Cassazione Penale, Sez. 4, 21 agosto 2013, n. 35309 - Amianto e tumori: nesso causale e colpa


 

 

 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo G. - Presidente
Dott. IZZO Fausto - Consigliere
Dott. MARINELLI Felicetta - Consigliere
Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere
Dott. DELL'UTRI Marco - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA




sul ricorso proposto da:
1. (Omissis), nato a (Omissis);
avverso la sentenza n. 4531/2011 emessa dalla Corte d'appello di Firenze il 19/10/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita nella pubblica udienza del 25/6/2013 la relazione svolta dal consigliere dott. Giuseppe Grasso;
udito il Procuratore Generale in persona del dott. Francesco Iacoviello, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. (Omissis) del Foro di Arezzo, il quale ha chiesto accogliersi il ricorso.

Fatto


1. L'imputato veniva tratto a giudizio innanzi al Tribunale di Arezzo per rispondere, in ragione della posizione di garanzia ricoperta all'interno dapprima della (Omissis) s.n.c. e successivamente, della (Omissis) s.p.a., essendo stato di entrambe rappresentante legale, della violazione dell'articolo 589 c.p., commi 2 e 4, e collegate plurime norme antinfortunistiche. In particolare si contestava al prevenuto di aver posto a contatto con le tossiche polveri di amianto gli operai addetti alla produzione di prefabbricati industriali in cemento-amianto, cagionando, per colpa generica e specifica, il decesso di (Omissis) (tenuto alle dipendenze dal giugno del 1962 all'ottobre del 1988) a causa di mesotelioma pleurico con asbestosi polmonare (fatto accaduto il (Omissis)); di (Omissis) (tenuto alle dipendenze dal (Omissis)), a causa di carcinoma polmonare, con asbestosi (fatto accaduto il (Omissis)); di (Omissis) (tenuto alle dipendenze dal (Omissis)), a causa di insufficienza cardio-respiratoria causata da mesotelioma pleurico (fatto accaduto il (Omissis)), senza predisporre accorgimenti di sorta atti ad evitare la dispersione delle polveri, omettendo di dotare i lavoratori dei necessari mezzi personali di protezione delle vie respiratorie e di quelli diretti ad impedire l'involontaria respirazione della polvere d'amianto (isolamento dal contatto: guanti, stivali, tute, spogliatoi e lavaggi appositi), omettendo, infine, d'informare i lavoratori poi deceduti degli specifici rischi connessi all'attività lavorativa.
All'epilogo della laboriosa istruttoria dibattimentale quel giudice di primo grado, con sentenza del 18/11/2009, dichiarato il (Omissis) colpevole dei reati allo stesso ascritti, unificati quanto alla pena ai sensi dell'articolo 589 cod. pen., comma 4 (previgente articolo 589, comma 3) e concessegli l'attenuante di cui all'articolo 62 c.p., n. 6), giudicata equivalente all'aggravante contestata, condannò il medesimo alla pena di anni tre di reclusione, interamente condonata Legge n. 241 del 2006, ex articolo 1.
2. La Corte d'appello di Firenze, investita dell'impugnazione proposta dall'imputato, confermò la sentenza di primo grado. Avverso quest'ultima statuizione l'imputato avanza ricorso per cassazione, prospettando due articolati motivi di censura.
3. Appare opportuno, prima di passare all'esame del ricorso con il quale è stata investita questa Corte, seppure in sintesi e avuto riguardo esclusivo alle questioni che conservano ancora rilievo in questa sede, passare in rassegna i punti salienti della ricostruzione della vicenda e delle valutazioni in diritto della Corte territoriale.
Riprendendo la sentenza di primo grado, la Corte fiorentina riepiloga i periodi e le mansioni lavorative delle vittime. Il (Omissis), deceduto a causa di un carcinoma, la cui genesi viene collocata tra il (Omissis), ed al quale era stata diagnosticata l'asbestosi il (Omissis), prestò attività lavorativa dal (Omissis) (adibito allo scarico dei sacchi in juta contenenti polveri d'amianto - i detti sacchi successivamente verranno sostituiti da altri in carta e poi in plastica -), indi allo scarico degli autocarri che trasportavano il materiale e al taglio dello stesso mediante sega. (Omissis), deceduto a causa del funesto combinarsi di asbestosi e mesotelioma, prestò attività lavorativa dal (Omissis), occupandosi dello scarico delle balle di amianto, azionando l'impastatrice, ripulendo i locali dagli scarti della produzione, stendendo le fibre di amianto e poi, trasportando, alla guida di autotreni, i sacchi contenenti l'amianto, ritirando e consegnando materiali con un camioncino e, infine, occupandosi con un muletto di recuperare i residui lavorativi da reimpiegare. Il (Omissis), morto di mesotelioma diagnosticato il (Omissis), venne impiegato dal (Omissis) al trattamento dei materiali, incluso il taglio, in locali limitrofi e completamente comunicanti con le aree di scarico ad altissima densità di polveri.
