della nomina del RSPP).
In ossequio a quanto già previsto con il d.lgs 528/1999 la nomina di questo soggetto esonera da responsabilità il committente (art. 93), vale a dire che il responsabile dei lavori subentra al committente quanto alle responsabilità penali connesse agli obblighi di cui è stato investito ai sensi dell’art. 16.
Nel caso in cui il committente proceda alla nomina del responsabile dei lavori, la nomina del coordinatore per la progettazione o del coordinatore per l’esecuzione, questi affiancheranno il responsabile dei lavori, ma non lo esonereranno dalle responsabilità connesse alla verifica degli adempimenti di cui agli art. 91 e 92, con ciò significando che la nomina di questi due soggetti ha natura di semplice incarico e non di delega.
Il committente è dunque obbligato a verificare che il responsabile dei lavori adempia ai propri obblighi (art. 90), verificare che il coordinatore per l’esecuzione segnali le inosservanze delle norme di sicurezza, proponga la sospensione dei lavori, l’allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto e a verificare la trasmissione della notifica preliminare.
A differenza dalla normativa previdente il committente è esonerato dalla responsabilità di verificare che il coordinatore per la progettazione abbia redatto il piano della sicurezza e di coordinamento e il fascicolo, e dalla responsabilità di verificare che il coordinatore per l’esecuzione svolga correttamente i propri compiti.
Viene eliminato dal d.lgs 81/2008 il limite dei 200 uomini –giorno in cantiere come requisito per la nomina dei coordinatori per la progettazione e dei coordinatori per l’esecuzione, ma viene introdotto (art. 98) il requisito della specifica professionalità tecnica di questi due soggetti.
Viene introdotto il principio secondo il quale l’accettazione da parte di ciascun datore di lavoro delle imprese esecutrici del piano di sicurezza e di coordinamento (PSC) e la redazione del piano operativo per la sicurezza (POS) costituisce adempimento dell’obbligo della redazione del documento unico di valutazione del rischio da interferenza (DUVRI), poiché si presuppone che la valutazione dei rischi da interferenza sia già contenuta nei documenti di cui sopra.
Ancora il legislatore del 2008 ribadisce il ruolo di responsabilità nella sicurezza del fabbricante, fornitori e l'installatore (art. 23 e 24)
2) adozione di misure organizzative per evitare la necessità della movimentazione manuale
3) qualora non sia possibile evitare la movimentazione manuale dei carichi, uso condizionato della forza manuale
4) sorveglianza sanitaria (accertamenti preventivi e periodici)
Al capo II in particolare si fa riferimento alla protezione dei lavoratori contro i rischi da esposizione a RUMORE , ed individua i livelli di esposizione giornaliera personale, settimanale e pressione acustica istantanea non ponderata espressi in decibel. Anche in questo caso il datore di lavoro deve procedere alla valutazione del rumore durante il lavoro, l’art. 190 dello steso decreto prevede proprio in questa ipotesi il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, ed il superamento di determinati valori impone di affiggere ai luoghi di lavoro una segnaletica appropriata
AGENTI CANGEROGENI O MUTAGENI (titolo IX)
IL Titolo IX si occupa delle sostanze pericolose, tra i quali rientrano gli agenti Chimici, gli agenti cancerogeni e mutageni e l’amianto.
Viene prevista sempre la fase della valutazione dei rischi, la messa in opera di tute le misure per eliminare il rischio o ridurlo al minimo, anche attraverso la sostituzione dell’agente chimico con altro meno pericoloso per la salute. Viene poi fatto obbligo di predisporre le misure di intervento adeguate in caso di emergenza e le modalità di abbandono del luogo di lavoro in tal caso.
La sorveglianza sanitaria del lavoratore anche in questo caso sarà precedente e periodica e verrano redatte cartelle sanitarie e di rischio.
Per agente cancerogeno si intende sostanza o preparato che risponde ai criteri di cui alla classificazione contenuta nel d.lgs 52/97 - art. 234 lett.a)
Per agente mutageno - art. 234 lett.b)- si intende sostanza o preparato che risponde ai criteri di cui alla classificazione contenuta nel d.lgs 52/97 .
Per agente biologico si intende qualsiasi microorganismo anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni.
Il datore di lavoro al di là della valutazione del rischio ha l’obbligo di evitare o ridurre l’utilizzo di tali agenti attraverso la sostituzione con fattori non o meno pericolosi. Qualora non sia tecnicamente possibile, si deve provvedere affinchè le lavorazioni avvengano in un sistema chiuso.
Il documento di sicurezza deve cioè contenere anche le valutazioni circa l’esposizione a tali agenti ed ha l’obbligo di adottare le misure di tutela della salute e della sicurezza che possono riguardare o l’organizzazione dei procedimenti produttivi e l’igiene delle zone di lavoro a rischio ovvero le misure di emergenza da attuare in caso di esposizione anomala a tali agenti e nel caso specifico di rischio biologico le misure di emergenza da adottare in caso di dispersione nell’ambiente, e misure per strutture sanitarie,veterinarie e laboratori.
Oltre alla tenuta del registro di esposizione il datore di lavoro deve anche tenere il registro degli esposti ove deve indicare per ciascun lavoratore:
1.l’attività svolta
2.agente utilizzato
3.eventuali casi di esposizione individuale
Il capo III riguarda l’esposizione all’amianto fissando un valore limite per un periodo di riferimento di otto ore di esposizione personale di 0,1 fibre per centimetro cubo.
- evitare l’accensione di atmosfere esplosive
- attenuare gli effetti pregiudizievoli di un’esplosione in modo da garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Seguirà alla valutazione del rischio la redazione del documento sulla protezione contro le esplosioni.
IL CONTROLLO DELL’OBBLIGO DI SICUREZZA
Tali dispositivi devono essere:
• Adeguati ai rischi da prevenire e tali da non comportare un rischio aggiuntivo, adeguati all’ambiente di lavoro
• Rispondenti alle esigenze ergonomiche del lavoratore
• In grado di poter essere adattati all’utilizzatore
• Compatibili tra loro in caso di rischi multipli che richiedano l’uso simultaneo dei dispositivi.
L’art. 75 , sull’obbligo di uso dei DPI, prevede che tali dispositivi debbano essere impiegati quando i rischi non possano essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione4 collettiva, da misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro.
L’art. 77 indica gli Obblighi del datore di lavoro in ordine alla scelta, all’utilizo e alla manutenzione dei dispositivi di protezione individuale, che deve altresì effettuare l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi e deve individuare le caratteristiche dei DPI affinchè siano adeguati ai rischi da evitare. Deve poi individuare le condizioni nelle quali un dispositivo deve essere usato ,e assicurare ai lavoratori una formazione adeguata circa l’uso corretto e l’utilizzo pratico dei dispositivi in uso.
I lavoratori devono invece ai sensi dell’art.78 sottoporsi al programma di formazione e addestramento organizzato dal datore di lavoro, e sono obbligati all’utilizzo di tali mezzi e deve segnalare al datore di lavoro, dirigente o preposto qualunque difetto rilevato e gli è fatto divieto esplicito di apportarvi modifiche.
I criteri per l’individuazione e l’uso dei dispositivi , le circostanze, le situazioni in cui se ne rende necessario l’impiego ai sensi dell’art.79 sono stabiliti nell’allegato VIII .
Il capo III dello stesso titolo si occupa degli impianti ed apparecchiature elettriche, e distingue i rischi di natura elettrica in rischi da contatto diretto, indiretto e da esplosione, prevedendo i vari tipi di protezione .
CANTIERI TEMPORANEI E MOBILI (titolo IV)
Mutuando la tecnica normativa comunitaria il legislatore del 2008 ha riportato una grande quantità di definizioni sia di carattere generale, che specifiche per aree di rischio, non solo in tema di soggetti, ma anche di altra natura, che, sia detto per inciso, non sempre si risolvono in una effettiva semplificazione della interpretazione della normativa stessa.Così l’art. 90 del T.U. fornisce la definizione degli altri soggetti responsabili della sicurezza precisamente quelli in tema di appalti.
Una particolare enfatizzazione della posizione del COMMITTENTE, quale garante del rispetto della normativa prevenzionale, si era avuta nella normativa sui cantieri mobili o temporanei, che riprodotta pressocchè integralmente nel titolo IV del d.lgs 81/2008, prevedeva ulteriori soggetti obbligati (il responsabile dei lavori, alter ego per così dire tecnico del committente e suo delegato, ed i due coordinatori per la sicurezza nella fase della progettazione ed esecuzione i cui compiti appaiono particolarmente significativi ed incidenti, specie per il secondo, sul piano del concreto rispetto delle normative prevenzionali che devono essere analiticamente individuate nel Piano Operativo di Sicurezza) che possono (il responsabile) o devono (i coordinatori) essere nominati nei luoghi di lavoro nei quali essa è applicabile.
Per completezza, va ricordato che la normativa vigente consente l’affidamento a terzi di lavori, in via generale e quindi indipendentemente dalla loro natura, solo attraverso l’utilizzo del contratto di appalto (o del contratto d’opera) o del contratto di somministrazione di lavoro, così come rispettivamente disciplinati dagli artt. 1655 c.c., 2222 c.c., 20 e seguenti D. Lgs. 276/03.
Secondo la definizione del codice civile (art. 1655) l’appalto è il contratto con il quale una parte assume, con l’organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro.
Di norma, l’APPALTATORE è un soggetto qualificato e cioè un imprenditore ai sensi degli artt. 2082 e 2083 del codice civile.
Il DPR 547/55, già prima del dlgs 626/94 e del dlgs 494/96, si occupava della sicurezza degli appalti: infatti, l’art. 5 prevedeva che i datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti di parte committente fossero tenuti a rendere edotti i lavoratori autonomi dei rischi specifici presenti sul luogo di lavoro nel quale siano chiamati a prestare la loro opera.
Due i concetti sottolineati: in primo luogo, i rischi propri stanno in capo all’organizzazione imprenditoriale di riferimento; in secondo luogo, dei rischi occulti il committente deve rendere edotto l’appaltatore.
Ma il vero problema dell’appalto è il coordinamento quando ciò una data attività è posta in essere congiuntamente da più imprese.
Così il legislatore del 1994 prima e quello del 1996 dopo, introdussero due principi fondamentali:
il datore di lavoro- appaltatore, il datore di lavoro-subappaltatore e il datore di lavoro – committente
a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro, incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto;
b) coordinano gli interventi di prevenzione e protezione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare i rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva.
