Infortunio sul lavoro – Datore di lavoro – Esonero da responsabilità – Concorso di colpa del lavoratore – Limiti.
“…il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l’esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento.…per ritenere la sussistenza del carattere di abnormità del comportamento del lavoratore è necessaria una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza della condotta del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere”. 

(Massima a cura della Redazione di Olympus)


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Stefano CICIRETTI - Presidente
Corrado GUGLIELMUCCI - Consigliere
Guido VIDIRI - Consigliere
Pasquale PICONE - Consigliere
Vincenzo DI CERBO - Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

La. ***. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in *******, presso lo studio dell'avvocato ******., che la difende unitamente agli avvocati ****, ****, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

****, elettivamente domiciliata in ******, presso lo studio dell'avvocato ****, difesa dagli avvocati ****, ****, giusta delega in atti;

- controricorrente –

avverso la sentenza n. 1748/02 della Corte d'Appello di LECCE, depositata il 14/01/03 - R.G.N. 2056/2001;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/11/05 dal Consigliere Dott. Vincenzo DI CERBO;
udito l'Avvocato ****;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Renato FINOCCHI GHERSI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso in data 19 giugno 1997 **** esponeva che lavorava alle dipendenze della s.r.l., **** s.r.l. con qualifica di operaia addetta ad una macchina pressosoffiatrice per la produzione di taniche di plastica e che in data 17 febbraio 1994 aveva subito, nello svolgimento delle sue mansioni, un infortunio in relazione al quale aveva riportato postumi permanenti nella misura del 50%; deduceva che i danni derivanti da tale infortunio ammontavano a complessive lire 560.250.000, di cui lire 337.500.000 per danno biologico, lire 168.750.000 per danno morale, lire 32.400.000 per inabilità temporanea assoluta (un anno e sei mesi), lire 5.400.000 per inabilità temporanea relativa (sei mesi), lire 16.200.000 per danno morale da inabilità temporanea assoluta, oltre gli esborsi medici (lire 145.000) e le spese di trasporto e alloggio (lire 1.098.000) e che l'infortunio era addebitabile alla responsabilità del datore di lavoro che aveva omesso di installare i meccanismi di sicurezza previsti dalla legge. Ciò premesso chiedeva la condanna della s.r.l. **** al pagamento della somma complessiva di lire 561.493.000.

La società convenuta si costituiva in giudizio contestando la domanda.

Con sentenza in data 10 maggio 2001 il Tribunale di Lecce accoglieva la domanda per quanto di ragione e condannava la società convenuta al pagamento, in favore della ricorrente, della somma di lire 293.953.000.

La s.r.l. **** proponeva appello avverso la suddetta sentenza lamentandone l'erroneità sotto vari profili.
Si costituiva nel giudizio di secondo grado **** resistendo al gravame e proponendo appello incidentale al fine di ottenere la condanna della società al risarcimento dei danni morali ritualmente richiesti ma non riconosciuti in primo grado.