L'istruttoria aveva consentito di appurare che fino al (Omissis) non risultava essere stato approntato alcun presidio protettivo individuale, nè installati nastri trasportatori dei materiali; non risultava essere stato predisposto alcun trattamento delle polveri, che si infiltravano negli indumenti e si depositavano sul corpo assai cospicue, in un contesto aziendale che trattava annualmente 1.600/2.000 quintali di amianto. L'aria era satura di polveri d'amianto, tanto da stimolare il naso, procurando frequenti starnuti. Fino alla detta data, in definitiva, tutte le prescrizioni normative cautelari erano state disattese. Solo nel (Omissis) furono messe a disposizione delle mascherine, rese obbligatorie, tuttavia, solo nel (Omissis). I locali, ove si svolgevano le lavorazioni fonte del maggior quantitativo di polveri erano poste in comunicazione diretta con gli altri ambienti. L'istruttoria aveva consentito di accertare che fino al 1981 circolavano quantitativi di polveri ben superiori al limite introdotto dal legislatore nel (Omissis); le docce erano state messe a disposizione, ma non rese obbligatorie, solo dal (Omissis).
Il Giudice d'appello condivisa la valutazione, acquisita attraverso l'apporto dei tecnici, che la conoscenza circa la pericolosità dell'amianto risaliva agli anni Trenta del 1900, senza che risultasse rilevante, ai fini della concretizzazione del rischio, che il garante avesse esatta consapevolezza dei processi patologici dipendenti dall'inalazione delle dette polveri; restando, peraltro, indubbia la correlazione tra malattia letale ed amianto, reputa sussistere il nesso di causalità, applicando il criterio di credibilità razionale elaborato in giurisprudenza, con special
riguardo alle morti da amianto, dovendosi esprimere un giudizio di elevata probabilità logica, fondato sopra legge scientifica di probabilità, ponderata dall'evidenza processuale disponibile, alla quale la Difesa aveva opposto, con eccezione meramente teorica, deduzioni di astratta possibilità, smentite, appunto, dall'evidenza processuale. La Legge n. 277 del 1991, di poi, non poteva interpretarsi come autorizzante la dispersione aerea di sostanze altamente tossiche, nel mentre già il Decreto del Presidente della Repubblica n. 303 del 1956, articolo 21 (che l'imputato aveva del tutto disatteso) imponeva la massima tutela contro le ingestioni di polveri. La norma in parola verrà abrogata espressamente solo con la Legge n. 277 cit., il che confermava che in precedenza costituiva precetto vigente in materia di produzioni polverose. Infine, la Corte territoriale non nutre dubbi sulla sussistenza della colpa: la nocività dell'introduzione nell'organismo di polveri costituiva consapevolezza assai antica e pacifica e l'asbestosi era notoriamente dipendente dalla massiccia esposizione alle polveri d'amianto. Senza che fosse necessario, quindi, che l'imputato avesse consapevolezza della correlazione neoplastica, egli colpevolmente pose i lavoratori in contatto rilevante e persistente con le assai nocive polveri d'amianto.
4. Con il primo motivo il ricorrente, denunziando violazione di legge e vizio motivazionale in questa sede accertabile contesta la provata sussistenza del nesso di causalità.
Questo, in sintesi, il ragionamento difensivo: a) l'evento morte conseguì a cancro polmonare (per il (Omissis)) e per gli altri due operai a mesotelioma pleurico; b) non risulta contestata l'asbestosi, che, tuttavia, nei tre casi viene data per accertata; c) il mesotelioma non è dose-correlato, nel senso che anche l'ingestione di una sola fibra può innestare la malattia, restando ininfluenti le esposizioni successive; d) il carcinoma polmonare ha patogenesi plurima; e) pur essendo indubbio che tutte le vittime vennero a contatto, lavorando presso le aziende (Omissis), con fibre di asbesto, sarebbe stato necessario risalire ad un antecedente certo, tale da poter condurre a conclusioni aventi un elevato grado di probabilità e credibilità razionale, assimilabile alla certezza.