E proprio il concetto di interferenza viene sottolineato e evidenziato dal legislatore del 2008 che all’art. 26 del decreto in commento, dispone che “quando il datore di lavoro intenda appaltare una o più fasi dell’attività produttiva ad imprese esterne o lavoratori autonomi deve effettuare la cd. Analisi delle interferenze, analizzando le concomitanze, le sovrapposizioni o le amplificazioni dei rischi, derivanti non solo dal lavoro in concreto da effettuarsi, ma anche dalle situazioni ambientali, e indi redigere un unico documento di valutazione dei rischi, ove indichi le misure adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi da interferenza”.
Documento che deve essere allegato al contratto di appalto.
Si comprende allora l’enfatizzazione del ruolo del committente, al quale la legge affida il compito di promuovere la cooperazione e il coordinamento, poiché il contesto produttivo attuale vede un sempre maggiore e più diffuso ricorso agli appalti sia endoaziendali che esterni, con una conseguente divisione delle attività produttive fra imprese (o addirittura fra soggetti singoli) almeno formalmente diverse, spesso di ridotte o ridottissime dimensioni – quali le micro imprese tanto presenti in edilizia -, a volte purtroppo senza alcuna reale attività imprenditoriale svolta precedentemente in proprio, frequentemente con poca o nessuna effettiva professionalità.
Prevede la legge che, ai fini della progettazione o della esecuzione o del controllo dell’esecuzione dell’opera, il committente possa nominare un responsabile dei lavori al quale delegare gli obblighi sulla sicurezza (ad eccezione naturalmente della valutazione dei rischi e della nomina del RSPP).
In ossequio a quanto già previsto con il d.lgs 528/1999 la nomina di questo soggetto esonera da responsabilità il committente (art. 93), vale a dire che il responsabile dei lavori subentra al committente quanto alle responsabilità penali connesse agli obblighi di cui è stato investito ai sensi dell’art. 16.
Nel caso in cui il committente proceda alla nomina del responsabile dei lavori, la nomina del coordinatore per la progettazione o del coordinatore per l’esecuzione, questi affiancheranno il responsabile dei lavori, ma non lo esonereranno dalle responsabilità connesse alla verifica degli adempimenti di cui agli art. 91 e 92, con ciò significando che la nomina di questi due soggetti ha natura di semplice incarico e non di delega.
Il committente è dunque obbligato a verificare che il responsabile dei lavori adempia ai propri obblighi (art. 90), verificare che il coordinatore per l’esecuzione segnali le inosservanze delle norme di sicurezza, proponga la sospensione dei lavori, l’allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto e a verificare la trasmissione della notifica preliminare.
A differenza dalla normativa previdente il committente è esonerato dalla responsabilità di verificare che il coordinatore per la progettazione abbia redatto il piano della sicurezza e di coordinamento e il fascicolo, e dalla responsabilità di verificare che il coordinatore per l’esecuzione svolga correttamente i propri compiti.
Viene eliminato dal d.lgs 81/2008 il limite dei 200 uomini –giorno in cantiere come requisito per la nomina dei coordinatori per la progettazione e dei coordinatori per l’esecuzione, ma viene introdotto (art. 98) il requisito della specifica professionalità tecnica di questi due soggetti.
Viene introdotto il principio secondo il quale l’accettazione da parte di ciascun datore di lavoro delle imprese esecutrici del piano di sicurezza e di coordinamento (PSC) e la redazione del piano operativo per la sicurezza (POS) costituisce adempimento dell’obbligo della redazione del documento unico di valutazione del rischio da interferenza (DUVRI), poiché si presuppone che la valutazione dei rischi da interferenza sia già contenuta nei documenti di cui sopra.
Ancora il legislatore del 2008 ribadisce il ruolo di responsabilità nella sicurezza del fabbricante, fornitori e l'installatore (art. 23 e 24)
SEGNALETICA (TITOLO V)
Il titolo V stabilisce le prescrizioni per la segnaletica di sicurezza cui è obbligato a conformarsi il datore di lavoro, meglio precisate con gli allegati da XXIV a XXXII del dlgs 81/08. l’art. 162 si occupa delle definizioni e gli articoli 165 e 166 delle relative sanzioni.MOVIMENTAZIONE MANUALE DEI CARICHI (titolo VI)
i cui rischi più frequenti sono rappresentati dalle lesioni dorso –lombari occorrerà allora:
1) individuazione preliminare dei compiti che comportano una movimentazione manuale potenzialmente rischiosa2) adozione di misure organizzative per evitare la necessità della movimentazione manuale
3) qualora non sia possibile evitare la movimentazione manuale dei carichi, uso condizionato della forza manuale
4) sorveglianza sanitaria (accertamenti preventivi e periodici)
RISCHI FISICI (TITOLO VIII)
Tra i rischi fisici il titolo VIII considera il Rumore, le vibrazioni , i campi elettromagnetici e le radiazioni ottiche artificiali).Al capo II in particolare si fa riferimento alla protezione dei lavoratori contro i rischi da esposizione a RUMORE , ed individua i livelli di esposizione giornaliera personale, settimanale e pressione acustica istantanea non ponderata espressi in decibel. Anche in questo caso il datore di lavoro deve procedere alla valutazione del rumore durante il lavoro, l’art. 190 dello steso decreto prevede proprio in questa ipotesi il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, ed il superamento di determinati valori impone di affiggere ai luoghi di lavoro una segnaletica appropriata
AGENTI CANGEROGENI O MUTAGENI (titolo IX)
Viene prevista sempre la fase della valutazione dei rischi, la messa in opera di tute le misure per eliminare il rischio o ridurlo al minimo, anche attraverso la sostituzione dell’agente chimico con altro meno pericoloso per la salute. Viene poi fatto obbligo di predisporre le misure di intervento adeguate in caso di emergenza e le modalità di abbandono del luogo di lavoro in tal caso.
La sorveglianza sanitaria del lavoratore anche in questo caso sarà precedente e periodica e verrano redatte cartelle sanitarie e di rischio.
Per agente cancerogeno si intende sostanza o preparato che risponde ai criteri di cui alla classificazione contenuta nel d.lgs 52/97 - art. 234 lett.a)
Per agente mutageno - art. 234 lett.b)- si intende sostanza o preparato che risponde ai criteri di cui alla classificazione contenuta nel d.lgs 52/97 .
Per agente biologico si intende qualsiasi microorganismo anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni.
Il datore di lavoro al di là della valutazione del rischio ha l’obbligo di evitare o ridurre l’utilizzo di tali agenti attraverso la sostituzione con fattori non o meno pericolosi. Qualora non sia tecnicamente possibile, si deve provvedere affinchè le lavorazioni avvengano in un sistema chiuso.
Il documento di sicurezza deve cioè contenere anche le valutazioni circa l’esposizione a tali agenti ed ha l’obbligo di adottare le misure di tutela della salute e della sicurezza che possono riguardare o l’organizzazione dei procedimenti produttivi e l’igiene delle zone di lavoro a rischio ovvero le misure di emergenza da attuare in caso di esposizione anomala a tali agenti e nel caso specifico di rischio biologico le misure di emergenza da adottare in caso di dispersione nell’ambiente, e misure per strutture sanitarie,veterinarie e laboratori.
Oltre alla tenuta del registro di esposizione il datore di lavoro deve anche tenere il registro degli esposti ove deve indicare per ciascun lavoratore:
1.l’attività svolta
2.agente utilizzato
3.eventuali casi di esposizione individuale
Il capo III riguarda l’esposizione all’amianto fissando un valore limite per un periodo di riferimento di otto ore di esposizione personale di 0,1 fibre per centimetro cubo.
ATMOSFERE ESPLOSIVE(titolo XI)
Il titolo XI disciplina i lavori con ATMOSFERE ESPLOSIVE, prescrivendo le misure minime per tutelare i lavoratori dal rischio derivante dall’esplosione di “una miscela con l’aria, a condizioni atmosferiche, di sostanze infiammabili allo stato gas, vapori, nebbie o polveri in cui, dopo l’accensione, la combustione si propaga all’insieme della miscela incombusta”. Le nuove disposizioni si applicano anche nei lavori in sotterraneo. Naturalmente la legge impone al datore di lavoro di prevenire la formazione di atmosfere esplosive e qualora non sia possibile deve :- evitare l’accensione di atmosfere esplosive
- attenuare gli effetti pregiudizievoli di un’esplosione in modo da garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Seguirà alla valutazione del rischio la redazione del documento sulla protezione contro le esplosioni.
IL CONTROLLO DELL’OBBLIGO DI SICUREZZA
Gli organi preposti alla vigilanza
La vigilanza sull’applicazione della normativa in materia di sicurezza e igiene sul lavoro , ai sensi dell’art. 13 D.lgs 81/08 è svolta:
1. azienda sanitaria locale: che ha competenza di carattere generale
2. ispettorato del lavoro: per le attività lavorative comportanti dei rischi particolarmente elevati
3. corpo nazionale dei vigili del fuoco: interventi finalizzati a ridurre le probabilità di insorgenza di incendio.
4. altri organi
Aziende sanitarie locali:
rientrano tra i compiti istituzionali delle ASL:
individuazione, accertamento, controllo dei fattori di rischio , di nocività e pericolosità dei luoghi di lavoro
la difesa e la sorveglianza sulla salute dei lavoratori
la verifica dei progetti di insediamenti industriali e delle attività produttive notificate ai sensi dell’art. 48 D.P.r. n. 303/1956
l’esercizio delle funzioni di vigilanza precedentemente esercitate dagli ispettori del lavoro e da enti disciolti quali ENPI e ANCC.
la vigilanza su macchine, impianti e mezzi di protezione fabbricati, installati o utilizzati nei territori di competenza.
L’attività di prevenzione è regolata dall’art. 20 L. 833/78 cui si rimanda.
Agli organi ispettivi della asl è esteso il potere di accesso attribuito agli ispettori del lavoro dall’art. 8 D.P.R. 520/55, nonchè il potere di diffida di cui all’art. 9.
Secondo costante interpretazione giurisprudenziale avrebbero anche potere di disposizione.
Servizi ispettivi del lavoro :
Istituito con legge 380/06 divenuto operativo con legge 1361/12, il corpo degli ispettori del lavoro, oggi inquadrati nel servizio ispezione del lavoro preso la direzione provinciale e regionale del lavoro. Il D.P.R. 520/55 (ARTT. 8-11), relativo alla riorganizzazione centrale e periferica del Ministero del lavoro, e la successiva L.628/61 (art. 4 e 5) avevano affidato la vigilanza in materia di sicurezza e igiene del lavoro all’Ispettorato del lavoro, organizzato in Ispettorati regionali e provinciali e in un Ispettorato medico centrale.
