Cassazione Penale, Sez. 3, 24 marzo 2015, n. 12228 - Infortunio mortale durante i lavori di rimozione di lastre di eternit


 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIALE Aldo - Presidente -
Dott. GRAZIOSI Chiara - Consigliere -
Dott. PEZZELLA Vincenzo - rel. Consigliere -
Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere -
Dott. MENGONI Enrico - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
C.A. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 1165/2013 CORTE APPELLO di TORINO, del 12/06/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/02/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. POLICASTRO Aldo che ha concluso per il rigetto del proposto ricorso;
Udito il difensore Avv. Agroldi Cristina, in sostituzione dell'Avv. Lageard Giovanni, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.


Fatto

1. Il (OMISSIS) S.T., ventunenne dipendente della ditta individuale P.L., impegnata nei lavori di rimozione di lastre di eternit dal tetto del capannone di proprietà della ditta O. srl, precipitava al suolo mentre transitava sul menzionato tetto, riportando lesioni che ne cagionavano la morte.

Nel primo pomeriggio il giovane, operaio generico, era salito insieme ad alcuni colleghi sul tetto del fabbricato, pedonabile tranne che in corrispondenza dei lucernai, per compiere attività connesse allo smantellamento del manto di copertura e procedere alla successiva ricopertura con lastre d'alluminio; sul tetto in questione non erano state approntate misure di protezione e in particolare non era stata approntata la tesata in acciaio alla quale il lavoratore avrebbe potuto assicurarsi tramite cinture di sicurezza. Mentre percorreva il tetto in corrispondenza di un lucernaio, dal quale era stata rimossa la rete metallica di protezione, lo S. precipitava al suolo.

Si accertava che la O. srl aveva appaltato alla A. sas i lavori di copertura del fabbricato aziendale, lavori che la A. sas aveva a sua volta subappaltato alla ditta individuale P. L..

2. P.L., datore di lavoro dello S., veniva giudicato separatamente con rito abbreviato.

Ca.Se. e Ca.Ma., rispettivamente presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato della O. srl, nonchè C.A. e G.M.G. R., rispettivamente socia accomandataria e responsabile di cantiere della A. sas, in primo grado, con sentenza del Tribunale di Torino sezione distaccata di Moncalieri del 20.5.2010 venivano tutti ritenuti responsabili della morte del lavoratore.

In particolare l'odierna ricorrente C.A. veniva condannata alla pena di anni tre di reclusione in quanto giudicata responsabile: del reato di cui all'art. 589 c.p., commi 1 e 2 perchè, quale socia accomandataria della ditta A. sas esercente attività di smantellamento e realizzazione di coperture industriali, ditta alla quale O. srl affidò i lavori di copertura del fabbricato sito in (OMISSIS) con contratto di appalto del 15/9/2005 e come tale responsabile della sicurezza sul lavoro, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e violazione delle norme per la prevenzione infortuni sul lavoro, in particolare perchè (in concorso con P.L.) una volta ricevuto in appalto l'esecuzione dei lavori omettevano di cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto ed omettevano altresì di coordinare gli interventi di prevenzione e protezione dai rischi cui erano esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare i rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 2), cagionavano la morte del giovane S.T. di anni 21 che, in qualità di operaio comune di 1^ livello della ditta individuale P.L., durante l'esecuzione delle operazioni di smantellamento e di posa della copertura del fabbricato (OMISSIS), ad un'altezza di oltre 8 metri dal suolo, operando sul tetto di cui non era nota la pedonabilità e totalmente privo di qualsiasi protezione - per come dianzi descritto - precipitava sul terreno sottostante il capannone, dopo che una lastra di eternit cedeva sotto il suo peso; morte che avveniva in seguito alle gravissime lesioni riportate nella precipitazione e consistite in "frattura chiusa della base cranica con emorragia subaracnoidea, subdurale ed extradurale con commozione cerebrale", decesso che si verificava in ambito ospedaliero per "sepsi insorta in soggetto con esiti di grave trauma cranico fratturativo con emorragia meningea, sottoposto a ripetuti interventi chirurgici". In (OMISSIS) le lesioni ed in (OMISSIS) il decesso.

3. Con sentenza del 13.2.2012 la Corte d'Appello di Torino, in riforma della decisione di primo grado, mandava assolti dei reati loro ascrittigli gli appellanti C. e G. non ritenendo che fosse stata raggiunta la prova del loro contributo causale nella determinazione dell'evento morte.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino.