Ciò avrebbe imposto di esaminare la questione della cd. "causalità lecita", che, invece, la Corte territoriale aveva sbrigativamente liquidato avuto riguardo al Decreto Legislativo n. 277 del 1991. In particolare, l'impugnante non condivide l'opinione secondo la quale il Decreto del Presidente della Repubblica n. 303 del 1956 imponesse dovere precauzionale in materia. L'articolo 21 del Decreto del Presidente della Repubblica cit., al contrario, aveva natura generale e carattere quasi di mera raccomandazione; connotazione flessibile e priva di contenuti precettivi specifici, volti semplicemente a "ridurre per quanto possibile;" lo sviluppo e la diffusione di polveri. Il Decreto Legislativo n. 277 del 1991, articolo 59, abrogata la disposizione in discorso, la sostituì ponendo un limite quantitativo alla dispersione di polveri nell'ambiente di lavoro. In definitiva, deve reputarsi, secondo l'assunto impugnatorio, che la seconda disposizione abbia reso concreta la prima.
Infine, la sentenza gravata aveva eluso o affrontato malamente il posto problema della "causalità lecita". Non si era voluto sostenere con l'appello che prima del 1991 fosse lecito disperdere a dismisura polveri nell'aria, ma, ben diversamente che "vi era una quantità-limite di polvere di amianto lecitamente disperdibile nel posto di lavoro, e che in relazione alla genesi non dose correlata del mesotelioma o del carcinoma polmonare, essa può essere considerata "causa lecita dell'evento"". La mancanza di correlazione tra la quantità di polveri ingerite e l'insorgere della patologia, in presenza di una soglia di assorbimento consentita, non permette di "collegare causalmente la insorgenza della malattia quella parte di esposizione che si ritiene illegale, più di quanto non possa essere causalmente riferita a quella parte di essa che invece rientra nell'ambito della legalità".
4.1. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione di legge e vizio motivazionale accettabile in questa sede avuto riguardo all'individuazione della colpa, alla sua graduazione e alla mancata concessione delle attenuanti generiche prevalenti.
4.1.1. In primo luogo il (Omissis) prospetta che la Corte territoriale aveva superficialmente e, in parte travisandone il senso, disatteso la ricostruzione difensiva volta ad escludere consapevolezza colpevole in ordine alla specifica pericolosità delle polveri d'amianto. Assumere che costituisce dovere del garante assicurare un ambiente lavorativo privo di polveri disperse non vai quanto dire che, avute presenti le conoscenze del tempo, potesse attendersi consapevolezza dello specifico e grave rischio. Dalle varie consulenze, a dire del ricorrente, era emerso che se la conoscenza dell'asbestosi risaliva agli anni Trenta/Quaranta del 20 secolo, la consapevolezza di un collegamento con le degenerazioni neoplastiche è ben successiva e, soprattutto, matura all'estero. In Italia la piena presa di coscienza va di pari passo con la tardiva legislazione, tanto che il primo valore limite venne introdotto con il citato Decreto Legislativo n. 277 e il divieto d'impiego verrà imposto solo l'anno successivo.
4.1.2. In secondo luogo, aveva errato la Corte territoriale sostenendo che l'imputato avesse inteso discolparsi per il fatto che la P.A. fosse rimasta inerte. I termini della questione erano altri: il grado della colpa del (Omissis) non poteva prescindere dal fatto che il predetto non era stato messo in allarme da alcuno degli organi competenti per i controlli (INAIL, ENPI, Ispettorato del Lavoro), così avendosi per conclamato che, all'epoca non vi fosse consapevolezza di una così elevata tossicità delle fibre d'amianto. Ciò, in via gradata, avrebbe dovuto consigliare di far prevalere le concesse attenuanti generiche.

Diritto

5. L'impugnazione, la quale principalmente investe i decisivi territori del nesso di causalità e della colpa, non è fondata.
6. Quanto al nesso di causalità la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi elaborati in materia da questa Corte.