Dal 1 luglio 1982, a seguito del nuovo sistema nazionale di prevenzione disegnato dalla legge 833/78, l’ispettorato ha competenze residuali. Nello svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla legge e nei limiti dettati dal servizio cui sono designati , gli ispettori del lavoro rivestono la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria, con facoltà di visitare a qualunque ora del giorno e della notte i lavoratori, gli opifici, i cantieri e le attività lavorative soggette alla loro vigilanza e di richiedere l’assistenza dell’ufficiale sanitario al fine di eseguire accertamenti sulle condizioni sanitarie dei lavoratori e sulle condizioni igieniche dei locali ove viene svolta l’attività lavorativa.
Ai sensi dell’art. 27 ult. Co. D.P.R. 616/77 spetta all’ispettorato del lavoro l’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria con interventi di propria iniziativa o su delega della autorità giudiziaria e lo svolgimento della vigilanza amministrativa nell’adempimento delle prescrizioni dettate ai datori di lavoro dalla legislazione sociale.
L’ispettorato del lavoro svolge funzioni amministrative nelle seguenti materie:
- collaudo impianti e verifiche periodiche di esercizio di ascensori e montacarichi in servizio preso stabilimenti industriali e aziende agricole;
- conduzione di generatori a vapore
- prevenzione degli infortuni nei servizi e negli impianti gestiti dall’ente ferrovie dello stato
- efficacia dei sistemi di sicurezza di elevatori trasferibili non installati stabilmente nei luoghi di lavoro (art. 375 D.P.R. 547/55)
- efficacia dei sistemi di sicurezza di ponteggi sospesi motorizzati in alternativa a quanto previsto dall’art. 50 D.P.R.164/56
- radioprotezione
- vigilanza e verifica dei DPI
- vigilanza sulla sicurezza del materiale elettrico immesso sul mercato
Ai sensi del 2° comma dell’art. 13 d.lgs 81/08 spettano all’ispettorato del lavoro
1) attività nel settore delle costruzioni edili o di genio civile e più in particolare lavori di costruzione,manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione e risanamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura e in cemento armato, opere stradali, ferroviarie, idrauliche, scavi, montaggio e smontaggio di elementi prefabbricati; lavori in sotterraneo e gallerie, anche comportanti l'impiego di esplosivi
2) lavori mediante cassoni in aria compressa e lavori subacquei
3) ulteriori attività lavorative comportanti rischi particolarmente elevati, individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri del lavoro e della previdenza sociale, e della salute adottato sentito il comitato di cui all'articolo 5 e previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, in relazione alle quali il personale ispettivo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale svolge attività di vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, informandone preventivamente il servizio di prevenzione e sicurezza dell'Azienda sanitaria locale competente per territorio
Corpo dei vigili del fuoco:
compiti:
a) prevenzione e la vigilanza antincendi
b) estinzione degli incendi
c) servizi finalizzati alla tutela dell’incolumità delle persone e alla preservazione delle cose, anche pericoli derivati dall’impiego dell’energia nucleare
d) attività di informazione e consulenza ed asistenza in materia di sicurezza anticendio in particolare nei confronti delle imprese artigiane, delle piccole e medie imprese e delle rispettive associazioni dei lavoratori
altri organi di vigilanza
- Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (per la verifica degli adempimenti normativi nel settore minerario);
- Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano (per la verifica degli adempimenti normativi nelle industrie estrattive di seconda categoria e nelle acque minerali e termali);
- Funzionari dell’ISPESL (per le autorizzazioni omologative);
- ENEA (in virtù della L. n. 84/92 svolge, in sostituzione del CNEN, funzioni di vigilanza e di p.g. in tema di sicurezza e protezione dei lavoratori e della popolazione dai pericoli delle radiazioni ionizzanti emesse dalle sorgenti radioattive e impianti nucleari);
- Uffici di sanità aerea e marittima ed Autorità marittime, portuali ed aeroportuali (art. 23, 4° comma, D.Lgs. 626/94);
- Servizi sanitari e tecnici istituiti per le Forze Armate e di Polizia (art. 23, 4° comma, D.Lgs. 626/94);
- Carabinieri, Polizia di Stato, Polizia municipale e provinciale (tali soggetti nell’esercizio della loro funzione di cui all’art. 57 c.p.p., sono organi di polizia giudiziaria che, pur non essendo istituzionalmente preposti alla vigilanza in materia di sicurezza del lavoro, hanno l’obbligo di informare per iscritto il Pubblico Ministero dei reati di cui vengono a conoscenza. Ai sensi dell’art. 55 c.p.p. tali organi hanno, altresì, il compito di impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori e, dunque possono compiere atti coercitivi come, ad esempio, i sequestri).
Diritti e doveri degli ufficiali di polizia giudiziaria
Tra i principali diritti e doveri degli ufficiali di P.G. vanno indicati:
la facoltà di visita: hanno cioè la facoltà di visitare in ogni parte , a qualunque ora del giorno ed anche della notte i laboratori, gli opifici, i cantieri ed i lavori in quanto siano sottoposti alla loro vigilanza, nonchè i dormitori e i refettori annessi agli stabilimenti.
il potere di impartire disposizioni: la disposizione può essere definita come il provvedimento con il quale l’organo di vigilanza, nell’esercizio di un potere discrezionale riconosciutogli dalla legge, impone al datore di lavoro, nei casi e con i limiti previsti dalla legge, nuovi obblighi o divieti, che si aggiungono a quelli sanciti dal legislatore con le norme di prevenzione.
l’obbligo di segretezza: l’ufficiale di p.g. che svolge le proprie funzioni deve conservare il segreto sopra tali processi e sopra ogni altro particolare di lavorazione di cui viene a conoscenza per ragioni di servizio.
il potere di chiedere informazioni: l’ufficiale di p.g. ha il compito di raccogliere tutte le notizie e le informazioni sulle condizioni e lo svolgimento delle singole attività produttive. Chi , non fornisce le notizie dovute o le fornisce scientemente errate o incomplete, incorre in sanzione penale.
L’attività di vigilanza
La molteplicità di organi che, a vario titolo, possono intervenire in tema di sicurezza sul lavoro e la competenza concorrente tra gli stessi pone il problema del rapporto tra le funzioni di polizia amministrativa e quelle di polizia giudiziaria. Tale tematica ripropone, in un’ottica ulteriore, il problema già esaminato dell’attribuzione della competenza all’A.S.L. dei poteri e delle funzioni già proprie dell’Ispettorato del lavoro in materia di controllo dell’applicazione delle norme di sicurezza ed igiene. Infatti, se l’interpretazione dominante è concorde nell’attribuire competenza esclusiva in relazione alle funzioni di polizia amministrativa alla A.S.L., per quanto riguarda l’attività di polizia giudiziaria vi sono una molteplicità di opinioni.
Attività di polizia amministrativa ed attività di polizia giudiziaria
Secondo un primo orientamento interpretativo, l’attribuzione alle USL da parte dell’art. 21 della legge n. 833/78 dei compiti fino a quel momento svolti dall’Ispettorato del lavoro in materia di sicurezza e di igiene del lavoro, porterebbe ad escludere in capo a questi ultimi la permanenza non solo delle funzioni amministrative di vigilanza e controllo, ma anche di quelle di polizia giudiziaria.
All’opposto, sulla base del già citato 2° comma dell’art. 23 del D.Lgs. 626/94, che afferma che (nonché sulla base del disposto delle circolari n. 91 del 6 luglio 1982 e n. 23354 del 7 ottobre 1982 del Ministero del lavoro e del parere del 3 marzo 1982 della sez. II del Consiglio di Stato), la prevalente dottrina ritiene sussistenti, ancora oggi, in capo all’Ispettorato del lavoro almeno i poteri di polizia giudiziaria in materia di igiene e sicurezza del lavoro.
Pertanto, nei limiti del servizio cui sono destinati, ovvero quello di controllo generale della disciplina del lavoro, se gli ispettori del lavoro riscontrano la commissione di reati sono tenuti a riferirli all’Autorità Giudiziaria competente secondo quanto dispone l’art. 347 c.p.p.. Sul tema è intervenuta, inoltre, la circolare del Ministero del Lavoro n. 42 del 21 marzo 1997 la quale ha stabilito che, tra i compiti istituzionali assegnati alle Aree di vigilanza tecnica nelle Direzioni provinciali del lavoro, vengono individuati esplicitamente gli interventi di polizia giudiziaria in materia tecnica e di igiene del lavoro.
Ciò detto occorre ora soffermarsi sulla distinzione fra le attività di polizia amministrativa e quelle di polizia giudiziaria.
Infatti, al fine di chiarire il contenuto dell’attività di vigilanza e del potere-dovere della prescrizione obbligatoria con la relativa sospensione del procedimento penale per la responsabilità contravvenzionale (di cui all’art. 20 D.Lgs. 758/1994), il nodo da sciogliere si annida nel delicato equilibrio tra sfera amministrativa della prevenzione e sfera dell’accertamento giudiziale dei reati e della prevenzione specifica in sede penale.
Le funzioni di vigilanza di natura amministrativa sono rivolte principalmente alla prevenzione delle malattie professionali ed alla salvaguardia della salubrità, dell’igiene e della sicurezza negli ambienti di lavoro.
Espressione di ciò, è il potere di cui all’art. 8 del DPR 520/55, ovvero la facoltà di visitare in ogni parte, sia di giorno che di notte, i laboratori, gli opifici, i cantieri , attribuita agli ispettori del lavoro ed estesa agli addetti della USL ed il potere, concesso dall’art. 20 della L. n. 833/78 ancora agli addetti delle A.S.L., di individuazione, di accertamento e di controllo dei fattori di nocività, di pericolosità e di deterioramento degli ambienti di lavoro, nonché di comunicazione e di diffusione dei dati accertati, di indicazione delle misure idonee all’eliminazione dei fattori di rischio ed al risanamento degli ambienti. Alle citate funzioni di prevenzione si affiancano i compiti di controllo diretti ad evitare la violazione delle norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro, richiedendone il positivo adempimento o la rimozione degli effetti verificatisi a seguito della loro violazione.