Con sentenza depositata il 14 gennaio 2003 la Corte d'Appello di Lecce rigettava l'appello principale, accoglieva l'appello incidentale e per l'effetto condannava la s.r.l. **** al pagamento dell'ulteriore somma di euro 58.078,16 oltre accessori. Premesso che, per la sussistenza di una violazione della norma di cui all'art. 2087 cod. civ., non ha valore esimente per il datore di lavoro l'eventuale concorso di colpa del lavoratore, potendosi configurare un esonero da responsabilità solo nel caso di comportamento abnorme del dipendente, osservava che nel caso di specie l'evento infortunistico si era verificato in quanto la macchina alla quale era addetta la lavoratrice era priva di un sistema di sicurezza completo, atto comunque a impedire all'operatore l'accesso alle zone pericolose ancorché remote. Vi era stata pertanto, da parte del datore di lavoro, una violazione delle disposizioni di cui al D.P.R. n. 547 del 1955 che prevede sistemi di protezione sugli organi ed elementi di trasmissione del moto, sulle presse e su macchine similari. Rilevava inoltre che la lavoratrice era priva di una particolare esperienza nel settore essendo stata assunta solo otto mesi prima ed essendo ancora giovanissima all'epoca dell'infortunio. Il comportamento della lavoratrice, quale ricostruito dal consulente tecnico d'ufficio, per quanto scorretto non poteva comunque ritenersi abnorme e pertanto non era tale da escludere la responsabilità della società. Sotto altro profilo riteneva la spettanza alla ricorrente del risarcimento del danno biologico in quanto non compreso nell'ambito della copertura assicurativa fornita dall'INAIL. Riteneva infine spettante il danno morale avendo acquisito la condotta del datore di lavoro anche un rilievo penale.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la s.r.l. **** affidato a quattro motivi. Resiste con controricorso
****.  Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società ricorrente denuncia motivazione insufficiente e contraddittoria circa un punto decisivo della controversia nonché violazione dell'art. 2087 cod. civ. e degli artt. 420, 434, 436 e 437 cod. proc. civ. Sotto il primo profilo osserva che la Corte di merito, dopo aver premesso che il carattere abnorme del comportamento del lavoratore infortunato esime da responsabilità il datore di lavoro per l'infortunio occorso, e dopo aver accettato la ricostruzione dei fatti di cui alla consulenza tecnica d'ufficio, che non lasciava dubbi circa l'esclusiva responsabilità dell'infortunata nella determinazione dell'infortunio, ha deciso nei termini sopra indicati. Sottolinea che la ricostruzione eseguita dal c.t.u. aveva accertato che la lavoratrice aveva posto in essere una condotta assolutamente abnorme e imprevedibile avendo agito nel più completo dispregio delle elementari regole di prudenza e sicurezza e in palese violazione delle istruzioni impartite dalla casa costruttrice della macchina e dal datore di lavoro. La consulenza tecnica aveva inoltre accertato la sussistenza di misure di sicurezza idonee e conformi alla normativa di legge. La sentenza impugnata pur avendo recepito l'analisi sul funzionamento della macchina e la ricostruzione della dinamica dell'infortunio fornite dal consulente tecnico aveva tuttavia ritenuto la sussistenza della responsabilità a carico del datore di lavoro omettendo peraltro di spiegare le ragioni per cui doveva escludersi il carattere abnorme della condotta della lavoratrice. In tale contesto la ricorrente deduce anche la violazione dell'art. 2087 cod. civ. Sotto altro profilo deduce la violazione delle norme sopra citate per avere la Corte di merito fatto riferimento a circostanze di fatto allegate da controparte solo in secondo grado ed a documenti irritualmente prodotti e mai espressamente autorizzati, rispetto ai quali la società aveva espresso formalmente la propria opposizione e il rifiuto del contraddittorio.

Col secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ. in relazione agli artt. 41,68, 69, 70, 73, 115 e 233 D.P.R. n. 547 del 1955 nonché vizio di motivazione con riferimento alle conclusioni della sentenza impugnata secondo cui, nonostante le affermazioni della consulenza tecnica d'ufficio, la macchina alla quale era addetta la lavoratrice non era protetta a regola d'arte e questo certamente contribuì a determinare l'evento dannoso. Osserva la ricorrente che il principio di cui al citato art. 68 (secondo cui gli organi lavorativi delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire pericolo per i lavoratori, devono, per quanto possibile, essere protetti o segregati oppure provvisti di dispositivo di sicurezza) è stato pienamente rispettato, come si evince dalla conclusione del consulente tecnico. La Corte di merito ha errato nell'attribuire rilevanza alla circostanza che la sera stessa dell'infortunio la società provvide a installare sulla macchina un sistema di fotocellule luminose, atte a bloccarne il meccanismo in caso di pericolo, atteso che, come chiarito dal consulente tecnico, tale ulteriore dispositivo di sicurezza non era necessario. Analogamente non è rilevante il fatto che il datore di lavoro sia stato sottoposto a procedimento penale.

Col terzo motivo la società denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1223 cod. civ. in relazione all'art. 10 del D.P.R. n.1124 del 1965, nonché vizio di motivazione. Deduce in particolare che nella determinazione del risarcimento la Corte, recependo acriticamente le tabelle del Tribunale di Lecce, ha condannato la società a risarcire voci di danno già coperte dalla rendita corrisposta dall'INAIL. In particolare è stata inclusa nel risarcimento del danno biologico anche la lesione della capacità lavorativa generica. Sotto altro profilo contesta l'adozione, da parte della Corte di merito delle tabelle di liquidazione del danno alla persona adottata dal Tribunale di Lecce.

Col quarto motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2059 cod. civ. in relazione all'art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965, degli artt. 112 e 437 cod. proc. civ. e vizio di motivazione. Osserva che nel condannare la società al risarcimento del danno morale asseritamente patito dalla lavoratrice la Corte di merito ha omesso qualsiasi accertamento sulla responsabilità del datore di lavoro alla stregua della legge penale. Sotto altro profilo rileva che nel ricorso originario era stata formulata una generica domanda risarcitoria e non erano state allegate circostanze di fatto e di diritto significative ai fini penali.