6.1. Non è controverso che le vittime per lungo tempo furono poste ad indiscriminato contatto con le polveri di amianto. Nè l'eventuale rispetto delle previsioni antinfortunistiche (comunque non riscontrato) avrebbe potuto esonerare l'imputato dal mettere in atto tutte le cautele del caso che la pericolosità del materiale trattato imponeva (sul punto possono richiamarsi le sentenze n. 5117/2008 e n. 33311/2012 questa Sezione).
Nè assume rilievo insistere sui profili quantitativi delle polveri disperse nell'aria, stante che le affezioni neoplastiche che portarono a morte le vittime debbono reputarsi dipendenti dall'inalazione di fibre d'amianto, non potendosi affermare l'esistenza di una soglia quantitativa al di sotto della quale il rischio venga escluso.
Al contrario di quel che pare ritenere il ricorrente non assume rilievo decisivo l'individuazione dell'esatto momento d'insorgenza della patologia (Sez. 4, 11/4/2008, n. 22165; Sez. 4, 24/5/2012, n. 33311), dovendosi reputare prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo assai lungo tempo di latenza.
Attingendo opportunamente alla scienza di settore (dalla quale è da attendere approfondimento conoscitivo, che tenga conto delle migliori conoscenze scientifiche del momento - Sez. 4, 1779/2010, n. 43786 -) è stata sconfessata, come, peraltro, in casi similari già giudicati da questa Corte (la già citata sent. n. 33311/2012), l'attendibilità della teoria della cd. "trigger dose", assumendosi, invece, che il mesotelioma è patologia dose-dipendente (al (Omissis), non fumatore, e al (Omissis) era stata in precedenza diagnosticata l'asbestosi, che, come noto, presuppone l'inalazione continuata di massicci quantitativi di fibre d'amianto).
Così come chiarito nella sentenza n. 33311/012, costituisce bagaglio di conoscenza oramai comune del giudice, l'opinione, largamente divulgata anche nella letteratura giuridica, che da una conclusione scientificamente non contestabile dello studioso (Omissis), che aveva solo voluto mettere in guardia sulla pericolosità dell'inalazione, anche modesta, delle fibre d'amianto, si volle giungere ad elaborare la tesi secondo la quale poichè l'insorgenza della patologia oncologica era causata anche dalla sola iniziale esposizione (cd. "trigger dose" o "dose killer"), tutte le esposizioni successive, pur in presenza di concentrazioni anche elevatissima di fibre cancerogene, dovevano reputarsi ininfluenti, così contravvenendo alle valutazioni epidemiologiche dell'evoluzione delle patologie tumorali, le quali non confortano l'assunto che possa giammai restare indifferente al periodo di latenza la durata e l'intensità dell'esposizione.
"Infatti, la molteplicità di alterazioni innestate dall'inalazione delle fibre tossiche necessita del prolungarsi dell'esposizione e dal detto prolungamento dipende la durata della latenza e, in definitiva della vita, essendo ovvio che a configurare il delitto di omicidio è bastevole l'accelerazione della fine della vita. Pertanto, di nessun significato risulta l'affermazione che talune delle vittime venne a decedere in età avanzata. La morte, infatti, costituisce limite certo della vita e a venir punita è la sua ingiusta anticipazione per opera di terzi, sia essa dolosa, che colposa.
L'autonomia dei segnali preposti alla moltiplicazione cellulare, l'insensibilità, viceversa, ai segnali antiproliferativi, l'evasione dei processi di logoramento della crescita cellulare, l'acquisizione di potenziale duplicativo illimitato, lo sviluppo di capacità angiogenica che assicuri l'arrivo di ossigeno e dei nutrienti e, infine, la perdita delle coesioni cellulari, necessarie per i comportamenti invasivi e metastatici, sono tutti processi che per svilupparsi e, comunque, rafforzarsi e accelerare il loro corso giammai possono essere indipendenti dalla quantità della dose.
Ciò ancor più a tener conto che l'accumulo delle fibre all'interno dei polmoni, continuando l'esposizione, non può che crescere, nel mentre solo col concorso, in assenza d'ulteriore esposizione, di molti anni, lentamente il detto organo tende a liberarsi delle sostanze tossiche, essendo stato accertato, dagli studi di (Omissis), dei quali appresso si dirà, che l'accumulo tende a dimezzarsi solo dopo 10/12 anni dall'ultima esposizione.