Se durante la normale attività di polizia amministrativa, si riscontri la violazione di norme antinfortunistiche sanzionate penalmente, i funzionari A.S.L. e/o gli Ispettori del lavoro, ai quali come detto sono attribuite le funzioni di Polizia Giudiziaria, debbono inoltrare rapporto all’Autorità Giudiziaria e possono eseguire atti di assicurazione personale, come l’arresto in flagranza di reato, o atti di assicurazione materiale ai fini probatori, come il sequestro probatorio ed il sequestro preventivo in via d’urgenza da convalidare ad opera dell’A.G..
In particolare, mentre il pubblico ufficiale non avente la qualifica di Ufficiale di polizia giudiziaria, deve sospendere ai fini penali la sua attività di accertamento del fatto di reato, pur dovendo proseguire l’ispezione su oggetti diversi e per fini diversi dall’applicazione della legge penale, limitandosi a denunciare per iscritto la notitia criminis senza ritardo al Pubblico Ministero o ad un ufficiale di polizia giudiziaria, il pubblico ufficiale avente la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria può proseguire a svolgere attività anche con riferimento al reato ma, allo stesso tempo deve comunicare la notizia di reato, corredata delle indicazioni previste dal codice di procedura penale al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale nel cui circondario si è verificato il reato.
In materia di prevenzione, igiene e controllo sullo stato di salute dei lavoratori avranno la qualifica di Ufficiali di Polizia Giudiziaria, le persone che, nei limiti dei servizi individuati da leggi e regolamenti (A.S.L., Ispettorato del lavoro, Vigili del fuoco, funzionari del Ministero dell’industria del commercio e dell’artigianato, funzionari delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano), svolgono le funzioni previste dall’art. 55 c.p.p..
Pertanto, in base al combinato disposto dell’art. 8 del DPR n. 520/55, dell’art. 21, comma 3, della L. n. 833/78 e dell’art. 57, comma 3, del c.p.p., ai soggetti sopra menzionati si attribuiscono funzioni di polizia giudiziaria, in considerazione della rilevanza penale di gran parte delle violazioni alle norme che tutelano la salute dei lavoratori.
L’attività di polizia giudiziaria, svolta da organi statali (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di finanza, ecc.), locali (Sindaco, guardie provinciali e comunali), oppure da organi specifici (Ispettori del lavoro, funzionari A.S.L., Vigili del fuoco), ha luogo principalmente nei momenti iniziali del procedimento penale e, secondo l’elencazione dell’art. 55 c.p.p., si estrinseca nel prendere, anche di propria iniziativa, notizia dei reati, nell’impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, nel ricercarne gli autori, nel compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e nel raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale. La polizia giudiziaria, inoltre, svolge ogni indagine ed attività disposta o delegata dall’Autorità Giudiziaria e procede all’arresto in flagranza di reato ed al fermo degli indiziati di delitto.
Traslando tale disciplina ai reati in materia prevenzionale, è possibile affermare che l’arresto obbligatorio può essere operato nell’ipotesi di rimozione od omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, quando dal fatto derivi un disastro od un infortunio (art. 437, 2° comma, c.p., pena della reclusione da tre a dieci anni) ed è in tal caso consentito anche il fermo; diversamente, l’arresto facoltativo è possibile nella flagranza del delitto di cui all’art. 437, 1° comma, c.p. e di omicidio colposo (art. 589 c.p.). Non sono consentiti né l’arresto né il fermo per i delitti di omissione colposa di cautele (art. 451 c.p.) e di lesioni colpose (art. 590 c.p.), nonché per tutte le contravvenzioni, la cui contestazione come circostanza aggravante dei reati contro la persona (omicidio o lesioni) è finalizzata ad accentuare la gravità oggettiva del fatto, con conseguenze sull’assetto punitivo, mentre la contestazione autonoma segue, come si vedrà, un iter del tutto peculiare.
Oltre agli atti di assicurazione a carattere personale, appena analizzati, all’Ufficiale di Polizia Giudiziaria sono attribuiti poteri di assicurazione reale (perquisizione), di accesso presso le attività lavorative, di assunzione di informazioni, di sequestro, di prescrizione. Inoltre, la norma richiamata, al quarto comma, afferma che .
Il diritto di accesso di cui all’art. 8, DPR 520/55, attribuito nell’esercizio delle funzioni di vigilanza e controllo agli Ispettori del lavoro ed esteso ai funzionari dell’U.S.L., deve essere distinto dal più ampio potere ispettivo di cui godono i soli Ufficiali di Polizia Giudiziaria. Mentre tutti gli operatori pubblici possono accedere ai luoghi di lavoro per poter svolgere le funzioni di competenza del servizio limitatamente agli accertamenti avviati nell’ambito dell’attività programmata dal servizio o, comunque, discendente dai compiti che la legge istituzionalmente assegna agli organi di vigilanza, il potere ispettivo consente di effettuare visite e sopralluoghi, perquisizioni e sequestri, anche di propria iniziativa, in qualunque settore dell’azienda ed in qualunque occasione. Quando il diritto di accesso ed il potere ispettivo sono legittimamente esercitati, il datore di lavoro ha l’obbligo di consentire l’accesso o l’ispezione nei suoi locali o nei suoi stabilimenti, di modo che un eventuale ed ingiustificato rifiuto, potrebbe dare luogo agli estremi dei reati di cui agli artt.336, 337, 340 c.p. (capo II, Dei delitti dei privati contro la pubblica Amministrazione).
Le indagini di polizia giudiziaria e gli interventi prescrittivi
All’opposto, sulla base del già citato 2° comma dell’art. 23 del D.Lgs. 626/94, che afferma che (nonché sulla base del disposto delle circolari n. 91 del 6 luglio 1982 e n. 23354 del 7 ottobre 1982 del Ministero del lavoro e del parere del 3 marzo 1982 della sez. II del Consiglio di Stato), la prevalente dottrina ritiene sussistenti, ancora oggi, in capo all’Ispettorato del lavoro almeno i poteri di polizia giudiziaria in materia di igiene e sicurezza del lavoro.
Pertanto, nei limiti del servizio cui sono destinati, ovvero quello di controllo generale della disciplina del lavoro, se gli ispettori del lavoro riscontrano la commissione di reati sono tenuti a riferirli all’Autorità Giudiziaria competente secondo quanto dispone l’art. 347 c.p.p.. Sul tema è intervenuta, inoltre, la circolare del Ministero del Lavoro n. 42 del 21 marzo 1997 la quale ha stabilito che, tra i compiti istituzionali assegnati alle Aree di vigilanza tecnica nelle Direzioni provinciali del lavoro, vengono individuati esplicitamente gli interventi di polizia giudiziaria in materia tecnica e di igiene del lavoro.
Ciò detto occorre ora soffermarsi sulla distinzione fra le attività di polizia amministrativa e quelle di polizia giudiziaria.
Infatti, al fine di chiarire il contenuto dell’attività di vigilanza e del potere-dovere della prescrizione obbligatoria con la relativa sospensione del procedimento penale per la responsabilità contravvenzionale (di cui all’art. 20 D.Lgs. 758/1994), il nodo da sciogliere si annida nel delicato equilibrio tra sfera amministrativa della prevenzione e sfera dell’accertamento giudiziale dei reati e della prevenzione specifica in sede penale.
Le funzioni di vigilanza di natura amministrativa sono rivolte principalmente alla prevenzione delle malattie professionali ed alla salvaguardia della salubrità, dell’igiene e della sicurezza negli ambienti di lavoro.
Espressione di ciò, è il potere di cui all’art. 8 del DPR 520/55, ovvero la facoltà di visitare in ogni parte, sia di giorno che di notte, i laboratori, gli opifici, i cantieri , attribuita agli ispettori del lavoro ed estesa agli addetti della USL ed il potere, concesso dall’art. 20 della L. n. 833/78 ancora agli addetti delle A.S.L., di individuazione, di accertamento e di controllo dei fattori di nocività, di pericolosità e di deterioramento degli ambienti di lavoro, nonché di comunicazione e di diffusione dei dati accertati, di indicazione delle misure idonee all’eliminazione dei fattori di rischio ed al risanamento degli ambienti. Alle citate funzioni di prevenzione si affiancano i compiti di controllo diretti ad evitare la violazione delle norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro, richiedendone il positivo adempimento o la rimozione degli effetti verificatisi a seguito della loro violazione.
Se durante la normale attività di polizia amministrativa, si riscontri la violazione di norme antinfortunistiche sanzionate penalmente, i funzionari A.S.L. e/o gli Ispettori del lavoro, ai quali come detto sono attribuite le funzioni di Polizia Giudiziaria, debbono inoltrare rapporto all’Autorità Giudiziaria e possono eseguire atti di assicurazione personale, come l’arresto in flagranza di reato, o atti di assicurazione materiale ai fini probatori, come il sequestro probatorio ed il sequestro preventivo in via d’urgenza da convalidare ad opera dell’A.G..
In particolare, mentre il pubblico ufficiale non avente la qualifica di Ufficiale di polizia giudiziaria, deve sospendere ai fini penali la sua attività di accertamento del fatto di reato, pur dovendo proseguire l’ispezione su oggetti diversi e per fini diversi dall’applicazione della legge penale, limitandosi a denunciare per iscritto la notitia criminis senza ritardo al Pubblico Ministero o ad un ufficiale di polizia giudiziaria, il pubblico ufficiale avente la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria può proseguire a svolgere attività anche con riferimento al reato ma, allo stesso tempo deve comunicare la notizia di reato, corredata delle indicazioni previste dal codice di procedura penale al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale nel cui circondario si è verificato il reato.
In materia di prevenzione, igiene e controllo sullo stato di salute dei lavoratori avranno la qualifica di Ufficiali di Polizia Giudiziaria, le persone che, nei limiti dei servizi individuati da leggi e regolamenti (A.S.L., Ispettorato del lavoro, Vigili del fuoco, funzionari del Ministero dell’industria del commercio e dell’artigianato, funzionari delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano), svolgono le funzioni previste dall’art. 55 c.p.p..
Pertanto, in base al combinato disposto dell’art. 8 del DPR n. 520/55, dell’art. 21, comma 3, della L. n. 833/78 e dell’art. 57, comma 3, del c.p.p., ai soggetti sopra menzionati si attribuiscono funzioni di polizia giudiziaria, in considerazione della rilevanza penale di gran parte delle violazioni alle norme che tutelano la salute dei lavoratori.