I primi due motivi, che devono essere considerati unitariamente in quanto logicamente connessi, sono infondati. Secondo il prevalente orientamento di questa Suprema Corte (cfr., fra le più recenti, Cass. 17 aprile 2004 n. 7328) le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento. E' stato altresì precisato (Cass. 19 agosto 2004 n. 16253) che per ritenere la sussistenza del carattere di abnormità del comportamento del lavoratore è necessaria una rigorosa dimostrazione dell'indipendenza della condotta del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell'estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere.

Con particolare riferimento all'ipotesi in cui, come nel caso in esame, l'infortunio si è verificato in relazione ha riguardato un lavoratore adibito ad una pressa, Cass. 30 gennaio 1985 n. 633 ha precisato che l'art. 115 del D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, il quale prescrive che le presse, le trance e le macchine simili debbono essere munite di ripari e dispositivi atti ad evitare che le mani o altre parti del corpo dei lavoratori siano offese da parti mobili della macchina in funzione, va coordinato con le disposizioni degli artt. 4, 68 e 72 dello stesso D.P.R. la prima delle quali impone al datore di lavoro un dovere di assidua ed effettiva vigilanza sull'attività dei dipendenti, al fine di prevenire che gli stessi subiscano infortuni, nonché con la disposizione dell'art. 2087 cod. civ. concernente l'ulteriore, e più ampio obbligo, di provvedere alla tutela delle condizioni di lavoro.

La decisione della Corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi. Essa ha, infatti, attribuito rilievo al fatto che un lato della macchina, vale a dire quello dove è intervenuta la ricorrente, era privo di adeguata protezione tanto che la lavoratrice ha potuto inserire le mani nella zona nella quale operava il punzone senza particolari difficoltà. E' ben vero che la postazione di lavoro era situata su un lato della macchina adeguatamente protetto e che non era previsto che il lavoratore accedesse al lato non protetto, ma è anche vero che l'art. 68 del D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, richiamata dalla Corte territoriale, dispone che gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono, per quanto è possibile, essere protetti o segregati oppure provvisti di dispositivo di sicurezza. Analogamente l'art. 115, primo comma, dello stesso D.P.R. dispone che le presse devono essere munite di ripari o dispositivi atti ad evitare che le mani o altre parti del corpo dei lavoratori siano offesi dal punzone o da altri organi mobili.

Né, contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, sono rinvenibili vizi logici nella motivazione. La Corte di merito ha infatti dato atto, alla luce delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, che il comportamento della lavoratrice fu caratterizzato da notevole imprudenza ed imperizia, atteso che questa omise di osservare la corretta procedura di estrazione del pezzo rimasto incastrato. Ha peraltro osservato che, come evidenziato dalla stessa consulenza tecnica d'ufficio, l'installazione di una coppia di cellule fotoelettriche a protezione del varco nel quale la lavoratrice si era inserita avrebbe evitato l'infortunio. L'assenza di adeguata protezione di un lato della macchina trova peraltro conferma nel verbale dell'Ispettorato del lavoro di Lecce, la cui produzione in appello è stata correttamente ammessa in quanto prova precostituita (cfr., fra le più recenti, Cass. 28 luglio 2005 n. 15802; Cass. 19 marzo 2003 n. 4048), dal quale si evince che vi era una zona accessibile della macchina che non era protetta o segregata o provvista di dispositivo di sicurezza contro il pericolo di schiacciamento. Coerentemente con le suddette osservazioni la Corte ha ritenuto, nell'ambito delle valutazioni di sua competenza, trattandosi di giudizio di merito insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, l'assenza di un comportamento abnorme da parte della lavoratrice ed ha quindi concluso per la sussistenza della responsabilità a carico del datore di lavoro.

Anche il terzo motivo di ricorso deve essere rigettato.