La Corte di Cassazione - 4 sezione penale- con sentenza 6749/13 del 6.11.2012 dep. l'11.2.2013 annullava senza rinvio la sentenza n. 2085/2011 pronunciata dalla Corte d'Appello di Torino il 13.2.2012 nei confronti di G.M.G.R. per essersi il reato estinto per intervenuta morte del reo e annullava la medesima pronuncia nei confronti di C.A. con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Torino.

La Corte d'appello di Torino con sentenza del 12.6.2013 in parziale riforma della sentenza del tribunale di Torino, in sede di rinvio, tenuto conto della già ritenuta prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante, riduceva la pena inflitta a C.A. ad un anno di reclusione, concedendo alla stessa i benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p., confermando nel resto la decisione di primo grado e dando atto della avvenuta revoca della costituzione delle parti civili.

4. Ricorre per la cassazione del provvedimento C.A., a mezzo del proprio difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. Erronea applicazione della legge penale (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 2) ovvero illogicità della motivazione, risultante dal provvedimento impugnato, per quanto attiene alla questione sulla cooperazione e sul coordinamento legislativamente richiesti in presenza di rischi interferenziali A proposito del rischio interferenziale il difensore ricorrente ricorda che l'imputata è stata ritenuta responsabile del reato di cui all'art. 589 c.p., commi 1 e 2, perchè, in qualità di legale rappresentante della sas A., dopo aver ricevuto in appalto dalla O. srl dei lavori di copertura di un fabbricato ed aver subappaltato gli stessi alla ditta P.L., non avrebbe posto in essere una opportuna attività di coordinamento tra le ditte stesse, così contribuendo a cagionare la morte di S.T. che, salito sulla tettoia prima che venisse approntata la tesata in acciaio necessaria per assicurare le cinture di sicurezza, essendo privo di ancoraggi, precipitava al suolo.

Il ricorrente dissente dalle conclusioni cui è pervenuta la Corte d'appello di Torino in sede di rinvio, deducendo che la stessa sarebbe incorsa in errore in ordine alla sussistenza dei presupposti necessari, per poter ritenere esigibile dal subappaltante un'attività di cooperazione e di coordinamento rilevante ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 2.

Come noto, infatti, il presupposto imprescindibile della cooperazione e del coordinamento è la contestuale presenza di più lavorazioni di diverse ditte sul medesimo luogo, lavorazioni che, venendo in necessario contatto tra loro, determinano la necessità di regolarizzarne le modalità di effettuazione, al fine di meglio tutelare i lavoratori di ciascuna di esse dai rischi determinati proprio dalla coesistenza.

Viene ricordata la giurisprudenza di questa Suprema Corte in materia ed in particolare la sentenza numero 28197/2009.

Ad avviso del ricorrente nella fattispecie oggetto del presente ricorso, come già correttamente evidenziato dalla Corte di appello con la sentenza di assoluzione del 13/2/2012, non vi sarebbe stato alcun rischio interferenziale tra i lavoratori della ditta committente O. srl e quelli della subappaltatrice P.L.. E meno che mai ve ne sarebbero potuti essere tra i lavoratori delle ditte sopra indicate e quelli della subappaltante A. sas, atteso che quest'ultima era priva di dipendenti, svolgeva il solo ruolo di fornitrice di materiali, alla ditta subappaltatrice incaricata della materiale esecuzione dei lavori.

Invero si sostiene che, come emergerebbe con estrema chiarezza dalle risultanze di merito, i lavoratori della P.L. accedevano al tetto attraverso trabattelli, che consentivano loro l'accesso dall'esterno, mentre i lavoratori della O. srl lavoravano solo all'interno.

L'unica ipotesi di possibili interferenze era ravvisabile con riferimento al momento in cui le lavorazioni si sarebbero concretizzate nella rimozione delle lastre di eternit, atteso che ciò avrebbe cagionato lo sbriciolamento di polveri nocive non solo sul tetto, ma intorno a tutta l'area circostante e, quindi, anche quella sottostante, ancorchè inaccessibile, in cui prestavano la loro opera i lavoratori della O. srl. E non a caso -si fa rilevare- proprio su questo specifico punto, l'odierna imputata, in adempimento dei doveri di coordinamento tra le diverse imprese che in quel caso sarebbero giustamente venuti in essere, comunicava la necessità di sospensione dei lavori con la raccomandata del 22.9.2005 in cui veniva specificato che durante i lavori di rimozione si richiedeva che nessuno potesse in alcun modo accedere all'area delimitata di cantiere e di stoccaggio, occorreva chiudere le finestre e i portoni durante lavori di smantellamento e sospendere qualsiasi lavorazione o manutenzione.