L’attività di polizia giudiziaria, svolta da organi statali (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di finanza, ecc.), locali (Sindaco, guardie provinciali e comunali), oppure da organi specifici (Ispettori del lavoro, funzionari A.S.L., Vigili del fuoco), ha luogo principalmente nei momenti iniziali del procedimento penale e, secondo l’elencazione dell’art. 55 c.p.p., si estrinseca nel prendere, anche di propria iniziativa, notizia dei reati, nell’impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, nel ricercarne gli autori, nel compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e nel raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale. La polizia giudiziaria, inoltre, svolge ogni indagine ed attività disposta o delegata dall’Autorità Giudiziaria e procede all’arresto in flagranza di reato ed al fermo degli indiziati di delitto.
Traslando tale disciplina ai reati in materia prevenzionale, è possibile affermare che l’arresto obbligatorio può essere operato nell’ipotesi di rimozione od omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, quando dal fatto derivi un disastro od un infortunio (art. 437, 2° comma, c.p., pena della reclusione da tre a dieci anni) ed è in tal caso consentito anche il fermo; diversamente, l’arresto facoltativo è possibile nella flagranza del delitto di cui all’art. 437, 1° comma, c.p. e di omicidio colposo (art. 589 c.p.). Non sono consentiti né l’arresto né il fermo per i delitti di omissione colposa di cautele (art. 451 c.p.) e di lesioni colpose (art. 590 c.p.), nonché per tutte le contravvenzioni, la cui contestazione come circostanza aggravante dei reati contro la persona (omicidio o lesioni) è finalizzata ad accentuare la gravità oggettiva del fatto, con conseguenze sull’assetto punitivo, mentre la contestazione autonoma segue, come si vedrà, un iter del tutto peculiare.
Oltre agli atti di assicurazione a carattere personale, appena analizzati, all’Ufficiale di Polizia Giudiziaria sono attribuiti poteri di assicurazione reale (perquisizione), di accesso presso le attività lavorative, di assunzione di informazioni, di sequestro, di prescrizione. Inoltre, la norma richiamata, al quarto comma, afferma che .
Il diritto di accesso di cui all’art. 8, DPR 520/55, attribuito nell’esercizio delle funzioni di vigilanza e controllo agli Ispettori del lavoro ed esteso ai funzionari dell’U.S.L., deve essere distinto dal più ampio potere ispettivo di cui godono i soli Ufficiali di Polizia Giudiziaria. Mentre tutti gli operatori pubblici possono accedere ai luoghi di lavoro per poter svolgere le funzioni di competenza del servizio limitatamente agli accertamenti avviati nell’ambito dell’attività programmata dal servizio o, comunque, discendente dai compiti che la legge istituzionalmente assegna agli organi di vigilanza, il potere ispettivo consente di effettuare visite e sopralluoghi, perquisizioni e sequestri, anche di propria iniziativa, in qualunque settore dell’azienda ed in qualunque occasione. Quando il diritto di accesso ed il potere ispettivo sono legittimamente esercitati, il datore di lavoro ha l’obbligo di consentire l’accesso o l’ispezione nei suoi locali o nei suoi stabilimenti, di modo che un eventuale ed ingiustificato rifiuto, potrebbe dare luogo agli estremi dei reati di cui agli artt.336, 337, 340 c.p. (capo II, Dei delitti dei privati contro la pubblica Amministrazione).
Le indagini di polizia giudiziaria e gli interventi prescrittivi
L’equilibrio fra attività di vigilanza e controllo di carattere amministrativo e attività di accertamento giudiziale dei reati prevenzionali, espresso in passato dal potere (art. 9, DPR 520/55), attraverso il quale, l’organo di vigilanza e controllo poteva valutare discrezionalmente l’opportunità di emanare un atto di ingiunzione o di disposizione di natura amministrativa, dando l’avvio ad una fase autonoma rispetto al processo penale, è stato ridisegnato con il D.Lgs. 758/1994.
Dal sistema dei precetti (protezione oggettiva sugli strumenti con controllo esterno) si è passati al sistema delle procedure (prevenzione e responsabilizzazione dei soggetti interni), dal sistema dei controlli esterni si è passati al sistema dell’autocontrollo e della programmazione della sicurezza, cosicché il tenore dell’art. 20 della L.833/78 che attribuiva alle USL la maggior parte degli obblighi di prevenzione (dalla valutazione dei rischi, all’individuazione delle misure di prevenzione, dall’informazione e formazione, alla sorveglianza sanitaria) è stato ribaltato e tali compiti sono stati affidati, dal D.Lgs. 626/94, direttamente all’azienda (datore di lavoro ed organizzazione aziendale) lasciando agli organi di polizia amministrativa la sola vigilanza sull’applicazione delle norme.
Infine, ed è questo certamente il punto di maggior interesse, dalla centralità della giurisdizione penale, attuata mediante la repressione ma soprattutto l’assicurazione indiretta dei fini di prevenzione, si è passati alla centralità della vigilanza affidata agli organi preposti ed espressa dal procedimento della prescrizione obbligatoria.
Il D.Lgs. 758/1994, infatti, nell’ambito delle modifiche alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro, pur inasprendo le sanzioni, prevede per tutte, alternativamente, l’ammenda non superiore a otto milioni o l’arresto non superiore a sei mesi, e, tralasciando il criterio della gravità del rischio tutelato, consente l’estinzione una volta avviata la procedura di cui agli artt. 20 e seguenti.
Tale procedura, nella prassi, ha avuto una efficacissima applicazione determinando, da un lato, una consistente deflazione dei relativi procedimenti penali per i reati in tema si sicurezza sul lavoro e, dall’altro, una consistente opera di adeguamento alla normativa antinfortunistica da parte delle imprese a carico delle quali era stata riscontrata una violazione. La procedura determina la estinzione delle contravvenzioni relative alla materia della sicurezza e dell’igiene del lavoro per i reati , ed è denominata “prescrizione obbligatoria o ad adempiere”, sostanziandosi nella fissazione di un termine per la regolarizzazione dell’obbligo inadempiuto non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario, alla conclusione del quale, con il corretto adempimento, l’organo di vigilanza ammette il contravventore a pagare in sede amministrativa una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa. Il duplice adempimento dell’adeguamento e del pagamento della sanzione ridotta determina l’estinzione del reato.
La prescrizione è, fondamentalmente, uno strumento di polizia amministrativa preordinato alla rimozione, immediata o da realizzarsi entro il termine assegnato, della violazione accertata.
Il controllo tecnico sulla regolarizzazione, la valutazione del raggiungimento del fine specifico, la gestione dell’oblazione come possibile conseguenza della regolarizzazione, sono stati integralmente attribuiti all’organo di vigilanza ma è rimasto l’obbligo della segnalazione all’Autorità Giudiziaria e, a fronte di un procedimento penale pur sospeso, è al giudice penale che è stato affidato il vaglio finale circa l’estinzione del reato. Allo stesso modo è sempre al giudice che viene riservato il potere di valutare l’intempestività dell’adempimento o l’adeguatezza dell’adempimento in forma diversa o, ancora, la contestazione sul contenuto dell’accertamento dell’organo di vigilanza.
L’art. 23 del D.Lgs. 626/94, confermando la competenza concorrente dell’Ispettorato del lavoro per la vigilanza in materia di igiene e sicurezza, fa sì che anche agli ispettori del lavoro ed agli altri soggetti dotati di competenze specifiche per materia, è imposto di prescrivere al contravventore il termine per la regolarizzazione dell’illecito, conformemente all’art. 20, primo comma, D.Lgs. 758/94.
L’applicazione del sistema della “prescrizione obbligatoria” di cui all’art. 20, D.Lgs. 758/94, costituisce, infatti, il contenuto principale dell’attività svolta dai soggetti titolari sia dei poteri di vigilanza e controllo amministrativi sia di quelli di polizia giudiziaria, nel momento in cui individuano la violazione di norme antinfortunistiche penalmente sanzionate.
Pertanto, in base alle considerazioni sopra svolte, è possibile affermare che l’attività di vigilanza può essere esercitata su iniziativa del servizio competente (U.S.L., Ispettorato del lavoro, Vigili del Fuoco, Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, regione, ISPESL in base alle specifiche prerogative), su delega della Procura, su segnalazione o richiesta di intervento.
I casi di iniziativa da parte del servizio competente sono relativi, prevalentemente, alle aziende a rischio elevato o diffuso, ad indagini compartimentali, a situazioni infortunistiche o a malattie professionali diffuse, ad emergenze, al lavoro minorile ed all’apprendistato (per quel che riguarda gli aspetti di sicurezza ed igiene del lavoro).
I casi di delega da parte della Procura sono relativi alla verifica ed all’indagine su infortuni gravi o mortali, alle malattie professionali, alla denunce ed alle segnalazioni, alle emergenze. In simili circostanze, durante la fase di sopralluogo, l’Ufficiale di Polizia Giudiziaria appartenente all’organo di vigilanza e controllo è tenuto al segreto d’ufficio.
I casi di segnalazione o richiesta di intervento sono relativi all’azione delle organizzazioni sindacali, del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, di qualsiasi lavoratore o cittadino o in conseguenza di verifiche effettuate da altro ente pubblico.
Procedimento di vigilanza: la prescrizione ad adempiere
L’organo di vigilanza che svolge l’ispezione e che accerta la commissione di un reato contravvenzionale in materia di igiene e sicurezza del lavoro punibile con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, come detto, deve impartire al contravventore una imposizione ad adempiere la norma violata al fine di estinguere il reato.
Si discute se l’ambito di operatività del procedimento prescrittivo di cui al D.Lgs. 758/94, ovvero l’individuazione delle fattispecie contravvenzionali riconducibili alla categoria dei reati in materia di igiene e sicurezza del lavoro, sia rimessa a generali criteri interpretativi oppure sia vincolata all’elencazione contenuta nell’allegato I del decreto stesso alla quale rimanda l’art. 19, 1° comma. Generalmente si ritiene che la nozione di reato contravvenzionale in materia di sicurezza e igiene del lavoro contenuta nell’art. 19, 1° comma lett. a) è utilizzabile ai soli fini dell’applicabilità della particolare causa estintiva in essa prevista, ma non costituisce una definizione valida in altri settori dell’ordinamento in cui è richiamata la normativa antinfortunistica.