Dallo studio in parola (...) ben noto anche ai non addetti alla scienza di settore, il primo intervenuto in Italia, avendo operato su una vasta platea di persone, osservate per un lungo periodo (3434 lavoratori presi in considerazione per oltre cinquanta anni; seguiti dal 1950 al 1986 e poi fino al 2003), si è potuto ricavare che tutte le esposizioni alle quali il soggetto è stato sottoposto almeno negli ultimi dieci anni che precedono la diagnosi della malattia hanno avuto influenza, aumentando il rischio ed accelerando il processo maligno; che, allo stesso tempo, non è possibile determinare una soglia quantitativa e temporale di sicurezza, nè il tempo massimo d'induzione; che sul soggetto fumatore si verifica un effetto moltiplicativo esponenziale del rischio, ben maggiore della singola somma dei due rischi, quanto al carcinoma polmonare".
Resta solo da avvertire che le conclusioni di cui sopra trovano conferma attraverso la valutazione del vaglio probatorio in concreto operato dai giudici di merito, anche mediante l'ampliamento dell'area di conoscenza tecnica, tramite apporto della scienza di settore, attraverso lo strumento della perizia o la rinnovazione della stessa. Conferma, che come si trae anche solo da quanto qui ripreso della vicenda giudiziaria, risulta solidissima, non trovando smentita plausibile le condizioni d'assoluta insalubrità nelle quali i lavoratori erano costretti ad operare, nè lo sviluppo delle patologie che li portarono a morte e la loro eziologia.
Di conseguenza, sussiste il nesso di causalità tra l'omessa adozione da parte del datore di lavoro di idonee misure di protezione e il decesso dei lavoratori, in conseguenza della protratta esposizione alle microfibre di amianto, stante che, "pur non essendo possibile determinare l'esatto momento di insorgenza della malattia, deve ritenersi prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul tempo di latenza (Sez. 4, 11/4/2008, n. 22165)".
"In altri termini, se il garante avesse tenuto la condotta lecita prevista dalla legge, operando secondo il noto principio di controfattualità, guidato sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica -universale o statistica (S.U., 10/7/2002, n. 30328), l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. In questo senso l'evento doveva ritenersi evitabile.
Quanto alla cd. legge statistica, come noto, la conferma dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale non può essere dedotta automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionalo o "probabilità logica" (S.U. n. 30328 cit.)" (sent. n. 33311/012). Conclusione per raggiungere la quale il giudice del merito ha introdotto ritualmente nell'area di conoscenza rilevante di settore (sent. n. 43786/2010).
Suggestiva, ma non persuasiva, appare la prospettazione della cd. "causalità lecita".
La tesi, invero, non sfugge a due obiezioni, ognuna delle quali capace di smentire l'assunto. In primo luogo essa presuppone come fondata l'opinione scientifica, ampiamente smentita (come si è visto) circa la genesi non dose-correlata del mesotelioma o del carcinoma polmonare, che presuppone la condivisione della teoria della cd. "dose killer". Infatti, solo così potrebbe ipotizzarsi che anche respirando la dose di amianto "consentita" la malattia sarebbe comunque sopravvenuta. In secondo luogo deve sconfessarsi che la legislazione abbia mai autorizzato l'inalazione di un certo quantitativo di fibre d'amianto, siccome vorrebbe il ricorrente. Esattamente al contrario, sin dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 303 del 1956, articolo 21, passando, poi, per il Decreto Legislativo n. 277 del 1991, il legislatore non ha inteso affatto autorizzare inalazione di tal genere, essendo vigente il precetto che imponeva al datore di lavoro di approntare quanto di necessario (sia con protezioni individuali, che con accorgimenti riguardanti i luoghi di lavoro) perchè le polveri nocive venissero abbattute al massimo.
Come dettagliatamente chiarito da questa Corte (Sez. 4, n. 20047/2010), il Decreto Legislativo 15 agosto 1991, n. 277, stabilendo che, fermo restando il rispetto di tutte le forme di protezione individuale, fossero, comunque, vietate le lavorazioni, ove il livello di dispersione di microfibre di amianto fosse superiore a determinati parametri, non rese affatto lecito, al di sotto dei detti limiti, l'inalazione delle predette microfibre.