Nella missiva de quo si legge che la A. sas si riservava la sospensione dei lavori se non fossero state osservate le norme di sicurezza sopradescritte.

La stessa provvedeva, inoltre, a nominare un responsabile dei lavori nella persona di G.M., cui, come emerge dal POS, spettava proprio il compito di ispezionare l'area di cantiere al fine di verificare l'eventuale interferenza con facoltà di sospensione dei lavori. Ma tale riferimento non può che ritenersi in conferente -si osserva in ricorso- poichè i lavori di rimozione di lastre, i soli in grado di generare interferenze, non erano ancora iniziati ma soprattutto perchè l'infortunio è occorso proprio in un momento in cui la ditta P.L. effettuava le lavorazioni che non comportavano la diffusione di polveri di amianto e che le competevano nella dovuta autonomia, in esecuzione del contratto di subappalto.

Dal contratto di appalto tra la A. sas e la ditta P.L. emergerebbe, infatti, con incontrovertibile chiarezza che, per le lavorazioni da svolgere, gli oneri di sicurezza erano a carico della ditta subappaltatrice.

Si lamenta che la Corte territoriale avrebbe fatto cattivo governo dei principi espressi dalla Quarta Sezione di questa Suprema Corte con la sentenza del 6.11.2012 anche con riferimento al punto in cui si ricordava che gli obblighi di sicurezza relativi al coordinamento ed alla cooperazione devono essere adempiuti già nella fase prodromica alle lavorazioni non solo in quelle successive.

Il ricorrente sostiene di condividere tali argomentazioni, ma che, però, le stesse debbano essere lette con riferimento ai rischi interferenziali, gli unici su cui poteva essere ritenuto esigibile un contributo dell'odierna ricorrente.

L'approntamento delle sicurezze, già in fase prodromica alle lavorazioni, spettava - secondo la tesi proposta in ricorso- a ciascun datore di lavoro con riferimento ai propri lavoratori, ma non poteva essere ritenuto oggetto dell'attività di coordinamento tra gli stessi se di coordinamento non si poteva per definizione, parlare, attesa l'insussistenza di alcuna interferenza.

Argomentare in senso contrario -ci si duole- comporterebbe un'inaccettabile violazione dei principi di tassatività e di personalità della responsabilità penale che governano il nostro ordinamento.

Viene affrontato poi il problema dell'ingerenza, ricordando come, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (vengono citate le sentenze 5069/1996 e 36857/2009) l'ingerenza rilevante ai fini della responsabilità del committente dei lavori non si identifica con qualsiasi atto o comportamento posto in essere da quest'ultimo, ma deve considerarsi in un'attività di concreta interferenza sul lavoro altrui, tale da modificarne la modalità di svolgimento ed a stabilire comunque con gli addetti ai lavori un rapporto idoneo ad influire sull'esecuzione degli stessi. Si ricorda, ancora, che il committente risponde penalmente degli eventi dannosi subiti dai dipendenti dell'appaltatore quando si sia inserito nell'esecuzione dell'opera mediante una condotta che abbia determinato o concorso a determinare l'inosservanza di norme di legge, regolamento o prudenziali poste a tutela degli addetti, esplicando così un effetto sinergico nella produzione dell'evento di danno; non può invece essere considerata ingerenza e non è pertanto idonea ad estendere all'appaltante obblighi e responsabilità proprie del datore di lavoro la condotta del committente che consista nella sollecitazione ad osservare le misure di sicurezza, ad adottare presidio di tutela, a comportarsi con prudenza e cautela (sentenza 3516/2000).

Si sostiene che nel caso di specie difetti proprio la prova di un'effettiva ingerenza dell'odierna ricorrente nelle attività proprie della ditta P. e si rimandanda, ancora una volta, alle argomentazioni sostenute dalla Corte di appello di Torino nella sentenza del 13/2/2012.

Si contesta, sotto il profilo della manifesta illogicità della motivazione, quanto enunciato dalla Corte territoriale nel provvedimento impugnato, secondo cui sarebbe emerso che l'odierna ricorrente supervisionasse il lavoro e impartisse disposizioni ai dipendenti, affermando che in realtà l'odierna ricorrente era solo stata vista in una circostanza unitamente al responsabile di cantiere G.M.. Le raccomandazioni di prestare attenzione alla ditta P.L. sarebbero state peraltro rivolte proprio da quest'ultimo mentre l'odierna ricorrente non si sarebbe mai intromessa in alcun modo nella gestione dei lavori.