L’art. 20 del decreto in esame, affermando che il potere-dovere di impartire la prescrizione è relativo ad accertate contravvenzioni alle norme di cui all’allegato I, sancisce la sua applicabilità solo nei confronti di contravvenzioni che siano state consumate e, inoltre, poiché deve trattarsi di illeciti passabili di regolarizzazione, ne sono esclusi i reati c.d. istantanei, e comunque non più suscettibili di sanatoria o regolarizzazione. In questo senso, si ritiene applicabile il potere-dovere di impartire la prescrizione anche ai reati commissivi permanenti ed anche nel caso in cui il bene tutelato dalla norma sia già stato violato, come si verifica nel caso di contravvenzioni alle norme di sicurezza che abbiano determinato infortuni sul lavoro. Secondo la migliore interpretazione, accolta anche dal Ministero del Lavoro, la speciale causa di estinzione non troverebbe applicazione nel caso di reati istantanei non più suscettibili di regolarizzazione .
L’art. 20 del D.Lgs. 758/94 afferma che .
Il secondo comma dello stesso articolo aggiunge che .
La proroga di cui al secondo comma dell’art.20 del D.Lgs. 758/96 si pone quale riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico delle possibili difficoltà di attuazione, in tempi brevi, di alcune prescrizioni contenute nella legislazione speciale di igiene e sicurezza sul lavoro. La proroga, che si conteggia dalla data nella quale è impartita la prescrizione, deve essere relativa ad una situazione di oggettiva impossibilità e non deve essere imputabile alla colpa del contravventore.
Se attraverso l’ispezione è stata accertata la contravvenzione ed è stato prescritto al contravventore il termine per la regolarizzazione, versandosi comunque in una ipotesi di reato, l’organo di vigilanza ha l’obbligo di riferire al Pubblico Ministero la notizia di reato inerente la contravvenzione ai sensi dell’art. 347 c.p.p. (art. 20, quarto comma). La prescrizione, infatti, quale atto giudiziario strettamente connessa al procedimento penale deve essere sempre comunicata al Pubblico Ministero non potendo tale comunicazione essere derogata dall’emanazione di un atto amministrativo. Secondo lo schema del D.Lgs. 758/94, il procedimento penale, in pendenza del termine fissato per la regolarizzazione, resta sospeso al pari del decorso della prescrizione del reato (art. 159 c.p.).
Tuttavia nella fase di sospensione il Pubblico Ministero potrà richiedere ulteriori elementi istruttori, l’assunzione delle prove con incidente probatorio, l’espletamento degli atti urgenti di indagine preliminare, il sequestro preventivo (ai sensi dell’art. 321 e ss. c.p.c.) secondo l’art. 23, terzo comma ed anche l’archiviazione del procedimento. Deve ritenersi, inoltre, che sia possibile per il soggetto sottoposto a prescrizione, nel caso in cui consideri il provvedimento impossibile od incongruo o intenda adempiere agli obblighi di legge secondo tempi e modalità diverse, proporre controdeduzioni direttamente al Pubblico Ministero, il quale, non essendo vincolato alle conclusioni dell’organo di vigilanza, può formulare ugualmente istanza di archiviazione.
Nella prassi il Pubblico Ministero si limita ad attendere l’eventuale ottemperanza alle prescrizioni impartite e solo in caso di inerzia del soggetto indagato si darà luogo, qualora necessario, ad un approfondimento di indagine diretto a valutare la sussistenza dell’ipotesi criminosa e le possibili definizioni del procedimento.
In base al terzo comma dell’art. 20, l’organo di vigilanza e controllo potrà, con la prescrizione, imporre al contravventore .
Nel caso in cui entro e non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione l’organo di vigilanza riscontri l’adempimento, il contravventore è ammesso a pagare una sanzione in sede amministrativa, nel termine di trenta giorni, pari ad un quarto del massimo dell’ammenda prevista per la contravvenzione commessa. L’organo di vigilanza comunica al Pubblico Ministero, entro centoventi giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l’adempimento alla prescrizione, nonché l’eventuale pagamento della somma predetta.
Il Pubblico Ministero, ricevuta la comunicazione in parola, provvede a richiedere l’archiviazione ed il reato, intervenuto il provvedimento giudiziale di archiviazione, si estingue.
Diversamente, qualora l’organo di vigilanza, dopo la prevista verifica, riscontri l’inadempimento alla prescrizione ne dà comunicazione al Pubblico Ministero ed al contravventore entro novanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione. La mancata regolarizzazione riattiva il procedimento penale precedentemente sospeso.
L’inadempimento riscontrato dall’organo di vigilanza potrà essere di tre tipi:
1. inadempimento totale;
2. adempimento posto in essere in un tempo superiore a quello indicato nella prescrizione;
3. adempimento posto in essere con modalità diverse da quelle indicate dall’organo di vigilanza.
Nell’ipotesi di adempimento posto in essere in un tempo superiore a quello indicato nella prescrizione, ovvero con modalità diverse da quelle indicate dall’organo di vigilanza e controllo, il comportamento del contravventore è considerato per l’applicazione dell’art. 162 bis c.p. e, dunque, per l’oblazione discrezionale delle contravvenzioni punibili con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda. Infatti la rimozione del comportamento antigiuridico, benché tardiva o difforme da quanto richiesto è favorevolmente valutata ai fini dell’applicabilità dell’oblazione discrezionale.
Diffida e disposizione
Diversamente, qualora l’organo di vigilanza, dopo la prevista verifica, riscontri l’inadempimento alla prescrizione ne dà comunicazione al Pubblico Ministero ed al contravventore entro novanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione. La mancata regolarizzazione riattiva il procedimento penale precedentemente sospeso.
L’inadempimento riscontrato dall’organo di vigilanza potrà essere di tre tipi:
1. inadempimento totale;
2. adempimento posto in essere in un tempo superiore a quello indicato nella prescrizione;
3. adempimento posto in essere con modalità diverse da quelle indicate dall’organo di vigilanza.
Nell’ipotesi di adempimento posto in essere in un tempo superiore a quello indicato nella prescrizione, ovvero con modalità diverse da quelle indicate dall’organo di vigilanza e controllo, il comportamento del contravventore è considerato per l’applicazione dell’art. 162 bis c.p. e, dunque, per l’oblazione discrezionale delle contravvenzioni punibili con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda. Infatti la rimozione del comportamento antigiuridico, benché tardiva o difforme da quanto richiesto è favorevolmente valutata ai fini dell’applicabilità dell’oblazione discrezionale.
Diffida e disposizione
L’art. 25 del D.Lgs. 758/94, dispone che .
Dalla lettura della norma emerge che, per le contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza del lavoro di cui all’allegato I punite con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, l’istituto della prescrizione ad adempiere sostituisca tout court sia la diffida che la disposizione.
La diffida è un atto amministrativo regolato dall’art. 9 del DPR 520/55 secondo il quale .
Il riferimento di cui sopra alla “prescrizione” pone il problema di individuare se l’istituto della “prescrizione obbligatoria” sia diverso rispetto all’istituto della diffida oppure se sia soltanto una diversa definizione che lascia inalterato il sistema della attività di vigilanza in materia di sicurezza del lavoro.
I due istituti denotano chiari elementi di differenziazione.
La prescrizione ad adempiere, infatti, non rientra più tra le funzioni di polizia amministrativa volte alla prevenzione ed alla vigilanza, ma viene impartita in ipotesi dire reato dall’organo di vigilanza, nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria. Pertanto è obbligatoria ed è finalizzata all’eliminazione della situazione antigiuridica e, nello stesso tempo, ad evitare che l’illecito sia portato a conseguenze ulteriori; Da ciò deriva che la prescrizione, in quanto assoggettata al regime giuridico proprio degli atti di polizia giudiziaria, non può essere autonomamente impugnata.
Con la diffida, in precedenza, l’organo di vigilanza e controllo poteva, invece, valutare discrezionalmente l’opportunità di emanare un atto di ingiunzione o di disposizione di natura amministrativa, dando l’avvio ad una fase autonoma rispetto al processo penale.
In sintesi, all’ingiunzione amministrativa in cui si concretava il potere di diffida si sostituisce la prescrizione. La prescrizione, infatti, è la nuova forma in cui si sostanzia il potere di diffida, l’atto attraverso il quale l’organo di vigilanza rilevando la contravvenzione ed avviando automaticamente il procedimento penale con la comunicazione della notitia criminis all’autorità giudiziaria, intima al datore di lavoro il rispetto delle norme di sicurezza attribuendogli un termine per la regolarizzazione non eccedente il tempo tecnicamente necessario.
All’opposto le norme sulla prescrizione ad adempiere non hanno abrogato in toto lo strumento della disposizione, attribuito agli Ispettori del lavoro dall’art. 10 del DPR 520/55 ed esteso ai funzionari delle U.S.L. dall’art. 20 della L. 833/78.
Infatti, se questo tipo di provvedimento è stato sostituito dalla prescrizione per quanto riguarda l’accertamento di una contravvenzione (nell’esercizio della funzione di polizia giudiziaria), nel caso di individuazione di situazioni pericolose che non comportano violazione di norme contravvenzionali (nell’esercizio della funzione di vigilanza amministrativa), o per imporre nuovi obblighi o divieti in aggiunta o in sostituzione a quelli già previsti dal legislatore, il ricorso ad esso può rivestire autonoma rilevanza. Pertanto, lo strumento della disposizione può essere utilizzato dall’organo di vigilanza e controllo sia quando egli ravvisi una situazione di pericolo che non implica contravvenzione di una precisa norma di legge, sia quando è la stessa norma di legge che rimette all’organo di vigilanza e controllo il compito di precisare o derogare o modificare quanto da lei disposto.
LA SOSPENSIONE EX ART. 14 D.LGS 81/08
Natura amministrativa appare avere lo strumento della “sospensione cautelare” delle attività imprenditoriali, introdotto dal testo unico del 2008, e attribuito sia alle ausl non quando accerti “gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro ma anche al ministero del lavoro quando riscontri l’impiego di personale non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria.
Provvedimento amministrativo che potrà essere revocato previo accertamento del ripristino delle regolari condizioni di lavoro e il pagamento di una sanzione, ed è sempre ricorribile entro trenta giorni, dinanzi all’organo gerarchicamente superiore a quello che l’ha emanato .
Avverso i provvedimenti di sospensione di cui ai commi 1 e 2 è ammesso ricorso, entro 30 giorni, rispettivamente, alla Direzione regionale del lavoro territorialmente competente e al presidente della Giunta regionale, i quali si pronunciano nel termine di 15 giorni dalla notifica del ricorso. Decorso inutilmente tale ultimo termine il provvedimento di sospensione perde efficacia.
