Responsabilità del committente e dell'appaltatore per un infortunio occorso ad un lavoratore:  l'infortunio era stato determinato dalla perdita di equilibrio mentre si trovava su di una scala priva di tutti i presidi di sicurezza o altre attrezzature adeguate, appoggiata semplicemente ad una trave.

A ciascuno dei due imputati era stata attribuita la titolarità della posizione di garanzia, nella qualità, rispettivamente, di committente (il V.) ed appaltatore (lo Z.) in considerazione della palese violazione di quanto previsto dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 19, in materia di sicurezza delle scale, e, più in generale, dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 1, con riferimento agli obblighi del datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature adeguate al lavoro da svolgere ed idonee ai fini della sicurezza sul lavoro.


Condannati, ricorrono entrambi in Cassazione - Inammissibili

"Ciò che rileva ai fini dell'affermazione della responsabilità del V. è che, in materia di normativa antinfortunistica, l'obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro si estende anche ai soggetti che nell'impresa hanno prestato la loro opera, quale che sia stata la forma utilizzata per lo svolgimento della prestazione.
E' di decisivo rilievo, in proposito, il disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2.
Tale obbligo è di così ampia portata che non può distinguersi, al riguardo, che si tratti di un lavoratore subordinato, di un soggetto a questi equiparato (cfr.
D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 3, comma 2) o, anche, di persona estranea all'ambito imprenditoriale, purchè sia ravvisabile il nesso causale tra l'infortunio e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza.
Infatti, secondo assunto pacifico e condivisibile, le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate finanche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi."
"Nè la responsabilità dell'appaltatore esclude, infatti, in caso di infortunio, la configurabilità della responsabilità anche del committente".
"Questi, infatti, in termini generali, è corresponsabile qualora l'evento si colleghi casualmente anche alla sua colposa omissione e ciò avviene, ad esempio, quando abbia consentito l'inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose, come nel caso in esame, in cui non erano presenti in cantiere attrezzature idonee per l'esecuzione dei lavori. Inoltre, il committente può essere chiamato a rispondere dell'infortunio qualora l'omessa adozione delle misure di prevenzione prescritte sia immediatamente percepibile cosicchè il committente medesimo sia in grado di accorgersi dell'inadeguatezza delle stesse senza particolari indagini; mentre, in questa evenienza, ad escludere la responsabilità del committente, non sarebbe sufficiente che questi abbia impartito le direttive da seguire a tale scopo, essendo comunque necessario che ne abbia controllato, con prudente e continua diligenza, la puntuale osservanza".
"In questa prospettiva correttamente l'addebito è stato ritenuto a carico del V., il quale, nella qualità committente, di fatto si era ingerito - fornendo le attrezzature, sia pure inadeguate, ed intervenendo con istruzioni e diretto controllo sull'attività dei lavoratori - nell'esecuzione delle opere appaltate di ripulitura e tinteggiatura del capannone in cui si è verificato l'incidente."

Per quanto riguarda la responsabilità dell'appaltatore, la Corte afferma che:
"L'essersi avvalso per l'esecuzione delle opere oggetto di appalto di un lavoratore - pur non regolarmente assunto -, senza fornire al medesimo dettagliate informazioni sui rischi specifici e senza collaborare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione del lavoratore dal rischio di incidenti connessi alla esecuzione della prestazione, consente di ritenere legittimo il giudizio di sussistenza dell'addebito, argomentato dai giudici di merito proprio sulle omissioni sopra specificate."

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Presidente -
Dott. ZECCA Gaetanino - Consigliere -
Dott. IACOPINO Silvana Giovan - Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
1) V.A. N. IL (OMISSIS);
2) Z.C. N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 01/12/2006 CORTE APPELLO di BRESCIA;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. PICCIALLI PATRIZIA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. MONTAGNA Alfredo, che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi;
udito il difensore di Z. Avv. OLIVATI Riccardo del Foro di Bergamo, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.