Si afferma in ricorso che non si comprendeva da quale dato la Corte di appello desuma la costante presenza in cantiere della donna a fronte di un testimoniale di opposto avviso, tra cui lo stesso teste L., richiamato a conforto di tale circostanza, che tuttavia come detto, riferiva sulla circostanza che il G. (responsabile di cantiere) e non l'odierna ricorrente passasse in cantiere e desse qualche raccomandazione.

Appare, pertanto, secondo la ricorrente di tutta evidenza che, ammesso che di ingerenza si possa parlare, essa sia solo riferibile alla posizione del responsabile di cantiere e non già all'odierna imputata.

Invero tali riscontri conforterebbero, altresì, l'impossibilità di desumere un'effettiva ingerenza dalla circostanza che il POS della P.L. sia stato, per errore, redatto su carta intestata A. sas: si tratterebbe infatti di un mero refuso che non avrebbe riscontro nella reale situazione di cantiere.

Analoghe osservazioni devono essere fatte -secondo il ricorrente- con riferimento alla mera sottoscrizione dello stesso anche da parte della C..

Tale dato, lungi dall'indicare che la stessa intendesse sostituirsi al P.L. nella gestione dei dipendenti, avrebbe rappresentato solo un placet quale espressione dell'attività di cooperazione e coordinamento, richiesta dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 2 allora vigente, attività che, come anticipato, si rendeva necessaria con riferimento alla successiva rimozione delle lastre di eternit.

Per tali motivi viene chiesto a questa Corte di Cassazione di annullare l'impugnata sentenza.

Diritto

1. I sopra illustrati motivi sono infondati e pertanto il proposto ricorso va rigettato.

2. La 4^ Sezione di questa Corte di Cassazione con la sentenza numero 6749/2013 ha annullato con rinvio per quanto riguarda l'odierna ricorrente la sentenza della Corte d'appello di Torino del 13/2/2012 più volte richiamata in ricorso.

Come si ricorda a pag. 7 della richiamata pronuncia di legittimità alla C. è stato ascritto di avere concorso con colpa alla morte del lavoratore per non aver cooperato all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto e di aver omesso di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui erano esposti i lavoratori, ponendo in essere uno scambio di informazioni con il P., anche al fine di i rischi dovuti alle interferenze tra i lavori della diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva, richiamandosi al riguardo il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 2.

La norma in questione, rubricata "contratto di appalto e contratto d'opera" prevede che, nell'ipotesi di cui al comma 1 (quella in cui i datori di lavoro affidino dei lavori ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonchè nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima) i datori di lavoro: "a) cooperano all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto; b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva".

Orbene, la sentenza cassata veniva annullata perchè questa Corte di legittimità rilevava come la corte d'appello, nella pronuncia del 13.2.2012, pur prospettando l'assenza di prova in ordine al contributo causale offerto al verificarsi dell'evento, aveva nella sostanza negato che la C. fosse titolare di obblighi di sicurezza in relazione ai lavori da eseguirsi sul tetto a cura della ditta P..

Si rimproverava, in particolare, al giudice di secondo grado di avere omesso ogni motivazione in ordine alla ingerenza nei lavori da parte della C., diffusamente argomentata dal giudice di prime cure (si richiamava in particolare pagina 10 della sentenza del tribunale). Ingerenza che, qualora confermata, avrebbe avuto l'effetto di attribuire alla odierna ricorrente l'obbligo di assicurare direttamente la sicurezza dei lavoratori addetti all'attività subappaltata, quanto meno assicurandosi che le prescrizioni imposte della ditta P. fossero osservate.

Si censurava, poi, anche il fatto che il giudice dell'appello, nella prima sentenza, avesse inteso verificare l'esistenza e l'adempimento degli obblighi gravanti sull'assunto appaltante nella ridotta visuale del limitato arco temporale tra la visita degli ispettori, momento in cui essa assume che i lavori di rimozione delle lastre di eternit non erano ancora iniziati, e l'evento illecito.

Si tratterebbe -secondo la sentenza della quarta sezione di questa Corte -di una delimitazione errata, atteso che gli obblighi di protezione si estendono ad ogni fase dell'attività lavorativa, quindi, nel caso che ci si occupa, anche alla fase propedeutica a quella di rimozione delle lastre di eternit.