Titolo XII DISPOSIZIONI IN MATERIA PENALE E DI PROCEDURA PENALE
Provvedimento amministrativo che potrà essere revocato previo accertamento del ripristino delle regolari condizioni di lavoro e il pagamento di una sanzione, ed è sempre ricorribile entro trenta giorni, dinanzi all’organo gerarchicamente superiore a quello che l’ha emanato .
Avverso i provvedimenti di sospensione di cui ai commi 1 e 2 è ammesso ricorso, entro 30 giorni, rispettivamente, alla Direzione regionale del lavoro territorialmente competente e al presidente della Giunta regionale, i quali si pronunciano nel termine di 15 giorni dalla notifica del ricorso. Decorso inutilmente tale ultimo termine il provvedimento di sospensione perde efficacia.
Titolo XII DISPOSIZIONI IN MATERIA PENALE E DI PROCEDURA PENALE
Ai sensi dell’art. 2 della legge delega 203/07 viene introdotto all’art 60 del T.U la disposizione secondo la quale, in caso di esercizio dell’azione penale per i delitti di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale, il pubblico ministero ne dia notizia all’INAIL ed all’IPSEMA, in relazione alle rispettive competenze, ai fini dell’eventuale costituzione di parte civile e dell’azione di regresso.
E’ inoltre previsto che le organizzazioni sindacali e le associazione dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro abbiano la facoltà di esercitare i diritti e le facoltà della persona offesa di cui agli artt. 91 e 92 c.p.p, con riferimento ai reati commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale
È introdotta all’art. 303 una particolare ipotesi di circostanza attenuante legata al c.d. “ravvedimento operoso”: “1. La pena per i reati previsti dal presente decreto e puniti con la pena dell’arresto, anche in via alternativa, è ridotta fino ad un terzo per il contravventore che, entro i termini di cui all’art. 491 del codice di procedura penale, si adopera concretamente per la rimozione delle irregolarità riscontrate dagli organi di vigilanza e delle eventuali conseguenze dannose del reato.
E’ inoltre previsto che le organizzazioni sindacali e le associazione dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro abbiano la facoltà di esercitare i diritti e le facoltà della persona offesa di cui agli artt. 91 e 92 c.p.p, con riferimento ai reati commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale
È introdotta all’art. 303 una particolare ipotesi di circostanza attenuante legata al c.d. “ravvedimento operoso”: “1. La pena per i reati previsti dal presente decreto e puniti con la pena dell’arresto, anche in via alternativa, è ridotta fino ad un terzo per il contravventore che, entro i termini di cui all’art. 491 del codice di procedura penale, si adopera concretamente per la rimozione delle irregolarità riscontrate dagli organi di vigilanza e delle eventuali conseguenze dannose del reato.
2. La riduzione di cui al comma 1 non si applica nei casi di definizione del reato ai sensi dell’articolo 302 del presente decreto”.
l’art. 300 del T.U. ha esteso l’ambito della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (l. 231/01) anche nelle ipotesi di cui agli artt. 589 c.p. e 590 c.p., quando l’evento sia il risultato della violazione delle norme sulla prevenzione.
In tal modo il legislatore ha accolto i rilievi della dottrina, la quale aveva sottolineato come un sistema sanzionatorio ancorato alla moderna realtà produttiva deve tenere conto del fatto che spesso le scelte operate dai datori di lavoro siano condizionate dalle politiche economiche di impresa e dunque anche dagli interessi particolari perseguiti dal soggetto collettivo.
Suddetta norma, se da una parte ha l’indubbio pregio di costituire “punto di contatto tra responsabilità da reato degli enti e condotte illecite incentrate su un’inadeguata gestione del rischio” dall’altra apre in dottrina la querelle circa “la compatibilità tra i reati previsti dall’art. 25-septies ed il criterio di attribuzione dell’illecito all’ente incardinato sull’interesse e/o sul vantaggio” .
Posto infatti che l’esigenza che l’ente venga chiamato a rispondere per il fatto proprio è stata assolta delineando un triplice collegamento tra reato presupposto ed ente (l’illecito della persona fisica deve essere stato commesso da persone che trattengono rapporti particolari con l’ente; il reato deve essere stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente; deve sussistere una colpa di organizzazione), il criterio di attribuzione dell’illecito sull’interesse e sul vantaggio, nato per evidenziare la proiezione finalistica della condotta nei reati di matrice dolosa , mal si coniuga con il delitto colposo il quale si caratterizza per la mancanza di volontà dell’evento.
Secondo alcuni autori questo “impasse” interpretativo sarebbe superato da una ricostruzione della fattispecie incentrata sulla c.d. colpa cosciente o sull’interesse mediato.
Altri invece pongono l’accento sulla contrarietà a Costituzione delle interpretazioni che legittimano l’associazione tra interesse/vantaggio e condotta, sostenendo invece l’interesse/vantaggio vada sempre ancorato all’evento lesivo, e quindi con sostanziale disapplicazione dell’art. 25-septies.
l’art. 300 del T.U. ha esteso l’ambito della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (l. 231/01) anche nelle ipotesi di cui agli artt. 589 c.p. e 590 c.p., quando l’evento sia il risultato della violazione delle norme sulla prevenzione.
In tal modo il legislatore ha accolto i rilievi della dottrina, la quale aveva sottolineato come un sistema sanzionatorio ancorato alla moderna realtà produttiva deve tenere conto del fatto che spesso le scelte operate dai datori di lavoro siano condizionate dalle politiche economiche di impresa e dunque anche dagli interessi particolari perseguiti dal soggetto collettivo.
Suddetta norma, se da una parte ha l’indubbio pregio di costituire “punto di contatto tra responsabilità da reato degli enti e condotte illecite incentrate su un’inadeguata gestione del rischio” dall’altra apre in dottrina la querelle circa “la compatibilità tra i reati previsti dall’art. 25-septies ed il criterio di attribuzione dell’illecito all’ente incardinato sull’interesse e/o sul vantaggio” .
Posto infatti che l’esigenza che l’ente venga chiamato a rispondere per il fatto proprio è stata assolta delineando un triplice collegamento tra reato presupposto ed ente (l’illecito della persona fisica deve essere stato commesso da persone che trattengono rapporti particolari con l’ente; il reato deve essere stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente; deve sussistere una colpa di organizzazione), il criterio di attribuzione dell’illecito sull’interesse e sul vantaggio, nato per evidenziare la proiezione finalistica della condotta nei reati di matrice dolosa , mal si coniuga con il delitto colposo il quale si caratterizza per la mancanza di volontà dell’evento.
Secondo alcuni autori questo “impasse” interpretativo sarebbe superato da una ricostruzione della fattispecie incentrata sulla c.d. colpa cosciente o sull’interesse mediato.
Altri invece pongono l’accento sulla contrarietà a Costituzione delle interpretazioni che legittimano l’associazione tra interesse/vantaggio e condotta, sostenendo invece l’interesse/vantaggio vada sempre ancorato all’evento lesivo, e quindi con sostanziale disapplicazione dell’art. 25-septies.
GLI EFFETTI DELLA VIOLAZIONE DELLA NORMATIVA
L’infortunio e la malattia professionale nel sistema penale
L’analisi dell’infortunio sul lavoro e della malattia professionale comprende, necessariamente, un esame delle diverse discipline, amministrative, civili e penali, coinvolte nella tematica.
L’art. 10 del T.U. 30 giugno 1965, n. 1124 prevede l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, con l’eccezione codicistica di cui all’art. 2049 c.c. nell’ipotesi in cui lo stesso datore di lavoro o le persone di cui egli debba rispondere secondo le leggi civili abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio o la malattia sono derivati. In questo caso, come abbiamo visto, il lavoratore potrà agire nei confronti del datore di lavoro ed ottenere il risarcimento del danno secondo la disciplina dettata dal diritto comune ed anche l’istituto assicuratore avrà azione di rivalsa nei confronti del datore di lavoro relativamente alle indennità da esso erogate al lavoratore (art. 11, T.U. 1124/65).
La definizione di infortunio di cui al testo unico INAIL, quale prodotto di una determinata organizzazione dei fattori produttivi che deve rispettare precise regole di sicurezza e di salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, si deve rapportare alle norme penali che prevedono i reati di omicidio colposo (art. 589 c.p.) e di lesione personale colposa (art. 590 c.p.), in relazione ai quali il fatto di essersi verificati con la violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o per la prevenzione degli infortuni sul lavoro costituisce una aggravante.
Secondo il Testo Unico INAIL (DPR 1124/65), per infortunio si deve intendere .
Secondo l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, la violenza della causa che produce l’infortunio si identifica nell’adeguatezza, qualitativa e quantitativa, dell’agente lesivo esterno a produrre una alterazione psicofisica e nella concentrazione temporale del suo accadimento. In questo senso rientrano nella nozione di infortunio sul lavoro non solo eventi traumatici ma anche malattie infettive.
L’ampia definizione di infortunio di cui al testo unico INAIL, nel caso in cui il fatto lesivo dell’incolumità personale dipenda da colpa del datore di lavoro, dovrà essere correlata alla definizione penale di lesione personale di cui al 1° comma dell’art. 582 c.p. secondo cui la lesione personale consiste nel fatto di colui che , laddove per malattia si intende qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali. In particolare, in linea con la dottrina medico-legale dominante, si ritiene che, in ambito penalistico, la malattia consista in un processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determina una apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo fisico (malattia nel corpo) e psichico (malattia nella mente che determina n turbamento nelle funzioni intellettive o della volontà).
Per il codice penale la modulazione della gravità della lesione personale, ovvero della malattia che essa determina, è la seguente:
q lesione personale lievissima (art. 582): malattia che ha una durata non superiore a 20 giorni per la quale non si verificano le conseguenze indicate nell’art. 583, né concorrono le circostanze aggravanti previste nell’art. 585 (ad eccezione di quelle indicate nel n. 1 e nell’ultima parte dell’art. 577);
q lesione personale comune (art. 582): malattia che ha una durata maggiore dei 20 giorni ma non superiore ai 40;
q lesione personale grave (art. 583): 1) malattia che mette in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o una incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni; 2) fatto che produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo;
q lesione personale gravissima (art. 583): 1) malattia certamente o probabilmente insanabile; 2) perdita di un senso; 3) perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella; 4) deformazione ovvero sfregio permanente del viso.
Per il reato di lesione personale colposa, di cui all’art. 590 c.p., è richiesta la querela della persona offesa ad eccezione delle lesioni gravi o gravissime relative a fatti commessi con la violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, di igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.