L'entrata in vigore della Legge 27 marzo 1992, n. 257, con la quale si vietò definitivamente la lavorazione dell'amianto, poi, non individua affatto il momento iniziale nel quale si ebbe consapevolezza della pericolosità dell'amianto. La normativa, all'opposto, segna l'epilogo di un lungo cammino di conoscenza che da decenni, aveva denunziato la specifica, elettiva pericolosità dell'amianto.
Senza contare che, pur ove si dovesse giungere alla conclusione che, nel corso dei tanti anni di esposizione alla sostanza tossica la tecnica non fosse stata in grado di mettere a disposizioni strumenti di protezione collettiva ed individuale idonei ad abbattere l'assunzione delle microfibre cancerogene, ciò, concorrendo l'elemento della colpa (conoscibilità), non avrebbe esonerato il garante, dal rimettere il mandato, non potendo assicurare il mantenimento in salute dei lavoratori alla cui garanzia era preposto, ove non fosse stato possibile mutare i procedimenti lavorativi, giungendo fino a sostituire l'amianto con altro, pur più costoso, materiale.
In definitiva, sulla base delle risultanze di causa, delle quali fanno cospicua parte gli accertamenti e le valutazioni tecniche, la Corte territoriale ha correttamente ricollegato causalmente le malattie che portarono a morte i tre operai all'esposizione indiscriminata e priva di protezione alle polveri di amianto, protratta nel corso del tempo: il (Omissis) e il (Omissis) a causa di mesotelioma (per il primo significativamente associato ad asbestosi) e il (Omissis) a causa di carcinoma polmonare (anche in questo caso associato ad asbestosi), in soggetto non fumatore (pag. 12 della sentenza gravata).
7. Parimenti infondato è il secondo motivo con il quale viene contestata la sussistenza dell'elemento soggettivo.
Trattandosi di valutazioni che ben si attagliano al caso in esame sul punto possono riportarsi, anche in questo caso, le considerazioni espresse in seno alla citata sentenza n. 33311: "Risponde a conoscenze comuni maturate in epoche anche assai lontane nel tempo che l'ingestione per via aerea di fibre, particelle e polveri costituisce pericolo per la salute.
Da oltre un secolo si ha la diffusa, piena consapevolezza della specifica pericolosità dell'assunzione attraverso le vie aeree delle microfibre di amianto (Regio Decreto 14 giugno 1909, n. 442, nell'ambito di norme a tutela dei fanciulli; Legge 12 aprile 1943, n. 455, la quale introdusse l'asbestosi fra le malattie professionali). Pur vero ai quei tempi era nota solo l'insorgenza dell'asbestosi, ma, di sicuro, la pericolosità della lavorazione del materiale in parola era ben nota.
L'evidenziazione su basi divulgative affidabili della correlazione tra assunzione di polveri d'amianto e processi cancerogeni risale al 1964 (conferenza sugli "Effetti biologici dell'amianto" dell'Accademia delle Scienze, tenutasi a New York). Peraltro, nella detta occasione venne presentata da (Omissis) l'esperienza italiana. Lo stesso studioso nel 1966 e nel 1968, pubblicò in Italia su riviste scientifiche il proprio pensiero. La questione venne ripresa, con ampio approfondimento, in occasione del 34 congresso della Società Italiana di Medicina del Lavoro, tenutosi a Saint Vincent.
V'è, peraltro, da soggiungere che i primi studi dai quali emergeva la detta correlazione risalgono agli anni 30/40 e poi 50 del secolo scorso (in Germania). In Italia risalgono ai lontani anni 1955/1956 i primi approfondimenti resi pubblici da (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis) e (Omissis).
Le conclusioni erano del tutto concordanti: la sopravvivenza dopo la diagnosi era solitamente assai breve; l'intervallo tra l'inizio dell'esposizione e la comparsa della malattia era assai lungo; anche basse dosi erano sufficienti ad innestare il processo patologico; degli esposti solo taluni subivano la degenerazione cellulare; pur essendo vari i tipi di amianto, quasi sempre erano presenti fibre di anfibiolo e crisotilo; non si riscontrava alcuna apprezzabile causa alternativa.
Ciò posto, non può assumersi che le conseguenze nefaste sulla salute derivanti dal contatto con le polveri d'amianto non fossero circostanza prevedibile.