Pertanto si rimproverava alla Corte territoriale di non aver argomentato in ordine al mancato controllo da parte del subappaltante in ordine alla predisposizione dei mezzi necessari all'istallazione della tesata (dando conto dell'affermazione del primo giudice, secondo la quale in cantiere non erano presenti i piedini che dovevano permettere l'ancoraggio della stessa). Solo dopo aver verificato, alla luce di tali principi, la conformità della condotta della C. alle prescrizioni imposte ed al ruolo in concreto assunto, la Corte d'appello avrebbe potuto poi porsi il problema della efficienza causale della condotta commessa.

3. Ebbene, sulla scorta di tali principi la Corte territoriale nella sentenza impugnata ha offerto una motivazione logica e congrua, immune dai denunciati vizi di legittimità sia sotto il profilo della dedotta violazione di legge che di quello del vizio motivazionale, nonchè coerente con tutta l'elaborazione giurisprudenziale che questa Corte di legittimità ha offerto negli ultimi anni sulla materia.

In proposito, va ricordato, in primis, che, in materia di infortuni sul lavoro in un cantiere il committente rimane il soggetto obbligato in via principale all'osservanza degli obblighi imposti in materia di sicurezza, D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494, ex art. 6, come modificato dal D.Lgs. 19 novembre 1999 n. 528 (cfr. sez. 4, n. 1511 del 28.11.2013, dep. il 15.1.2014, Schiano Di Cola e altro, rv. 259086; conf. sez. 3, n. 7209 del 25.1.2007, rv. 235822; sez. 4, n. 23090 del 14.3.2008, rv. 240377).

Peraltro, il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 cit., comma 3 prevede che incombe sul datore di lavoro committente promuovere la cooperazione e il coordinamento e che tale obbligo debba ritenersi escluso soltanto nel caso previsto dall'art. 7 ricordato, comma 3, u.p. (che esclude l'obbligo per il datore di lavoro committente per i "rischi specifici delle attività delle imprese appaltataci o dei singoli lavoratori autonomi").

L'esclusione, dunque, è prevista non per le generiche precauzioni, da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti, ma per quelle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale, normalmente assente in chi opera in settori diversi nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine.

Evidentemente, come più volte sottolineato da questa Corte di legittimità in casi analoghi, non può considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di impedire cadute da parte di chi operi in altezza essendo, questo pericolo, riconoscibile da chiunque indipendentemente dalle sue specifiche competenze (cfr, ex plurimis, sez. 4, n. 12348 del 29.1.2008, rv. 239252).

E' stato più volte affermato che il committente in tali casi è titolare di una autonoma posizione di garanzia e può essere chiamato a rispondere dell'infortunio subito dal lavoratore qualora l'evento si colleghi causalmente ad una sua colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata adozione o l'inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini (cfr. sez. 4, n. 10608 del 4.12.2012 dep. il 7.3.2013, Bracci, rv. 255282, fattispecie in tema di inizio dei lavori nonostante l'omesso allestimento di idoneo punteggio). E, ancora nello specifico del rischio-caduta, è stato recentemente ribadito - e va qui riaffermato- che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d'appalto, il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (così la già citata sez. 4, n. 1511 del 28.11.2013, dep. il 15.1.2014, Schiano Di Cola e altro, rv. 259086, che, in applicazione del principio, ha escluso che potesse andare esente da responsabilità il committente che aveva omesso di attivarsi per prevenire il percepibile rischio di caduta di due operai che operavano su un cornicione, la cui instabilità risultava peraltro ben nota all'imputato).

4. Invero, va detto, che gli odierni motivi di ricorso, ancorchè proposti con riferimento ad un'assunta violazione di legge ovvero ad un'illogicità della motivazione, più che sollevare dei vizi di legittimità paiono sollecitare a questa Corte Suprema una rivalutazione del compendio probatorio che, con tutta evidenza, le è inibita.

Sulla scorta del principio giuridico dianzi ricordato, cui era tenuta ad attenersi ai sensi dell'art. 627 c.p.p., comma 3, la Corte torinese rileva come la giurisprudenza di legittimità non abbia mai dubitato del fatto che anche il subappaltante rientri tra i titolari degli obblighi di sicurezza individuati dalla legge, in particolare dal D.Lgs. n. 626 del 1994.

Nel caso che ci occupa è pacifico che i lavori commissionati dalla committente O. alla ditta affidataria A. avessero ad oggetto la sostituzione con lastre in alluminio delle lastre di eternit che costituivano il tetto dell'edificio entro il quale la ditta committente svolgeva le proprie attività.