In linea di principio deve osservarsi che, secondo l'insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., in particolare, Cass. 30 luglio 2003 n. 11704), in base alla disciplina di cui al  D.P.R. n.1124 del 1965 applicabile per il periodo antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. 23 febbraio 2000 n. 38 (che, all'art.13, ha inserito il danno biologico nella copertura assicurativa pubblica), l'indennizzo a carico dell'INAIL previsto in caso di infortunio sul lavoro si riferisce esclusivamente alla riduzione della capacità lavorativa e, anche in base all'interpretazione della Corte costituzionale contenuta nelle sentenze n. 319 del 1989 e 356 e 485 del 1991, non comprende una quota volta a risarcire il danno biologico, atteso che la configurabilità concettuale della duplice conseguenza (patrimoniale e non patrimoniale) del danno alla persona non significa che il diritto positivo prevedesse un "danno biologico previdenziale patrimoniale". Deve pertanto escludersi che parte del danno biologico risulti coperto dalla rendita corrisposta dall'INAIL per la riduzione della capacità di lavoro generica, giacché l'indennità erogata dall'INAIL è collegata e commisurata esclusivamente ai riflessi che la menomazione psico-fisica ha sull'attitudine al lavoro dell'assicurato, mentre nessun rilievo assumono gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la menomazione comporta con riferimento agli ambiti diversi da quelli riconducibili all'attitudine al lavoro, benché in tali ambiti resti compresa la stessa capacità di lavoro, ma in relazione a considerazioni ed effetti assolutamente differenti.

A tali principi ha fatto riferimento la sentenza laddove ha affermato che i danni da riduzione della capacità lavorativa generica compresi nella nozione del danno biologico non attengono in alcun modo al piano della concreta produzione di reddito sostanziandosi in una menomazione della salute in senso lato, risarcibile come tale e non come perdita patrimoniale derivante dalla generica capacità lavorativa di cui ogni soggetto dispone in aggiunta o in sostituzione alla capacità lavorativa specifica.

Per quanto concerne poi la contestazione relativa all'utilizzazione, quale criterio di liquidazione dei danni alla persona, alle tabelle adottate dal Tribunale di Lecce, la Corte ha rilevato che il suddetto criterio non era stato oggetto di specifica contestazione. Nel motivo di ricorso non viene fatto alcun riferimento all'avvenuta contestazione in sede di appello di tali criteri e pertanto sotto questo profilo il ricorso è inammissibile.

Infine anche il quarto ed ultimo motivo di ricorso deve essere rigettato.

Deve premettersi che, come precisato da Cass. 22 marzo 2002 n. 4129 , nel danno sopportato dal lavoratore in conseguenza della mancata osservanza da parte del datore di lavoro degli obblighi di sicurezza imposti dall'art. 2087 cod. civ., rientra anche il danno morale quante volte da quell'inosservanza siano derivate al dipendente lesioni personali o uno stato di malattia, acquisendo in tal caso la condotta del datore anche un rilievo penale che giustifica l'attribuzione del risarcimento ex art. 2059 cod. civ. Sotto altro profilo questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 15 marzo 2001 n. 3747) ha ribadito che, ai fini del risarcimento non patrimoniale, l'inesistenza di una pronunzia del giudice penale non costituisce impedimento all'accertamento da parte del giudice civile della sussistenza degli elementi costitutivi del reato in tutti i suoi elementi soggettivi e oggettivi, secondo la legge penale. E' stato infine precisato (Cass. 20 luglio 2002 n. 10641) che la risarcibilità del danno non patrimoniale, a norma dell'art. 2059 cod. civ., in relazione all'art. 185 cod. pen., non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, essendo sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente preveduto come tale.

Ciò premesso deve osservarsi che la Corte di merito ha autonomamente valutato la rilevanza penale del comportamento datoriale (per il quale peraltro era stato iniziato un procedimento penale) sotto il profilo sia dell'elemento soggettivo che di quello oggettivo. E tale valutazione il cui fondamento si evince dal complesso della motivazione, ed in particolare dal riferimento al mancato rispetto dell'art. 68 del D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547 prima citato, resiste alla censura di vizio di motivazione, formulata peraltro in termini affatto generici in violazione del principio secondo cui il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione del provvedimento, impugnato a norma dell'art. 360, numero 5, cod. proc. civ., deve contenere, a pena di inammissibilità, la specificazione dei vizi logici o, più in generale, la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni poste a fondamento della decisione censurata (Cass. 23 gennaio 2003 n. 996).

Né sussiste l'allegata violazione degli artt. 112 e 437 cod. proc. civ., atteso che la Corte di merito ha specificamente motivato sulle ragioni per cui ha ritenuto che il ricorso in primo grado contenesse la domanda di risarcimento del danno morale. Le contrarie allegazioni contenute nel ricorso, peraltro del tutto generiche, non sono idonee a porre in discussione la validità delle suddette conclusioni.

Il ricorso deve essere in definitiva rigettato.

In applicazione del criterio della soccombenza la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 4.524,00 di cui Euro 4.500 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.