FattoDiritto


Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Brescia confermava in punto di responsabilità quella di primo grado, con la quale V.A. e Z.C. erano stati ritenuti responsabili del reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica e dalla durata della malattia in danno del lavoratore S.P..
Trattavasi di un infortunio sul lavoro occorso in data (OMISSIS) contestato a V.A., nella qualità di legale rappresentante della s.r.l. OVA, committente-appaltante i lavori di pulitura del capannone ove si era verificato l'infortunio e Z.C., quale appaltatore dei predetti lavori.
Le modalità dell'infortunio, come ricostruite dai giudici di merito sotto tuttora oggetto di contestazione da parte dei prevenuti.
Dal capo di imputazione e dalla sentenza impugnata emerge, in vero, che: il giorno dell'infortunio, lo Z. accompagnò il S., cittadino (OMISSIS) non ancora regolarizzato in Italia nè assunto ufficialmente, nel capannone del V., ove il lavoratore era stato adibito alla pulizia dei locali ed alla tinteggiatura; il S. per svolgere tale incarico si era avvalso dei materiali posti a disposizione del committente, il quale in alcune occasioni lo aveva assistito, tenendogli la scala; l'infortunio era stato determinato dalla perdita di equilibrio mentre il S. si trovava sulla scala priva di tutti i presidi di sicurezza o altre attrezzature adeguate, appoggiata semplicemente ad una trave; il lavoratore era caduto da un'altezza di circa due metri,riportando un trauma cranico encefalico con frattura dal quale derivava una malattia giudicata guaribile in oltre quaranta giorni.
A ciascuno dei due imputati era stata attribuita la titolarità della posizione di garanzia, nella qualità, rispettivamente, di committente (il V.) ed appaltatore (lo Z.) in considerazione della palese violazione di quanto previsto dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 19, in materia di sicurezza delle scale, e, più in generale, dal D.P.R. n. 626 del 1994, art. 35, comma 1*, con riferimento agli obblighi del datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature adeguate al lavoro da svolgere ed idonee ai fini della sicurezza sul lavoro.


Propongono ricorso per Cassazione, tramite difensore, entrambi i prevenuti.

Nell'interesse del V. vengono articolati tre motivi.

Con il primo motivo, si deduce l'erronea applicazione dell'art. 192 c.p.p. sul rilievo della erronea valutazione delle prove acquisite nel processo penale. In particolare si sostiene la tesi difensiva secondo la quale il S. aveva ottenuto di eseguire i lavori di pitturazione proprio quel giorno in cui si verificò l'incidente e che la tinteggiatura del soffitto del capannone era stata una iniziativa del tutto estemporanea ed imprevedibile del lavoratore, il quale avrebbe dovuto svolgere opere di manutenzione e tinteggiatura esclusivamente sulle pareti raggiungibili con il pennello e con il rullo e non già il soffitto.

Con il secondo motivo, si duole della manifesta illogicità della motivazione laddove l'addebito di responsabilità a carico del V. era stato fondato sulla violazione della normativa in tema di sistemazione ed assicurazione delle scale mentre dagli atti emergeva che la scala, anche dopo la caduta del S., era appoggiata alla parete. Tale dato di fatto, secondo il difensore, avvalorava la tesi che il S. non fosse caduto dalla scala (ma eventualmente dagli scaffali ove si era arrampicato con i rulli) o che il lavoratore fosse precipitato dalla scala perchè colto da malore. In entrambe le ipotesi era da escludere ogni addebito a carico del V..

Con il terzo motivo, si censura la sentenza anche nella parte relativa alle statuizioni civili, sostenendosi l'illogicità della motivazione nella parte in cui lo aveva condannato al pagamento di una provvisionale di Euro 60.000,00, ritenendo la gravità delle lesioni e la sussistenza di una invalidità permanente solo sulla scorta di un certificato di pronto soccorso attestante il trauma cranico subito a seguito dell'infortunio, senza espletamento di una perizio medico legale.

Nell'interesse dello Z. viene articolato un unico motivo con il quale si lamenta la carenza di motivazione sotto più profili.
Innanzitutto, si sostiene che il semplice accompagnamento del lavoratore, non ancora assunto in quanto temporaneamente privo del permesso di soggiorno, era stato erroneamente interpretato, in assenza di riscontri, nel senso che lo Z. aveva disposto personalmente o assentito alle direttive del V. circa lo svolgimento delle mansioni di pulitura del soffitto. Contrariamente a quanto affermato in sentenza, non vi era stata alcuna parziale ammissione da parte dello Z. in merito alle disposizioni impartite alla parte civile per la tinteggiatura, delle quali il coimputato si era assunto l'esclusiva paternità. La responsabilità era stata, pertanto, fondata esclusivamente sulle dichiarazioni interessate della parte offesa.

Entrambi i ricorsi sono manifestamente infondati.