Procedura di denuncia di Infortunio
All’interno dell’organizzazione aziendale la verificazione di un infortunio determina l’applicazione della procedura di soccorso che era stata elaborata in adempimento degli obblighi contenuti negli artt.12 e 15 del D.Lgs. 626/94.
La procedura aziendale in questione deve prevedere: l’attivazione del soccorso, il collegamento con i presidi medico-sanitari della zona, l’intervento di ambulanza o, se possibile, il trasporto diretto nei luoghi di assistenza ospedaliera, l’assistenza dell’infortunato in attesa dei mezzi di soccorso esterni.
Successivamente il datore di lavoro dovrà richiedere agli enti ospedalieri (medico del primo soccorso) il rilascio della certificazione che attesta la diagnosi e la prognosi.
Se la prognosi dell’infortunio è superiore a 3 giorni, il datore di lavoro deve denunciare l’evento lesivo occorso al lavoratore, entro 48 ore dalla sua verificazione, all’INAIL di competenza ed all’Autorità di Pubblica Sicurezza competente per territorio rispetto al luogo in cui l’infortunio si è verificato. Nel caso in cui dall’evento violento avvenuto in occasione di lavoro sia intervenuta la morte del lavoratore o sia previsto il pericolo di morte, il termine di denuncia si riduce a 24 ore. Alla denuncia di infortunio deve essere allegato il certificato medico.
I termini di cui sopra, sia per quanto riguarda la denuncia all’INAIL (art. 53 T.U.), sia per quanto riguarda la denuncia all’Autorità di Pubblica Sicurezza (Circolare del Ministero del Lavoro n. 92 del 4 luglio 1996), debbono intendersi decorrere da quando il datore di lavoro ha avuto la notizia qualificata dell’evento, ovvero da quando ha ricevuto il certificato medico.
In caso di ritardata denuncia la sanzione amministrativa prevista va da un minimo di mezzo milione ad un massimo di tre milioni.
In ogni caso di infortunio sul lavoro coperto dall’assicurazione obbligatoria, in base all’art. 56 del D.P.R. 1124/65, l’autorità di pubblica sicurezza, appena ricevuta la denuncia di cui all’art. 54, deve rimettere, per ogni caso denunciato di infortunio, in conseguenza del quale un prestatore d’opera sia deceduto od abbia sofferto lesioni tali da doversene prevedere la morte od un’inabilità superiore ai trenta giorni, un esemplare della denuncia alla Autorità Giudiziaria.
Nel più breve tempo possibile, e in ogni caso entro quattro giorni dal ricevimento della denuncia, il Servizio Ispezione del Lavoro della Direzione provinciale del lavoro, procede ad un’inchiesta amministrativa al fine di accertare: la natura del lavoro al quale era addetto l’infortunato; le circostanze in cui è avvenuto l’infortunio e la causa e la natura di esso, anche in riferimento ad eventuali deficienze di misure di igiene e di prevenzione; l’identità dell’infortunato e il luogo dove esso si trova; la natura e l’entità delle lesioni; lo stato dell’infortunato; la retribuzione; in caso di morte, le condizioni di famiglia dell’infortunato, i superstiti aventi diritto a rendita e la residenza di questi ultimi. L’Istituto assicuratore, l’infortunato o i suoi superstiti hanno facoltà di domandare direttamente che sia eseguita l’inchiesta per gli infortuni. Terminata l’inchiesta, avente natura amministrativa, il verbale, dopo esser stato depositato a disposizione degli interessati, è trasmesso al Procuratore della Repubblica.
L’inchiesta amministrativa per gli infortuni sul lavoro, pur non rientrando nell’attività di polizia giudiziaria e per questa ragione non godendo delle garanzie del processo penale, ha anche la funzione di far pervenire all’autorità giudiziaria qualificate notizie di reato messe in evidenza dal fatto infortunistico. Il verbale di inchiesta, una volta inserito nel procedimento penale potrà essere letto in dibattimento e contribuire alla formazione del convincimento del giudice in ordine alla responsabilità penale.
La denuncia di infortunio, infatti, indipendentemente dal procedimento di cui agli artt.56-62 D.P.R. 1124/65, avvia un iter che, attraverso successivi stadi, porterà o meno all’istruzione di un processo nei confronti del datore di lavoro per il reato di lesione colposa o omicidio colposo.
L’Autorità di Pubblica Sicurezza, infatti, raccoglie i primi elementi informativi ed invia la denuncia di infortunio all’Autorità Giudiziaria che, dopo aver valutato se esistono responsabilità penali, dispone o meno un indagine da parte degli Ufficiali di Polizia Giudiziaria dell’U.S.L..
L’organo di vigilanza e controllo, in qualità di Polizia Giudiziaria, svolge l’indagine ed invia i risultati alla magistratura con l’indicazione delle violazioni di legge, dei responsabili delle stesse e delle prove dei reati.
Durante tali indagini l’Ufficiale di Polizia Giudiziaria potrà disporre, di iniziativa propria ma con convalida dell’Autorità Giudiziaria: sequestri di beni (macchine, sostanze), blocchi temporanei dell’uso di beni (macchine, sostanze), isolamento temporaneo di interi reparti o aree di lavoro. Nei casi di infortunio grave o gravissimo, la legge consente al destinatario delle indagini di essere assistito da un proprio legale di fiducia durante tutte le fasi del procedimento.
Durante il sopralluogo che segue la denuncia di infortunio, l’organo di vigilanza e controllo può adottare nei confronti del datore di lavoro, riscontrando una contravvenzione, una prescrizione. La procedura inerente la prescrizione seguirà il suo corso in modo indipendente dalle vicende relative all’infortunio. Il datore di lavoro, infatti, pur essendo obbligato ad adempiere alla prescrizione, non si può, con tale adempimento, sottrarre alla prosecuzione del processo penale per l’infortunio già verificatosi.
Procedura di denuncia di Malattia professionale
La malattia professionale, o tecnopatia, può essere definita come una sindrome morbosa caratterizzata da un lento e progressivo deterioramento della salute del lavoratore.
Tale deterioramento si verifica in dipendenza di agenti patogeni che si producono nel corso della lavorazione o che dipendono dall’organizzazione del lavoro o che derivano dalla condizione degli ambienti in cui si svolge l’attività lavorativa.
Mentre l’infortunio si sostanzia in un evento violento, rapido e concentrato, diversamente la malattia professionale è conseguenza di cause che operano lentamente durante lo svolgimento dell’attività lavorativa (come nel caso di impiego o produzione di sostanze con specifico grado di nocività). La Cassazione ha, espressamente, stabilito che anche le malattie professionali sono infortuni sul lavoro e come tali determinano responsabilità penale per lesioni colpose.
Rispetto alle malattie professionali l’INAIL può svolgere e svolge, autonomamente, verifiche ed accertamenti che non sono da confondere con le indagini dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria dell’organo di vigilanza e controllo. Infatti, mentre le verifiche INAIL hanno finalità assicurative (assicurazione obbligatoria contro gli infortuni), le indagini dell’organo di vigilanza e controllo hanno finalità di ordine pubblico e rilievo penale.
Quando la malattia professionale sia eziologicamente collegata all’inadempimento da parte del datore di lavoro di obbligazioni di sicurezza e di igiene sul lavoro, si verifica, al pari dell’infortunio, un evento lesivo dell’integrità fisica del lavoratore, che costituisce l’oggetto della tutela penale e, pertanto, si instaura il relativo procedimento amministrativo secondo un preciso schema.
Il medico che accerti o sospetti una malattia professionale deve farne denuncia all’U.S.L. e, nel caso di lesione grave o gravissima la segnalazione (referto) deve essere effettuata all’Autorità Giudiziaria o ad un Ufficiale di Polizia Giudiziaria dell’U.S.L.. L’organo di vigilanza e controllo, in conseguenza della denuncia, svolge l’indagine in merito al nesso eziologico fra malattia, svolgimento dell’attività lavorativa ed inadempimento di norme di sicurezza ed igiene sul lavoro.
Qualora sia confermato il nesso di cui sopra l’Autorità Giudiziaria aprirà un procedimento contro il datore di lavoro per il reato di lesioni colpose o di omicidio.
PALERMO 4 OTTOBRE 2008
Tale deterioramento si verifica in dipendenza di agenti patogeni che si producono nel corso della lavorazione o che dipendono dall’organizzazione del lavoro o che derivano dalla condizione degli ambienti in cui si svolge l’attività lavorativa.
Mentre l’infortunio si sostanzia in un evento violento, rapido e concentrato, diversamente la malattia professionale è conseguenza di cause che operano lentamente durante lo svolgimento dell’attività lavorativa (come nel caso di impiego o produzione di sostanze con specifico grado di nocività). La Cassazione ha, espressamente, stabilito che anche le malattie professionali sono infortuni sul lavoro e come tali determinano responsabilità penale per lesioni colpose.
Rispetto alle malattie professionali l’INAIL può svolgere e svolge, autonomamente, verifiche ed accertamenti che non sono da confondere con le indagini dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria dell’organo di vigilanza e controllo. Infatti, mentre le verifiche INAIL hanno finalità assicurative (assicurazione obbligatoria contro gli infortuni), le indagini dell’organo di vigilanza e controllo hanno finalità di ordine pubblico e rilievo penale.
Quando la malattia professionale sia eziologicamente collegata all’inadempimento da parte del datore di lavoro di obbligazioni di sicurezza e di igiene sul lavoro, si verifica, al pari dell’infortunio, un evento lesivo dell’integrità fisica del lavoratore, che costituisce l’oggetto della tutela penale e, pertanto, si instaura il relativo procedimento amministrativo secondo un preciso schema.
Il medico che accerti o sospetti una malattia professionale deve farne denuncia all’U.S.L. e, nel caso di lesione grave o gravissima la segnalazione (referto) deve essere effettuata all’Autorità Giudiziaria o ad un Ufficiale di Polizia Giudiziaria dell’U.S.L.. L’organo di vigilanza e controllo, in conseguenza della denuncia, svolge l’indagine in merito al nesso eziologico fra malattia, svolgimento dell’attività lavorativa ed inadempimento di norme di sicurezza ed igiene sul lavoro.
Qualora sia confermato il nesso di cui sopra l’Autorità Giudiziaria aprirà un procedimento contro il datore di lavoro per il reato di lesioni colpose o di omicidio.
PALERMO 4 OTTOBRE 2008