Viene valorizzato, in una motivazione logica e congrua -e che pertanto appare immune dai denunciati vizi di legittimità- il fatto che nel piano di lavoro predisposto dalla ditta P.L. era stato previsto l'approntamento, in via preliminare di una tesata, alla quale l'operatore avrebbe dovuto assicurare la cintura di sicurezza per potersi muovere senza pericolo sul tetto e, soprattutto sui lucernari; tuttavia la tesata non era stata posizionata (peraltro viene evidenziato che in cantiere non erano presenti i piedini che dovevano permettere l'ancoraggio della stessa). Inoltre i lavoratori non erano stati addestrati sul corretto utilizzo della cintura di sicurezza, che comunque non avrebbero potuto utilizzare perchè non era stata posizionata la tesata.

La Corte territoriale, dunque, fa propria la valutazione del PG, che aveva portato all'annullamento della prima sentenza da parte della Cassazione, affermando che la valutazione del rischio-caduta del lavoratore, rischio principale tipico per chi svolge attività lavorativa in quota, doveva essere apprezzato non soltanto dal datore di lavoro P. ma anche dai diversi soggetti a vario titolo coinvolti nel sistema di sicurezza del cantiere, trattandosi di rischio non specifico dell'impresa appaltatrice.

Si trattava, come viene condivisibilmente evidenziato, di un rischio generico ed agevolmente apprezzabile anche per i titolari della ditta appaltatrice.

5. In sentenza viene, tuttavia, motivato anche in ordine all'ingerenza dell'odierna imputata (insieme al G.), che avrebbe dovuto controllare lo svolgimento dei lavori e sovraintendere ai medesimi occupandosi anche dei profili di sicurezza del cantiere, in quanto entrambi sempre presenti in cantiere e perchè "avevano avallato decisioni che riguardavano i dipendenti della ditta P., con ciò assumendosi responsabilità anche in ordine agli stessi".

La motivazione della sentenza impugnata rimanda alla testimonianza di L.F. all'udienza del 3 febbraio 2009 e alla circostanza che il piano di sicurezza della ditta P. era stato redatto su carta intestata della A. sas e firmato anche dalla C. e dal G., operando una condivisibile e logica valutazione di inverosimiglianza circa l'affermazione difensiva che entrambe le circostanze fossero il frutto di una sorta di "svista".

Logica e coerente appare la motivazione in tal senso offerta dalla Corte territoriale laddove afferma che gli obblighi di sicurezza dovevano essere adempiuti anche nella fase prodromica all'esecuzione dei lavori e che il dovere di coordinamento di cui al citato art. 7 impegnava i responsabili della ditta appaltatrice, tra cui l'odierna ricorrente, ad esigere dalla ditta P. l'allestimento delle protezioni. E, invece, la C. non era intervenuta per pretendere il rispetto delle norme di sicurezza previste in astratto dal POS della ditta subappaltatrice che peraltro aveva controfirmato. Lo stesso ricorrente, in proposito, ricorda che il POS della ditta P. L. era stato redatto su carta intestata della A. sas e sottoscritto anche dall'odierna ricorrente, giustificando tali circostanze, davvero poco plausibilmente, come "un mero refuso" che non avrebbe riscontro nella reale situazione di cantiere.

Va ricordato che è costante l'orientamento di questa Corte regolatrice (cfr. sez. 4 n. 30857 del 14.7.2006, sodi, rv. 234828) secondo il quale, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, quantunque l'obbligo di cooperazione tra committente e appaltatore (o tra appaltatore e subappaltatore) ai fini della prevenzione antinfortunistica con informazione reciproca, previsto specificamente dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 2, non esiga che il committente intervenga costantemente in supplenza dell'appaltatore quando costui, per qualunque ragione, ometta di adottare le misure di prevenzione prescritte, deve tuttavia ritenersi che, quando tale omissione sia immediatamente percepibile (consistendo essa nella palese violazione delle norme antinfortunistiche), il committente, che è in grado di accorgersi senza particolari indagini, come nel caso in esame, dell'inadeguatezza delle misure di sicurezza, risponde anch'egli delle conseguenze dell'infortunio eventualmente determinatosi.

La sentenza impugnata, dunque, opera un buon governo dei principi più volte affermati da questa Corte nel senso che in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la responsabilità dell'appaltatore non esclude quella del committente, che è corresponsabile qualora l'evento si ricolleghi causalmente ad una sua omissione colposa (sez. 4, n. 37840 del 1.7.2009, Vecchi ed altro, rv. 245275).

6. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2015.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2015