L'esercizio di attività pericolosa avrebbe imposto all'imprenditore l'approntamento di ogni possibile cautela, dalla più semplice ed intuitiva (proteggere le vie respiratorie con maschere altamente filtranti, imporre accurati lavaggi alla cessazione dell'orario di lavoro con cambio degli indumenti da lavoro da sottoporsi, anch'essi, a lavaggio, alla riduzione al minimo delle polveri, al loro appesantimento mediante acqua, alla loro aspirazione, ecc.), alle più complesse e sofisticate, secondo quel che la scienza e la tecnica consigliavano. (...).
Reputa il Collegio che, anche a voler considerare che fosse nota solo la generica tossicità delle polveri d'amianto, causa di asbestosi, avrebbe risposto al principio di precauzione trattare con ogni cautela le polveri, che si sapevano assai sottili (e, quindi, di agevole infiltrazione e fissazione polmonare) di sostanza comunque tossica.
Questa Corte ha avuto modo di affermare che in tema di delitti colposi, nel giudizio di "prevedibilità", richiesto per la configurazione della colpa, va considerata anche la sola possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni sia pure indistinta potenzialmente derivante dal suo agire, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad astenersi o ad adottare più sicure regole di prevenzione: in altri termini, ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione "ex ante" dell'evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione (Sez. 4, sentenza n. 4675 17/05/2006, massima).
Le norme antinfortunistiche che fanno obbligo al datore di lavoro d'approntare ogni misura utile ad impedire o ridurre al minimo l'inalazione di polveri non è diretta, come vorrebbero i ricorrenti, ad evitare che i lavoratori subiscano il fastidio d'un ambiente di lavoro polveroso, bensì, come appare evidente, che l'organismo dei predetti sia costretto ad inalare corpuscoli frammisti all'aria respirata del tutto estranei ad essa e certamente forieri di danno fisico.
In ogni caso, non par dubbio che la prevedibilità altro non significa che porsi il problema delle conseguenze di una condotta commissiva od omissiva avendo presente il cosiddetto "modello d'agente", il modello dell' "homo eiusdem condicionis et professionis", ossia il modello dell'uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività, che importa l'assunzione di certe responsabilità, nella comunità, la quale esige che l'operatore si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da questo ci si aspetta (Sez. 4, 1/71992, n. 1345, massima; più di recente e sullo specifico argomento qui in esame, sempre Sez. 4, 1/4/2010, n. 20047). Un tale modello impone, nel caso estremo in cui il garante si renda conto di non essere in grado d'incidere sul rischio, l'abbandono della funzione, previa adeguata segnalazione al datore di lavoro (sul punto, Sez. 4 n. 20047 cit.).
Richiamando quanto poco sopra esplicitato, deve conclusivamente ribadirsi che ai fini del giudizio di prevedibilità deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione (Sez. 4, 31/10/1991, Rezza, massima)".
A questi principi si è attenuta la Corte territoriale (pagg. 14-17).
Nè, per vero, le asserite (e, peraltro, non provate, come affermato, senza trovare plausibile smentita, dalla sentenza di secondo grado) inerzie degli organi di controllo, alla luce di quanto esposto, possono assumere rilievo: costituisce dovere primario ed autonomo del garante della salute dei lavoratori e dei terzi verificare assiduamente, secondo la miglior scienza ed esperienza del momento, che le immissioni ambientali derivanti dalla produzione imprenditoriale non costituiscano pericolo per la salute. Se l'imputato si fosse attenuto coscienziosamente a questa regola, come si è visto, avrebbe dovuto avere, per lo meno, la generica consapevolezza della grave pericolosità derivante dall'inalazione delle fibre d'amianto.
Il possesso di elevata competenza di settore, di approfondita conoscenza del concreto contesto lavorativo e del materiale trattato, la funzione apicale, le dimensioni aziendali, la possibilità di valersi di specifiche competenze, tali da far presupporre la sussistenza di condizioni sufficienti per cogliere la specifica, elevata rischiosità delle lavorazioni svolte, erano tali da non poter ingenerare dubbi di sorta sulla circostanza che le microfibre, di cui si impregnava radicalmente l'aria, fossero sicuramente nocive, ben oltre il rischio dell'asbestosi.
8. La pretesa, infine, di ottenere nuova e migliore comparazione delle concesse attenuanti generiche è
inammissibile, in quanto implicante diverso vaglio di merito escluso in questa sede, rispetto a quello motivatamente effettuato dalla Corte fiorentina (pag. 17).
9. Il rigetto del ricorso impone la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.