Con riferimento al ricorso proposto dal V. si osserva quanto segue.
I primi due motivi, afferenti la ricostruzione del fatto, meritano trattazione congiunta.
La sentenza impugnata non presenta vuoti motivazionali nè è caratterizzata dalle asserite illogicità e violazioni di legge.
La Corte di appello ha tenuto conto degli elementi acquisiti e ha affermato che la dinamica dell'infortunio dovesse essere ricostruita nei termini indicati dal giudice di primo grado.
I giudici di merito, con motivazione logica e coerente, hanno escluso che l'iniziativa di salire sulla scala al fine di tinteggiare il soffitto del capannone sia stata assunta estemporaneamente ed imprevedibilmente dal lavoratore proprio quel giorno in cui si verificò l'incidente ed hanno ritenuto che i due imprenditori si fossero accordati perchè il giovane svolgesse le opere di tinteggiatura, iniziate qualche giorno prima dell'infortunio, con la promessa di successiva assunzione al rilascio del premesso di soggiorno.
Siffatte conclusioni sono state fondate sulla valorizzazione delle testimonianze rese dalla persona offesa, riscontrate dalle fotografie in atti, attestanti lo stato di avanzata esecuzione della tinteggiatura e di quelle della dipendente dell'ASL, intervenuta nella immediatezza dei fatti, nonchè sulle dichiarazioni rilasciate dallo stesso imputato in dibattimento.
Il ricorrente ripropone anche in questa sede una ricostruzione del fatto non risultante dal testo della sentenza e come tale preclusa alla cognizione del giudice di legittimità, risolvendosi in una censura sulla valutazione delle emergenze fattuali della vicenda come ricostruite dal giudice di merito, pur in presenza di una motivazione logicamente argomentata.
Analoghe considerazioni valgono in merito alla doglianza concernente l'addebito formulato nei confronti del V., laddove si sostiene la non configurabilità della violazione della normativa in tema di sicurezza delle scale, giacchè tale attrezzo, anche dopo la caduta, sarebbe rimasta appoggiata alla parete.
Al di là delle censure concernenti la ricostruzione fattuale dell'episodio, qui improponibili per quanto sopra esposto, tale circostanza, come già evidenziato nella sentenza impugnata, non modifica i termini della responsabilità dell'imputato, al quale è stato contestato anche di non avere fornito il lavoratore di tutti i presidi di sicurezza o altre attrezzature adeguate (D.P.R. n. 626 del 1994, art. 35, comma 1*), tra le quali certamente rientra il rullo, nella specie risultato inidoneo a raggiungere l'altezza del soffitto.
Ciò che rileva ai fini dell'affermazione della responsabilità del V. è che, in materia di normativa antinfortunistica, l'obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro si estende anche ai soggetti che nell'impresa hanno prestato la loro opera, quale che sia stata la forma utilizzata per lo svolgimento della prestazione.
E' di decisivo rilievo, in proposito, il disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2.
Tale obbligo è di così ampia portata che non può distinguersi, al riguardo, che si tratti di un lavoratore subordinato, di un soggetto a questi equiparato (cfr. D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 3, comma 2) o, anche, di persona estranea all'ambito imprenditoriale, purchè sia ravvisabile il nesso causale tra l'infortunio e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza.
Infatti, secondo assunto pacifico e condivisibile, le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate finanche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi.
Ciò, tra l'altro, dovendolo desumere dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 4, comma 5, lett. n), che, ponendo la regola di condotta in forza della quale il datore di lavoro "prende appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno", dimostra che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, anche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa (cfr. anche, Sezione 4, 24 giugno 2008, Ansalone ed altro).
Nè la responsabilità dell'appaltatore esclude, infatti, in caso di infortunio, la configurabilità della responsabilità anche del committente (in ossequio alla disciplina di settore: prima, il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7; ora, trasfuso sostanzialmente nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26).
Questi, infatti, in termini generali, è corresponsabile qualora l'evento si colleghi casualmente anche alla sua colposa omissione e ciò avviene, ad esempio, quando abbia consentito l'inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose, come nel caso in esame, in cui non erano presenti in cantiere attrezzature idonee per l'esecuzione dei lavori. Inoltre, il committente può essere chiamato a rispondere dell'infortunio qualora l'omessa adozione delle misure di prevenzione prescritte sia immediatamente percepibile cosicchè il committente medesimo sia in grado di accorgersi dell'inadeguatezza delle stesse senza particolari indagini; mentre, in questa evenienza, ad escludere la responsabilità del committente, non sarebbe sufficiente che questi abbia impartito le direttive da seguire a tale scopo, essendo comunque necessario che ne abbia controllato, con prudente e continua diligenza, la puntuale osservanza (v. Sezione 4^, 30 settembre 2008, Guerriero ed altro).
In questa prospettiva correttamente l'addebito è stato ritenuto a carico del V., il quale, nella qualità committente, di fatto si era ingerito - fornendo le attrezzature, sia pure inadeguate, ed intervenendo con istruzioni e diretto controllo sull'attività dei lavoratori - nell'esecuzione delle opere appaltate di ripulitura e tinteggiatura del capannone in cui si è verificato l'incidente.
In tal senso, i giudici di merito hanno evidenziato che l'imputato era venuto meno ai propri doveri per non avere garantito la sicurezza nel luogo di lavoro (v. in particolare la violazione della normativa della normativa antinfortunistica, con riferimento, nella fattispecie, al D.P.R. n. 626 del 1994, art. 35, comma 1*, riguardante l'obbligo di dotare i lavoratori di attrezzature adeguate al lavoro da svolgere).
Manifestamente infondata è anche la doglianza relativa alle statuizioni civili. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (Sezioni unite, 19 dicembre 1990, Capelli e da ultimo, Sezione 4^, 22 maggio 2009, Riva ed altro) la condanna al pagamento di una provvisionale costituisce un provvedimento di natura parziale e provvisoria, che anticipa in sede penale la valutazione definitiva della sussistenza del danno e non fa stato per sua natura nel processo civile di liquidazione, nè è impugnabile per cassazione, in quanto la sua efficacia è destinata a cessare con la pronuncia della sentenza definitiva che, decidendo il ricorso per cassazione anche con riferimento alle statuizioni sul risarcimento del danno, chiude definitivamente il processo.

Anche il ricorso proposto dallo Z. è manifestamente infondato.

E' del tutto infondata, infatti, la censura svolta con il motivo di ricorso, volta a contrastare la ritenuta sussistenza della posizione di garanzia del ricorrente, sul rilievo della estraneità alle direttive impartite dal committente al lavoratore per la tinteggiatura, delle quali il primo si sarebbe assunto l'esclusiva paternità.
La ricostruzione fattuale dell'episodio, avallata dal ricorrente, è stata puntualmente smentita dai giudici di merito, i quali hanno posto in risalto che lo Z., nella qualità di appaltatore delle opere di pulizia e di tinteggiatura del magazzino della O.V.A., si era avvalso per l'esecuzione dei lavori della prestazione del S..
Il ricorrente introduce argomentazioni di fatto che non possono trovare ingresso in questa sede, facendo riferimento ad una pretesa estraneità allo svolgimento della prestazione lavorativa del S., non assunto regolarmente, in quanto privo del permesso di soggiorno, del tutto destituita di fondamento, come già sopra rilevato, laddove si è trattato della inammissibile diversa ricostruzione dei fatti proposta dagli imputati, già disattesa dai giudici di merito con valutazioni esenti da censura in questa sede.
Sotto questo profilo è manifestamente infondata la doglianza con la quale viene dedotta violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta posizione di garanzia, sostenendosi l'esenzione da responsabilità dell'appaltatore in quanto non compartecipe agli ordini impartiti dal committente al lavoratore.
In realtà, i giudici di merito, alla luce dei dati oggettivi emergenti dall'istruttoria (la data del contratto di appalto, l'accompagnamento personale del S. presso il capannone da parte dello stesso Z., che gli aveva trovato anche alloggio, lo stato avanzato dei lavori, coerente con la data di ultimazione delle opere, fissata nel citato contratto) hanno correttamente ritenuto a carico dell'imputato la sussistenza a carico dell'imputato di una posizione di garanzia, con il conseguente obbligo di provvedere alla tutela dell'integrità fisica del lavoratore, la cui prestazione indubbiamente era stata utilizzata dall'imprenditore per l'esecuzione del contratto di appalto.
Da questa premesse, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, è il conseguente giudizio di sussistenza della colpa e del nesso causale posto alla base della decisione di condanna, avendo il giudicante fornito una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una considerazione fattuale incontrovertibile.
Ciò perchè anche a carico dell'appaltatore, quali che siano stati i rapporti interni con il beneficiario della prestazione, è il rispetto delle disposizioni prevenzionali, appartenendo le norme antinfortunistiche al diritto pubblico ed essendo le stesse inderogabili in forza di atti privati (cfr., per utili riferimenti, Sezione 4^, 8 luglio 1994, Vigani ed altro).
Nè potrebbe valere, in senso contrario, l'invocata causa di esclusione della responsabilità, fondata su una asserita estraneità alle disposizioni impartite dal committente al lavoratore, posto che, come emerge con evidenza dalla sentenza gravata, il ricorrente non aveva in alcun modo cooperato nell'attuazione delle misure di sicurezza e non aveva promosso alcuna attività di coordinamento ai fini della effettiva realizzazione delle misure di sicurezza, tenuto conto che il lavoratore impiegato non era nelle condizioni di autonomia tecnico professionale da poter provvedere ai rischi propri dell'attività che era chiamato ad eseguire (v. D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, commi 2 e 3).
E' in questa prospettiva ermeneutica che vanno apprezzate la correttezza e la logicità della decisione impugnata.
L'essersi avvalso per l'esecuzione delle opere oggetto di appalto di un lavoratore - pur non regolarmente assunto -, senza fornire al medesimo dettagliate informazioni sui rischi specifici e senza collaborare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione del lavoratore dal rischio di incidenti connessi alla esecuzione della prestazione, consente di ritenere legittimo il giudizio di sussistenza dell'addebito, argomentato dai giudici di merito proprio sulle omissioni sopra specificate.
Per le ragioni che precedono i ricorsi vanno dichiarati inammissibili.
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma, che si ritiene equo liquidare in Euro 1.000,00, in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità.


P.Q.M.

dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 luglio 2009.
Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2009


*ndr D.Lgs.